Il Molino è però una storia collettiva che affonda le sue radici anche nella realtà ticinese. La rivendicazione di un centro sociale autogestito a Lugano nel 1995 ha quasi 30 anni.
Rientrati dal Messico, i tre ragazzi assieme ad altri compagni, danno vita al Collettivo zapatista. Nelle riunioni tenute in uno scantinato nei palazzi popolari di Breganzona, oltre al sostegno alla lotta zapatista, questi ragazzi progettano come concretizzare l’idea di un Centro sociale autogestito. Oltre al Collettivo zapatista, in quel periodo altri gruppi rivendicano un centro autogestito. Il più anziano è il Gruppo per l’Autogestione Socio-culturale (Gas), il secondo si chiama Robin Hood. Il Collettivo zapatista propone un incontro per unire le forze e mostrarsi compatti di fronte alle autorità. Nasce Realtà antagonista (Ra), una federazione di gruppi composta principalmente dal Collettivo zapatista, da Robin Hood e da altri cani sciolti che vi aderiscono. Al termine della riunione i militanti di Ra emettono un comunicato stampa nel quale indicano che per il raggiungimento dell’obiettivo del centro sociale autogestito avrebbero usato «tutti i mezzi possibili». Detto in altri termini, anche con l’occupazione di uno stabile. Questo l’8 aprile 1996. Sei mesi più tardi, il progetto va in porto.

Quella linea di confine

Sabato 12 settembre 1996, Lugano è in mondovisione grazie ai mondiali di ciclismo. Un gruppo di giovani non segue l’avvenimento sportivo. Non gli interessa. Preparano un altro avvenimento, per loro molto più importante. Stanno affinando l’organizzazione per occupare uno stabile che darà vita al primo centro sociale autogestito di Lugano. Ufficialmente è prevista solo una manifestazione che rivendichi la necessità di un centro sociale autogestito. Ad organizzarla è Realtà antagonista, il gruppo più determinato. Tra loro ci sono naturalmente i tre ragazzi della foresta Lacandona del Messico che sognavano di realizzare un centro sociale autogestito concepito come luogo di lotta al neoliberismo. I locali dello stabile prescelto sono stati visitati e ripuliti i giorni precedenti. Autorità e polizia non sospettano nulla sulle reali intenzioni di Realtà antagonista, malgrado una pattuglia abbia fermato alcuni ragazzi del gruppo durante le opere di pulizia dei giorni precedenti. Tutto si è concluso con l’annotazione dei nomi, ma senza capire la vera ragione per cui quei ragazzi stavano pulendo lo stabile. Quel sabato la polizia segue il corteo, composto da circa 300 persone. Sul finale, la sorpresa. Vengono occupati gli stabilimenti degli ex Molini di Viganello, dove a suo tempo si produceva la farina. La polizia comunale di Lugano è disorientata. Lo stabile è in territorio di Viganello, un comune limitrofo a Lugano, giusto sulla strada che fa da confine tra i due comuni. La polizia non sa come reagire, non ha ordini precisi e non ha la competenza territoriale. Decide di aspettare. Nasce così il Centro sociale occupato autogestito (Csoa) il Molino. Da subito diventa un luogo fortemente frequentato, con punte di 1’500 persone nei venerdì o nei sabati. “Chi non okkupa, preokkupa” e “Se non ce lo date, ce lo prendiamo”, dicono i primi striscioni che rivendicano l’occupazione.

“Al fuoco! Al fuoco!”

Sabato 6 giugno 1997, ore 2 e 30 di notte. Al Molino di Viganello ci sono ancora circa 300 persone, perlopiù concentrate nei due bar, il Barabba e lo spazio Bla Bla. Improvvisamente si spengono le luci. I militanti del Molino si guardano stupiti. Tra loro, ci sono anche due dei tre “messicani” che si ciondolavano in amaca nella selva: «Andiamo al quadro elettrico a vedere». La valvola salvavita è scattata. La riposizionano, ma le luci restano spente. Escono dallo stabile. «Al fuoco!» grida qualcuno. Lo sguardo sale fino al quarto piano, alla sala biblioteca. Si vede il bagliore delle fiamme. Panico. «Ok, facciamo uscire tutti. Qualcuno vada a vedere l’incendio». I due ragazzi salgono di corsa, con qualche estintore. Dalla sala biblioteca esce del fumo. Estintore alla mano, sparano la schiuma a casaccio perché non si vede nulla. Primo estintore esaurito, vai con il secondo. Si intravede l’origine dell’incendio dentro un cestino. L’estintore, ormai vuoto, viene conficcato nel cestino per spegnere le fiamme. Sembra finita. Invece, improvviso, un botto. In fondo alla stanza, a circa venti metri, da un altro cestino escono fiamme. Tutt’intorno dei principi d’incendio. Non ci sono più estintori funzionanti. Qualcuno va a prendere delle coperte bagnate, ma quando arrivano le fiamme hanno già attaccato la libreria. L’incendio è fuori controllo, meglio mettersi in salvo. Qualcuno si ricorda delle bombole di gas in cucina. Ci sono anche Maite, la cagna mascotte del centro, e i suoi otto cuccioli nati da un mese. Chi si occupa delle bombole di gas, chi porta fuori i cuccioli e chi cerca di prendere la cagna che per via del fumo corre impazzita. Alla fine tutti fuori, sani e salvi. Dopo un tempo che pare interminabile, arrivano i pompieri. Rabbia e tristezza. Qualcuno piange, qualcun altro impreca. Un sogno che brucia. L’inchiesta di polizia non porterà a nulla. Viene accertato il dolo provocato da una mano professionista, probabilmente pagata da vigliacchi. Nessuno però è stato indagato. Non è stato nemmeno interrogato quel gruppo di cittadini ostili al centro sociale che proprio la settimana prima avevano pubblicamente dichiarato: «riterremo il governo responsabile per qualsiasi incidente, rappresaglia o altra spiacevole situazione che dovesse verificarsi dentro o fuori dal Molino» (ardos, conferenza stampa del 30 maggio 1997). Uno striscione sul Molino ancora fumante: “Come l’Araba Fenice, risorgeremo”.

Cinque anni in periferia

Dopo l’incendio del giugno 1997, il centro sociale il Molino si trasferisce in agosto nella sede del Maglio. La struttura è di proprietà cantonale, messa a disposizione per un periodo transitorio.
Sette comuni della periferia luganese e il Municipio di Lugano s’impegnano nella ricerca di una sede definitiva inserita nel contesto urbano per le attività del centro da trovarsi entro tre mesi. Il Molino rimarrà al Maglio per oltre cinque anni. Lontano dal centro abitato, nelle vicinanze di discariche e del carcere la Stampa, la scommessa del Molino al Maglio era quella di far sì che le attività fossero ugualmente ben frequentate. Nei suoi cinque anni di permanenza al Maglio, il Molino riesce a mantenere alto il livello di proposte sociali, culturali e politiche. In quegli anni, il movimento noglobal di contestazione al neoliberismo s’impone sulla scena mondiale. Il movimento di solidarietà con gli zapatisti messicani ha dato un grande impulso al movimento noglobal. I nostri tre che si trovavano in Messico nel ’95 ora sono al Maglio, e non mancano, insieme a molti compagni, di animare il Molino perché s’inserisca in questa rete di resistenza globale. Il Molino svolge un ruolo importante di collegamento tra le realtà svizzere e italiane. In particolare nelle mobilitazioni al World economic forum di Davos. Punto di raccolta per i movimenti italiani che desiderano partecipare alle manifestazioni di Davos, il Centro autogestito suscita l’interesse della polizia che piazza due telecamere per sorvegliare illegalmente (e probabilmente anche schedare) i partecipanti. Telecamere velocemente scoperte e sequestrate dai militanti del Molino. Anche il canale televisivo Italia 1 di Berlusconi invia una sua giornalista con tanto di telecamera nascosta per filmare “il covo dei noglobal”.
Il Molino, grazie anche alla sua posizione isolata, ospita numerosi senza tetto e clandestini. Principalmente equadoriani, con donne e bambini. I militanti del Centro autogestito li aiutano in caso di arresto, di malattia e di altri problemi derivanti dal loro statuto di clandestini. Nascono anche due bimbi equadoriani al Molino: si chiamano Inti (Sole rosso, nato un primo maggio, tragicamente scomparso in un incidente stradale in Spagna) e Pablo Molino.
Il Molino è una voce presente su diversi temi politici, dall’antirazzismo, all’antiproibizionismo, dalla solidarietà ai clandestini all’appoggio alle lotte internazionali. Mantiene però sempre una propria indipendenza, senza risparmiare critiche alla sinistra parlamentare. Ma non rifiuta il dialogo con i partiti. Ad esempio, suoi rappresentanti partecipano ad un’assemblea cantonale del Partito popolare democratico ticinese per spiegare le ragioni di un centro autogestito. Oppure manifestano insieme al Partito socialista quando lo ritengono giusto. In un certo senso si può dire che il Molino dimostra una sorta di “pragmatismo ideologico”. Nella sede del Maglio proseguono anche le attività culturali, teatri, performances e concerti. Non sono pochi i gruppi musicali che passano dal palco del Molino prima di diventare gruppi di successo. Vi sono pure momenti di notevole spessore culturale, quali la presenza di Paco Ignacio Taibo II e Daniel Echevaria, due grandi scrittori dell’America Latina.

L’utopia precaria continua

Venerdì 18 ottobre 2002, ore 6.15. Ottanta poliziotti in tenuta anti sommossa sgomberano il Molino dalla sede del Maglio su ordine del governo cantonale. Poche ore dopo, a mezzogiorno, duecento studenti protestano davanti al municipio di Lugano. Il sabato seguente, 2 mila persone sfilano per le vie di Lugano contro lo sgombero del Molino. Per due mesi il Molino trasferisce le sue attività nelle strade di Lugano. Le manifestazioni di piazza inducono il Municipio di Lugano a concedere una sede ai molinari. Il 18 dicembre 2002, due mesi dopo lo sgombero, il Molino prende possesso degli spazi dell’ex macello nel centro di Lugano a seguito di una convenzione siglata con il Comune. Una nuova fase inizia. Per la terza volta nella loro storia, i militanti del Molino ricominciano a costruire gli spazi per continuare le attività. Mensa, cinema, sala concerto, bar vengono pian piano riallestiti.
Nuove forze si avvicinano all’esperienza, altre l’abbandonano. Dei tre “messicani” ad esempio, uno si è distaccato dal movimento. Gli altri due frequentano ancora il centro, anche se non più con la stessa regolarità e dedizione di un tempo. Molte le ragioni, tra le quali forse la necessità di garantirsi entrate economiche più solide che la militanza a tempo pieno al Molino non permette. Ma ci possono essere mille altre ragioni che non conosciamo. E forse è giusto così, poiché, come detto, il Molino non è una questione individuale, bensì collettiva. Le persone passano, ma il Molino resta. Dopo tanti anni di rivendicazione, il centro sociale ha una sede cittadina. Eppure, fatica a far decollare le proprie attività. Il Molino presenta un progetto sull’uso degli spazi nella nuova sede del Macello: oltre ad elaborare sue proposte, invita altri gruppi ad utilizzare gli spazi ancora a disposizione formulando delle idee. Pochissimi gruppi si fanno avanti. La sede del Macello è precaria, sia dal punto di vista materiale (un tetto che fa acqua, riscaldamento inesistente, preoccupanti crepe nei muri, eccetera) che dal punto di vista politico, poiché non manca mai un qualche esponente di un qualche partito che torni alla carica chiedendone lo sgombero. Il Centro sociale prosegue le sue attività in queste condizioni. Dieci anni da precari, e l’utopia continua.

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