Bandi pubblici a Milano: è ora di alzare la voce

Le puntate precedenti (novità, gossip e retromarce) aggiornate alla tarda primavera, le potete rileggere in questo articolo dello scorso giugno.

Lo scorso 28 settembre gli assessori Lucia Castellano (Casa, Demanio e Lavori Pubblici) e Daniela Benelli (Area metropolitana, Decentramento e Municipalità, Servizi civici) hanno presentato la delibera d’indirizzo (vedi comunicato stampa) che da qui a tre mesi dovrebbe aprire alla cittadinanza di Milano milleduecento spazi pubblici oggi inutilizzati. Roba grossa, insomma. Per fare chiarezza: la delibera non mette direttamente a bando nessuno spazio ma intende chiudere il pantano morattiano della chiusura sospettosa nei confronti della cittadinanza attiva, individuando nello stesso tempo nuove linee di indirizzo, in soldoni nuovi criteri, per i futuri bandi pubblici.

Annunciazio’ annunciaziò! Il quotidiano Repubblica fa il battage pubblicitario all’operazione e tutti salgono sul carro (Bonomi, RiusoTemporaneo, DiAP..). Fatto salvo uno scivolone sulle aree Sogemi (i nostri scienziati dimenticano che lo spazio non è vuoto ma recuperato quale terza e stabile sede di Macao) l’unica voce fuori dal coro, e dirla tutta assolutamente incomprensibile, è quella dell’ex assessore allo sviluppo del territorio Masseroli. A sinistra si festeggia ma di ciccia ce n’è poca e i tempi sono a dir poco incerti, l’assessora Benelli prova a fare chiarezza nei giorni successivi. Noi facciamo schema per semplicità:

  • non tutti gli spazi saranno messi a reddito, si prevedono formule di scambio (comodato d’uso a lungo termine ma ristrutturazione a carico degli assegnatari o spazi gratuiti a breve termine)
  • attenzione alle nuove imprese con canoni simbolici per i primi cinque anni
  • non meglio specificati “bandi integrati multifunzione”
  • l’assegnazione di 1200 spazi non è all’ordine del giorno,. Il Comune è in una fase di mappatura e valutazione dei suoi spazi, a partire dal prossimo anno pubblicherà i primi bandi di nuova generazione

Fino a qui si trattava di diradare l’ultima nebbia rimasta a Milano, che non è la scighera ma la propaganda ingiustificata. Ora, oggi ce n’è davvero per tutti, prima di suggerire alcuni nodi problematici dell’operazione bandi, dobbiamo aprire una parentesi che parla di movimenti e di tabù.

Per troppi anni, complice l’astio reciproco con le giunte che si succedevano in città, abbiamo guardato con sospetto e distacco, ma soprattutto distacco, al tema degli spazi pubblici e della loro gestione. Invece di guardare alla città pubblica quale terreno di analisi e scontro, ci siamo limitati ad un critica approssimativa del carattere clientelare e commerciale dei bandi. Se vogliamo costruire una critica più incisiva, cattiva, tagliente all’operato del Comune (e della cintura di associazioni, fondazioni, enti locali, coop, imprese che lo circonda) dobbiamo rinunciare al tabù e guardare ai bandi e alle assegnazioni quali dispositivi di governo del territorio. Contrariamente a quanto pensano i redattori di Repubblica, il Comune non “offre gratis spazi abbandonati”, tutt’al più mette a bando gli spazi comuni (non comunali!) che l’istituzione ha abbandonato nel corso degli anni. Di più. Il modo migliore per rivendicare l’autonomia di progetto, l’autorganizzazione e la legittimità degli spazi che occupiamo e continueremo ad occupare, è una presa di posizione pubblica sull’iniquità dello strumento del bando ieri come oggi.

Non possiamo chiudere questo nostro stimolo alla riapertura di un confronto collettivo, senza esplicitare alcuni elementi critici che la futuribile infornata di assegnazioni non risolverà e non può risolvere:

La città dei pieni e dei vuoti | Come nella migliore tradizione urbanistica accademica, gli spazi della città vengono suddivisi in pieni e vuoti. L’istituzione rinuncia ad un’analisi diacronica , quindi nel tempo, del contesto in cui opera, e si sottrae dal guardare agli spazi pubblici come luogo della storia vissuta. Non soltanto i soggetti informali non vengono riconosciuti, il bando si propone come elemento orientato ad azzerare la vicenda sociale dello spazio pubblico ed istituire l’anno zero della partecipazione in cui, pari e patta, tutti possono partecipare. Immaginate se la Cascina Torchiera fosse messa a bando con la “concessione” agli occupanti che l’hanno ricostruita, animata, vissuta per vent’anni, di partecipare come tutti gli altri. Una visione distorta e inquietante del concetto di uguaglianza.

I criteri tecnico-amministrativi | Per sua stessa ammissione il Comune gestisce un patrimonio storico-architettonico degradato da decenni di idiozia legalizzata. La giunta arancio è disponibile per la prima volta a mettere a bando oltre cento palazzi, anche per lungo periodo, anche in comodato d’uso…ma senza spendere una lira. In quale universo avete mai visto che un gruppo universitari o di ragazzi di quartiere che da sempre col naso all’insù vorrebbero prendersi il loro palazzo abbandonato, possano competere con una fondazione o rete di cooperative? Il bagaglio di disponibilità finanziaria, esperienza e relazioni dei grandi soggetti che operano nella metropoli, chiuderà sempre le porte ai giovani, agli indipendenti, agli irregolari.

Il Comune dà, il Comune toglie | Facciamo un gioco d’immaginazione: si partecipa, anche solo per provocazione, per annusare come funziona, come si fa..insomma, si vince il bando! L’assegnazione segna la stipula di un contratto. Il Comune, che detiene la proprietà e scrive le regole del gioco, ha il diritto di rescindere il contratto quando ravvisasse irregolarità e/o alzate di testa rispetto al progetto presentato. L’autonomia di progetto di uno spazio è sì l’espressione di rapporti di forza, dentro uno spazio legale si possono praticare percorsi assolutamente radicali come in uno spazio formalmente occupato si può cazzeggiare senza fine, ma di sicuro la spada di Damocle della normalizzazione, dell’autocontrollo, del rispetto dei confini ha un peso specifico differente in un luogo “concesso” e non riappropriato.

Il Comune è arancio, il Comune è azzurro | Siamo sempre nel gioco di prima, lo spazio è nostro ma la giunta, attuale o prossima, la questura, la Nato, decide di interessarsi alle nostre vicende. La normalizzazione non parla solo il linguaggio degli sgomberi. Formalizzare la propria iniziativa politica, culturale, sociale ed artistica apre tante porte quanti rischi: espone a multe, fastidiose richieste, pretere di permessi.

Rivendichiamo la ricchezza delle nostre esperienze di autogestione, il loro sedimentarsi e sfaccettare forme molteplici di attivisimo, alla prova della réclame istituzionale sulla partecipazione. Queste note che abbiamo scritto non hanno l’obbiettivo di abbozzare un manifesto “contro”, invitano piuttosto a costruire la difesa di Torchiera, VillaVegan, Lambretta e PianoTerra. Note che parlano dell’impegno a problematizzare alcuni nodi concettuali per arrivare più forti al momento del confronto, della presa di parola, perchè no del conflitto.

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