Gen 252018
 

Riceviamo e pubblichiamo

Sabato 27 gennaio porteremo tutta la nostra solidarietà ai detenuti del carcere di Poggioreale,
provando a stare al fianco di chi, rinchiuso in quelle celle, resiste quotidianamente con dignità
all’abbrutimento e all’isolamento dello Stato.
Saremo al carcere di Poggioreale, che rappresenta, forse più degli altri, la cartina al tornasole di quanto possa essere agghiacciante l’infame violenza della detenzione.
Non è un caso che il maxi carcere campano sia tristemente famoso per essere uno dei peggiori
d’Italia. Poggioreale è sovraffollamento, sommersione farmacologica, pestaggi reiterati dai secondini
e puntualmente taciuti. Rispetto a questi ultimi, inizierà il primo marzo 2018 al Tribunale di Napoli il
processo contro alcuni secondini protagonisti delle vicende legate alla tristemente nota “cella zero”.
Il carcere di Poggioreale sorge in una struttura del 1905, con padiglioni talvolta senza intonaco e
celle fatiscenti, buie e piene di muffa, senza docce, con finestre talvolta rotte e riscaldamento non
funzionante.
Le celle sono strapiene: a fronte di una capienza di 1637 detenuti, il carcere di Poggioreale ne tiene
prigionieri più di 2200, con un tasso di sovraffollamento (135%) nettamente più alto rispetto alla
media nazionale (115%).
La casa circondariale di Poggioreale la conosce bene Maurizio Alfieri, deportato qui dal carcere di
Opera, per punizione in regime di isolamento ex art. 14-bis o.p. dopo aver protestato nel carcere
milanese per un miglioramento delle condizioni di detenzione. Il regime di sorveglianza particolare
del 14-bis prevede restrizioni al trattamento e ai diritti dei detenuti ritenuti pericolosi per la sicurezza
penitenziaria e costituisce la forma più atroce di detenzione insieme al regime di 41 bis.
Il detenuto in regime di 41-bis – o in isolamento al 14-bis – cessa di avere qualsiasi diritto scontando
la sua pena come una vera e propria tortura. Al detenuto in 41-bis vengono concesse al massimo 2
ore d’aria, una celletta due metri per tre, un solo colloquio al mese e la possibilità di vedere in tv solo
i canali nazionali. Vi è impossibilità di cucinare, socializzare con gli altri detenuti e avere qualsiasi tipo
di contatto con il mondo esterno.
Misure aittive estreme come il 41bis e il 14bis – nonché l’ergastolo – come potrebbero portare al
raggiungimento dell’obiettivo tanto sbandierato del reinserimento sociale dei condannati?
Ma ancor prima: che pretesa di rieducazione potrebbero avere le gabbie di una società che si basa su
disuguaglianza ed esclusione, miseria e disoccupazione, spingendo migliaia di persone all’illegalità?
Il carcere di fatto esiste per garantire il controllo su quei milioni di persone che ogni giorno subiscono
gli effetti della crisi economica e di un ordine sociale iniquo e ingiusto.
Molte di queste persone si trovano e si troveranno costrette all’extralegalità per ovviare in qualche
modo alle condizioni di marginalità e povertà in cui si trovano.
Attualmente ci ritroviamo con oltre 58.000 adulti detenuti, in costante aumento dagli ultimi provvedimenti
deattivi, a fronte di una certificata – dallo stesso governo – riduzione dei reati commessi.
Ciò significa ritrovarsi con un tasso di sovraffollamento oltre il 115%; condizioni igieniche – già
precarie in condizioni “normali” – ancor più compromesse; spazio al di sotto dei 3 metri quadri per
singolo detenuto; aggravamento dei sistemi contenitivi – fisici e chimici – da parte della polizia
penitenziaria; aumento dei suicidi, che solo nel 2017 sono arrivati a 52, né si sono fermati con l’inizio
del nuovo anno.
Eppure i governi continuano a promuovere politiche securitarie attraverso cui contenere le “pericolosità
sociali”. Un’ideologia securitaria che estende sempre più il confine della carcerazione trasformando
le nostre stesse città in carceri a cielo aperto, con centinaia di telecamere, militari ad ogni angolo e
posti di blocco; grazie alla quale tra la popolazione cresce la richiesta di pene esemplari, per qualsiasi
condotta fuori dagli schemi tracciati dalla “decorosa normalità” della classe dominante.
Contro questa operazione ideologica, basta leggere alcuni dati circa la composizione della popolazione
carceraria per smentire ogni categoria di criminalità e delinquenza intrinseca e di matrice
lombrosiana.
Infatti più del 56% dei detenuti è in carcere per reati contro il patrimonio. Il 34,7% è in carcere per
reati legati alla droga.
Gli analfabeti certificati in carcere sono più dei laureati.
Quasi la metà dei detenuti ha figli da mantenere.
La maggior parte dei detenuti proviene dalle regioni col più basso reddito pro capite e la più alta
disoccupazione. Il 17,6% di tutta la popolazione carceraria è di provenienza Campana (se teniamo
conto dei soli detenuti italiani, la percentuale dei campani si alza al 27,27%, oltre un quarto); seguono
i siciliani, i pugliesi e i calabresi.
Alla luce di questi dati, è quindi facile intuire che non possa esistere un carcere buono – rieducativo e
risocializzante – essendo il carcere stesso una istituzione che assolve alla funzione di riassorbimento e
di allontanamento dalla società di chi non è incluso all’interno dai rapporti di produzione e proprietà
privata.
A ciò va aggiunto che, negli ultimi anni, l’età media dei detenuti è aumentata vertiginosamente.
La fascia di età maggiormente rappresentata è passata da quella dei 30-34 anni nel 2005 a quella dei
35-39 nel 2017, a testimoniare che l’inasprirsi della crisi sociale e la caduta dei tassi di occupazione
hanno inuito in maniera determinante all’interno delle dinamiche sociali, e quindi anche detentive.
Mentre le retoriche securitarie invadono l’opinione pubblica e l’agenda politica strumentalizza il
carcere con promesse ai reclusi di amnistie e miglioramento delle condizioni detentive puntualmente
disattese, noi scegliamo di stare dalla parte dei detenuti, consapevoli del fatto che soltanto attraverso
le forme di solidarietà e la rete di rapporti intrecciati tra l’interno e l’esterno del carcere sia
possibile distruggere l’infame gabbia repressiva che esso rappresenta.
Negli ultimi giorni del 2017 il governo ha licenziato i decreti attuativi della legge delega per la riforma
dell’ordinamento penitenziario.
In linea di massima la riforma dovrebbe prevedere un generale allargamento delle possibilità di
accesso alle misure alternative al carcere. Per un’analisi approfondita delle misure adottate bisognerà
attendere la pubblicazione dei decreti. Alcune osservazioni critiche, però, possono essere fatte già
sulla base della legge delega e dei comunicati del consiglio dei ministri.
Innanzitutto la classica clausola di invarianza finanziaria apposta alla riforma, con la quale si esclude
un potenziamento degli uci di esecuzione penale esterna e della magistratura di sorveglianza,
attraverso i quali dovrebbe essere praticato l’accesso alle misure alternative per i detenuti, mentre
sappiamo, a titolo di esempio, che già ad oggi non è raro il caso che la magistratura di sorveglianza
prenda in esame una domanda di liberazione anticipata quando è già stata espiata per intero la
pena.
Inoltre l’esclusione dell’applicazione della riforma per i detenuti per reati di mafia e terrorismo. Una
differenziazione alla quale siamo stati abituati per decenni e che sembra acquisire sempre maggiore
stabilità per qualsiasi intervento in campo penale o penitenziario.
Proprio sulla scorta dell’esperienza maturata nei decenni, sappiamo che il principio della differenziazione
costituisce uno dei sistemi più abietti attraverso i quali lo Stato frammenta la popolazione
detenuta prevedendo regimi detentivi diversificati. Si tratta di una logica che fa leva su un’opinione
pubblica manipolata quotidianamente in senso giustizialista, attraverso la quale, peraltro, risulta
agevole l’introduzione di dispositivi repressivi (carcerari e non) sempre più stringenti, prima previsti
ed applicati per “i detestabili”, poi puntualmente estesi a tutte le categorie.
E’ un principio in base al quale, mentre si annunciano generali miglioramenti delle condizioni detentive,
già si applicano norme ancor più stringenti per i detenuti in regime di 41-bis, da ultimo previste
dalla circolare del D.a.p. in materia.
E’ un principio che va assolutamente rigettato, e che rigettiamo gridando a gran voce che vogliamo
la liberazione di tutti i prigionieri, nessuno escluso.
Nello stesso senso, peraltro, può e deve essere letta una riforma che, nello sforzo di adeguarsi a
canoni europei di detenzione carceraria, attua sostanzialmente un perfezionamento del sistema
premiale che caratterizza le carceri italiane a partire dall’introduzione dell’ordinamento penitenziario:
il classico sistema del bastone e della carota, differentemente riservati a chi risulta più o meno accomodante
nei confronti dell’amministrazione penitenziaria e delle guardie carcerarie.
Una logica nella quale si rischia di cadere, peraltro, ogniqualvolta si tende a valorizzare una prospettiva
di allargamento delle misure alternative al carcere, che sicuramente migliorerebbe le condizioni di
sopravvivenza intramurarie consentendo ad alcuni detenuti di “beneficiare” di uscite anticipate e
misure meno aittive rispetto alla detenzione in senso stretto, ma che non tiene conto – oltre che di
un processo di atomizzazione delle prospettive di liberazione dal carcere, tale da disinnescare ogni
prospettiva di liberazione collettiva e di definitiva rottura con il sistema-carcere – del processo di
“incarceramento” della società: un processo testimoniato, oltre che dalla visibile militarizzazione e
videosorveglianza dei quartieri, da una invisibile schiera di semi-prigionieri agli arresti domiciliari, in
messa alla prova, in libertà vigilata, ecc.
In sostanza, un ampliamento delle misure alternative non riduce l’incarceramento, ma tende a moltiplicarlo
in maniera meno visibile. A riprova di ciò, a fronte di un costante aumento del numero dei
detenuti (attualmente oltre 58mila), aumenta costantemente anche il numero dei sottoposti a
misure alternative (attualmente oltre 47mila, ed in aumento alla velocità di circa mille persone al
mese).
E mentre si promettono misure alternative e sfollamenti generali, già è stato approvato il progetto
per la costruzione di un maxi carcere a Nola, su cui si aprono nuove prospettive speculative. Questo
nuovo colosso avrebbe dovuto ospitare 450 detenuti, poi aumentati a 900, per arrivare infine ad una
capienza regolamentare di 1.200 detenuti, che potranno realisticamente diventare 2.400 essendo le
celle progettate come singole, questo farebbe dell’Istituto nolano uno dei più capienti carceri in Italia
e rischia di trasformare la Città Metropolitana di Napoli in un vero e proprio distretto del penitenziario.

Facciamo sentire la nostra vicinanza ai detenuti che alzano la testa!

Rafforziamo la lotta contro il carcere, l’isolamento e il 41 bis,
l’ergastolo e la differenziazione!
Amplifichiamo la voce dei reclusi oltrepassando
le mura dell’isolamento carcerario!