DALL’ART. 90 ALLE CARCERI SPECIALI AL 41 BIS

Il carcere imperialista e il suo funzionamento sono una delle più alte espressioni del domino coercitivo imposto nella società divisa in classi come quella in cui viviamo. Proprio per questo esso può rappresentare un'illuminante chiave di lettura per comprendere i codici che regolano la società attuale, la lotta di classe e i rapporti di forza in campo. Non a caso si sente spesso ripetere: “Il carcere è lo specchio della società”. Analizzando le trasformazioni avvenute nel suo ordinamento negli ultimi decenni ci accorgiamo infatti che esse portano con sé parte importante della lotta di classe e della lotta rivoluzionaria nel nostro paese e indicano le idee guida che ha seguito la borghesia non solo per rimodellare il sistema carcerario ma anche per imporre il suo sistema di dominio in tutta la società. Ci accorgiamo anche che ogni trasformazione non è transitoria e atta a far fronte a qualche emergenza ma è già inscritta nella natura stessa del carcere e del dominio di classe che esso tutela. Si tratta di modifiche che registrano lo stato del rapporto di forza tra le classi e mettono in luce la funzione non solo repressiva (del castigo) ma anche quella preventiva (di deterrenza) sia per i comportamenti sociali che escono dalle regole prestabilite della cosiddetta “convivenza civile” sia per i comportamenti politici rivoluzionari che coscientemente mettono in discussione il potere. Il carcere è quindi uno degli strumenti della controrivoluzione preventiva, attività costante e strutturata di ogni stato “democratico” imperialista che fonda il suo potere sull’oppressione di una classe sull’altra. *si può fare una manchette

Queste riflessioni trovano verifica se andiamo a vedere il percorso che porta dall’art. 90 all’art.41 bis. Ripercorrendo questo itinerario siamo in un’ottima posizione per studiare la realtà perché la guardiamo da uno dei punti più alti dell’apparato repressivo: il carcere nel suo primo girone, quello di massima sicurezza. Questa istituzione totale è infatti organizzata come i gironi dell’inferno dantesco regolati dal codice della premialità, questi gironi trasbordano fin fuori dalle mura attraverso le misure alternative alla detenzione.

Proviamo ora a vedere i passaggi della modifica del sistema detentivo negli ultimi decenni.

L’art. 90  fa parte della legge sull’ordinamento penitenziario del luglio ’75, comunemente conosciuta come riforma carceraria, ma esso non viene immediatamente applicato. Esso dice: “Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministro per la Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.”. Con questo fatto lo stato si arroga la possibilità che il suo esecutivo possa, a suo piacimento, sospendere una legge e definire che a una parte  di cittadini vengano sospesi dei diritti. La riforma carceraria, di cui fa parte questo articolo, è stata la risposta a un grosso ciclo di lotte dei detenuti e il codice che la informa è la premialità e la pena a seconda del comportamento dei prigionieri. Si fa strada il tentativo borghese, sperimentato nel carcere ma applicato a tutta la società, di costruire un enorme setaccio con cui dividere, a secondo delle compatibilità con il sistema capitalistico, i buoni dai cattivi, quelli che si possono “recuperare” e quelli che si devono annientare. Anche nella fabbrica, nel mondo del lavoro e nel territorio viene applicato lo stesso sistema attraverso una modulazione di interventi e misure repressive con la logica dell’integrazione o dell’esclusione.

Il fine è quello di far fronte e fermare le lotte operaie e proletarie e la ribellione sociale espressione delle contraddizioni di un sistema che, dall’inizio del decennio, è entrato in una crisi che poi si verificherà come strutturale. Ed è anche quello di assestare un colpo alle organizzazioni combattenti che  hanno visto, lungo tutto il decennio precedente, un rigoglioso sviluppo.

Ma anche dopo l’approvazione della legge, le lotte dei prigionieri non si fermano e si collegano con il movimento rivoluzionario all’esterno, per lo stato le carceri diventano ingovernabili. Si verificano rivolte e proteste di massa con la particolarità italiana dell’unione nella lotta fra detenuti politici e comuni. Per questa unità le basi erano state gettate dai Nuclei Armati Proletari (NAP) che avevano teorizzato e praticato l’unione tra i proletari prigionieri, i prigionieri politici e il proletariato extralegale. Le Organizzazioni Combattenti promuovono nelle carceri organismi di massa, i Comitati di Lotta in dialettica con la loro iniziativa esterna sul fronte delle carceri.

La risposta dello Stato è, nel 1977, l’istituzione delle carceri speciali sorvegliate dai carabinieri. L’art. 90 viene applicato a partire dal 1980. Questo passo avviene gradualmente con l’istituzione dei cosiddetti “braccetti” cioè sezioni di massimo isolamento con la riduzione o l’interruzione dei contatti con l’esterno. L’attuazione di questi passaggi nelle carceri è contemporanea alla modifica del codice penale con l’approvazione del 270 bis (associazione sovversiva con finalità di terrorismo) e quella delle leggi su pentitismo e dissociazione (la famigerata legge Cossiga).

Contro l’art. 90, dalle carceri all’esterno, prende corpo un vasto movimento. L’art. 90 non viene più rinnovato dall’ottobre del 1984 ma viene di fatto incorporato nella istituzionalizzazione del regime differenziato dove i carceri speciali sono disciplinati per legge attraverso la proposta degli art. 14 bis, ter e quater che stabiliscono le norme che regolano il raggruppamento, l’assegnazione e le categorie dei detenuti nelle sezioni di massima sicurezza. Viene applicato anche l’art. 4 che esclude alcune categorie di detenuti dall’ammissione a forme alternative di detenzione. Si arriva quindi a rendere permanente l’art. 90 anche se sotto altro nome.

Tutte queste norme trovano vita e vengono applicate lungo tutti gli anni 80 parallelamente alla campagna orchestrata dal potere sulla fine del comunismo e sulla sconfitta del “terrorismo”. Questa campagna è la premessa e l’altra faccia di quello che sarà l’inizio dispiegato dell’attacco alle conquiste della classe operaia e delle masse popolari. Essa verrà attuata cercando di isolare e annientare ogni identità politica rivoluzionaria attraverso la dissociazione e la differenziazione, con la vessazione dei prigionieri politici sottoposti alla tortura dell’isolamento e alla tortura vera e propria. Il fine è quello di diffondere la cultura della desolidarizzazione e di dichiarare sconfitta e fuori dal tempo ogni prospettiva di cambiamento radicale della società. E anche quella di sotterrare la memoria storica del proletariato e del movimento comunista. Ma, l’illusione del potere di mettere una pietra sopra definitivamente alla formidabile forza che il movimento rivoluzionario aveva espresso in Italia si scontra con la realtà della crisi del suo sistema che produce incessantemente contraddizioni sempre più acute che fanno rigenerare la lotta di classe. Esso deve continuamente mettere mano all’ordinamento penitenziario per perfezionare le norme che regolano la differenziazione dei regimi detentivi.

Nei primi anni 90 vengono approvati gli art. 41 bis e 4 bis che, come ulteriore elemento di differenziazione dentro al carcere, inseriscono il mancato accesso ai benefici premiali (previsti dalla legge Gozzini del 1986) in base alla condanna. Il 41 bis inoltre prevede il “carcere duro” in cui vengono sospesi i normali diritti dei detenuti. Il trattamento duro non riguarda più solo intere aree di prigionieri che vengono per questo raggruppati nelle sezioni speciali ma diventa “ad personam”. Questo trattamento attraversa la struttura carceraria sia verticalmente (nelle strutture) che orizzontalmente (nelle persone), è l’asse portante del funzionamento della deterrenza e della premialità. Si tratta in pratica di una riedizione allargata del vecchio art. 90.

Questi articoli vengono resi esecutivi dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, hanno natura transitoria e devono essere rinnovati individualmente in base a criteri di “pericolosità”. Già dalla loro approvazione prevedevano una divisione in fasce per la loro applicazione, la prima e la seconda riguardante delitti di mafia, la terza i reati commessi per finalità di “terrorismo” o di eversione dell’ordinamento costituzionale. La revoca dell’applicazione del trattamento duro è subordinata alla collaborazione con la giustizia e, in particolare, per la terza fascia, cioè per i prigionieri politici, all’esclusione di ogni collegamento con organizzazioni esterne. Di fatto viene richiesta la dissociazione.

Arriviamo ai giorni nostri perché venga richiesta l’estensione dell’applicazione del 41 bis ai rivoluzionari prigionieri e ne venga chiesta la validità permanente.

Così il cerchio si chiude, la differenziazione e il carcere duro vengono definitivamente istituzionalizzati. Lo stato democratico prevede che la sospensione dei “diritti” è legale, che la tortura dell’isolamento e ogni procedura che può avvenire in assenza di “diritti” sono praticabili. Queste misure che lo stato prende fanno parte della necessità che la classe dominate ha di salvaguardare il suo potere e vanno analizzate e fatte conoscere non solo per denunciare la natura fascista del suo dominio ma soprattutto perché mostrano la sua debolezza e la paura che il suo potere venga messo in discussione. L’approfondimento e l’allargamento della detenzione accentuata sono in stretta dialettica con la crisi e con lo sviluppo delle contraddizioni sociali. Non è infatti un caso che i momenti in cui le misure sono state promosse sono principalmente quello a ridosso dell’avanzata del movimento rivoluzionario (fine anni ‘70, primi anni ‘80) e, oggi, quello del possibile riaffacciarsi di prospettive di cambiamento. Oggi, a fronte della crisi e della tendenza alla guerra, al rinvigorirsi della lotta di classe e antimperialista, al ribollire del malcontento delle masse e al manifestarsi di comportamenti di ribellione vengono attuate nel nostro paese queste misure preventive.

Vengono attuate all’interno di una situazione internazionale incandescente seguendo i dettami dell’imperialismo USA e delle legislazioni di guerra che ha varato. A questo proposito è un fatto rilevante che in Italia esistano oltre un centinaio di prigionieri islamici sulle cui condizioni vige il più assoluto silenzio.

Le attua anche nei confronti dei rivoluzionari prigionieri che hanno mantenuto la loro identità politica perché essi, pur non rappresentando un pericolo emergente come quantità, turbano ancora il sonno del potere. Lo Stato, nel corso di più di due decenni, dopo averle tentate tutte per annientarli ha ancora paura di loro, della prospettiva politica rivoluzionaria che incarnano e si pone il problema di limitarne l’influenza e la capacità d’azione.