Cerchiamo di capire la loro esatta posizione a prescindere dai fatti di questi giorni, dalle polemiche e dalle semplificazioni sbrigative del fenomeno.
Abbiamo contattato i «molinari ». Pur disponibili in linea di massima a discuterne con noi ci hanno detto di essere troppo presi da altre immaginabili urgenze e dalle manifestazioni di questi giorni ( che però, sostengono, « sono pure un modo di fare autogestione » ) per dedicarci adesso tutto il tempo necessario per spiegare cosa intendano per autogestione. Ci siamo così chinati sul sito Internet del gruppo ( www. ecn. org/ molino), dove abbiamo comunque trovato qualche risposta. L’autogestione – si leggeva su un comunicato emanato dal Molino il 12 ottobre 2001 – va intesa come « l’alternativa a questa società alienante » ed è « la partecipazione attiva e diretta alla costruzione della propria esistenza sia sul piano decisionale nonché pratico » . Ma come si concretizza? In varie forme. « Assemblee settimanali aperte a tutti – continua il comunicato – dove ogni proposta viene considerata e discussa, per arrivare a un comune consenso » . In un’altro testo del C. S. O. A. del 21 agosto 2001 si invitava l’opinione pubblica a capire « cosa realmente sia un centro sociale e cosa significhi autogestione ».E si ricordava che al Molino « l’offerta culturale e sociale fuori dalle leggi del mercato è interessante » e comprende la possibilità di « venire a teatro o ascoltare un concerto » , « cenare o bere qualcosa in compagnia a prezzo politico, passare il pomeriggio senza essere attorniati da cartelloni pubblicitari, leggere riviste nella sala info, comprare il caffé del commercio equo allo shop, partecipare all’assemblea di gestione politica, prendersi delle responsabilità nei differenti gruppi di lavoro, nella consapevolezza che tutto funziona in autogestione, grazie all’impegno che ciascuno porta » . Sul fronte politico l’idea di base è di « lavorare alla costruzione di un mondo diverso » attraverso manifestazioni, « pratiche di solidarietà internazionale » . In questa lotta si riconoscono parte del movimento No global. Non abbiamo invece trovato documenti del Fantasma del Mattirolo sul tema specifico dell’autogestione. Ma le motivazioni della loro iniziativa non sembrano distanti da quelle dei « molinari » dato che rivendicano « uno spazio da autogestire dove poter realizzare un progetto socio- culturale basato sull’autofinanziamento e il coinvolgimento degli interessati » . Fin qui le posizioni degli autogestiti locali. Come interpretarle? Possono risultare utili le considerazioni di Salvatore Giovanni Calasso ( nel saggio « Centri Sociali. Zone di IV Rivoluzione » , in Cristianità n. 265- 266, 1997). Calasso ricorda il contributo di Alba Solaro « Il cerchio e la saetta.
Centri Sociali occupati in Italia » ( in Carlo Branzaglia, Pierfrancesco Pacoda e A. Solaro, « Posse italiane » , Ed. Tosca, Firenze 1992) dove si spiega che l’obiettivo dei centri sociali non è la conquista del potere, ma l’occupazione di « spazi dove vivere le cose negate » e sperimentare un modo di vita alternativo a quello dominante nella società. Perciò, spiega la Solaro, il tratto caratteristico degli C. S. O. A è la diversità, « la diversità dei punks anarchici, quella degli extracomunitari, la diversità politica di chi non si riconosce nei partiti tradizionali ».E l’azione per antonomasia è l’occupazione, perché « il gesto dell’occupare, nella logica dei centri sociali (…) è un gesto di semi- illegalità (…) che crea in sostanza una frattura netta inequivocabile con l’ordine dato (…). È insomma un gesto che dice: noi ci riprendiamo ciò che non ci avete voluto dare.
Ci poniamo sul piano dell’illegalità rispetto ad una legalità che non riusciamo più a riconoscere come nostra » .
Altrettanto utile è la lettura di « T. A. Z. Zone Temporaneamente Autonome » ( ShaKe Edizioni Underground) scritto da Peter Lamborn Wilson, un anarchico americano che si firma con lo pseudonimo di Hakim Bey. Un libro che secondo Calasso è per i centri sociali l’equivalente di quello che fu il « Libretto rosso » di Mao per i sessantottini. « La TAZ. – scrive Bey – è come una sommossa che non si scontri direttamente con lo Stato, un’operazione di guerriglia che libera un’area ( di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in un altro tempo, prima che lo Stato la possa schiacciare » .
Sembra l’esatta descrizione di quanto sta avvenendo con alcuni autogestiti di casa nostra, dove un gruppo di sloggiati da un caseggiato si è riversato in un’ altra area, ma aperta, la città di Lugano, e un altro gruppo alla ricerca di spazi da autogestire ha occupato l’area di uno stabile momentaneamente in disuso.
Un libro per capire meglio: T. A. Z. dell’anarchico Hakim Bey

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