Il punto di partenza di questi dieci anni, tanto per cominciare, di poco precedente l’inizio ufficiale dell’autogestione vera e propria (cioè l’occupazione dei Mulini Bernasconi di Viganello, oggi scomparsi e sostituiti dall’ennesimo centro commerciale con annesso parcheggio), è una ferita difficile da rimarginare: il brutale intervento poliziesco avvenuto durante una Festa della Primavera al Parco del Tassino, con manganelli e proiettili di gomma da un lato, giovani un attimo prima festosi e un attimo dopo atterriti e sconvolti dall’altro. L’episodio, che suscitò aspri commenti e numerose critiche, era già la spia di un problema che non sarebbe mai stato davvero affrontato e risolto, e che i successivi avvenimenti si sarebbero trascinati con sé, come un peccato originale. Il problema a cui si allude riguarda naturalmente Lugano, dove ragioni politiche, economiche e sociali ne fanno apparire con maggior evidenza i contorni; ma riguarda anche l’intero Ticino, e più in generale il mondo contemporaneo, o almeno quel mondo contemporaneo in cui siamo abituati a vivere, e dietro la cui facciata soddisfatta e benestante, laboriosa e paga di sé, scorrono realtà diverse, sogni, disagi, speranze e disperazioni che parlano un linguaggio diverso da quello ufficiale.
È a queste realtà seconde, parallele, non solo giovanili, che guarda l’esperienza dell’autogestione; ma per farlo, essa deve sin dall’inizio adottare appunto un linguaggio altro rispetto a quello cui siamo abituati, un linguaggio per forza di cose alternativo e antagonista, che si augura di poter costruire, passo dopo passo, un modo diverso di vivere. Questo progetto, insieme culturale e politico, chiede alla realtà ufficiale il diritto di esistere, di essere riconosciuto e di dialogare; ma se un simile diritto viene negato, non può che esacerbarsi e rinchiudersi dentro di sé, o morire d’inedia. D’altra parte, l’eventuale morte o ghettizzazione del progetto autogestito non cancellerebbe affatto quelle realtà parallele di fronte alle quali abbiamo spesso la tentazione di voltare lo sguardo, come se non vederle significasse cancellarne l’esistenza; vorrebbe dire, al contrario, abbandonarle a sé, alla propria rotta spesso drammatica, sempre divergente; col rischio di scivolare molto in fretta in un caos sempre più difficile da nascondere sotto l’orlo del lussuoso tappeto cittadino.
Ebbene, ripercorrendo i dieci anni d’autogestione, non si può non vedere come proprio questo aspetto sia stato continuamente rimosso, aggirato, evitato: dopo l’occupazione di Viganello, e la fase potremmo dire oggi aurea dell’esperienza, non c’è stato né un riconoscimento né un esplicito rifiuto, bensì un incendio, a tutt’oggi misterioso e sospetto, che ha giustificato lo sgombero per ragioni di sicurezza; poi, la deportazione dell’esperienza in un luogo periferico, il Maglio, con l’evidente speranza che le cose, lentamente, si spegnessero da sole; in seguito, il grottesco sgombero del Maglio manu militari, su pressioni del comune di Canobbio e nell’indifferenza generale; infine, la collocazione provvisoria nella sede attuale, sotto la costante spada di Damocle di un nuovo sgombero. In simili condizioni di incertezza e di precarietà, non è facile immaginare che l’esperienza autogestita sappia crescere e svilupparsi; è già miracoloso che sia riuscita a resistere, nonostante l’esilio fisico e culturale a cui è stata condannata, e malgrado il ricambio generazionale che avrebbe potuto annientarla. Segno questo, insieme al successo di pubblico di molte sue manifestazioni, che, al di là delle convinzioni e della determinazione di chi ha l’ha animata, l’autogestione esprime un bisogno diffuso e importante, e gli dà voce, gli permette di esprimersi.
Eppure, l’autogestione non piace quasi a nessuno: non piace, si capisce, alla Lugano bene, che non può accettarne l’alternativa e l’antagonismo, il significato politico e lo stile di vita; ma non piace, sotto sotto, neppure a buona parte della sinistra, incapace di riconoscerne il linguaggio e il senso; e forse a volte non convince fino in fondo neanche me, che ne sto scrivendo con ammirazione ma che fatico a seguirne l’evoluzione, in cui temo ogni tanto di scorgere un ripiegamento e un isolamento, e che non ho sempre il tempo o la voglia di frequentare il Molino. Malgrado tutto questo, tuttavia, l’esperienza autogestita non si può negare, e nemmeno facilmente distruggere, perché una cosa del genere non converrebbe a nessuno: e se dietro l’incapacità politica di trovarle una sede definitiva si possono leggere molte cose, assai poco onorevoli, dietro l’infastidita tolleranza politica che le consente in qualche modo di sopravvivere si intuisce una forma di calcolo e di timore. Il prezzo da pagare per distruggere l’autogestione sarebbe infatti troppo alto, e i politici più avveduti lo sanno.
Cos’è, allora, questa particolare forma di autogestione, nel Ticino d’oggi? La riposta più vera può venire solo dal suo interno, dal vivo della sua esperienza, che io mi auguro abbia ancora la forza di mettersi in discussione, di rinnovarsi e di reinventarsi. Dall’esterno, si può forse dire solo una cosa: l’autogestione è la nostra cattiva coscienza, la spina che ci obbliga a guardare in faccia le cose. Possiamo tentare di ignorarne l’esistenza, rinviando il problema a domani e fingendo di non vedere; oppure possiamo tentare di imparare il suo linguaggio, e di darle la fiducia che si è meritata con la sua tormentata storia.

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