Storie di donne partigiane
Mostra autoprodotta
da Donn(ol)aLAB
www.inventati.org/donnola
dal 22 al 27 aprile 2004
ore 16,30-21,30
presso Associazione D.E.A., Borgo Pinti 42 r, Firenze
Questa mostra nasce dalla lettura di un libro, La Resistenza taciuta, dodici
vite di partigiane piemontesi, di Bruzzone e Farina.
Il libro, uscito nel 1975 e ripubblicato di recente, fu un “cult” del movimento
femminista degli anni ’70, che rintracciava nell’esperienza di queste donne che
avevano combattuto un antecedente, una linea di discendenza femminile a cui
riallacciarsi e con cui confrontarsi.
Partendo da questo libro siamo andate alla ricerca di testimonianze e narrazioni
di donne attive in quegli anni, per cercare di dare voce a chi ne ha sempre
avuta poca: donne, donne che si oppongono, donne del popolo, operaie e
contadine.
Se vogliamo sceglierci delle madri ci piace che siano donne ribelli.
Ci sembra importante e necessario parlare oggi di resistenza.
Infatti qui ci troviamo, ancora a resistere, a combattere contro poteri forti,
reali e materiali. Che sono sempre gli stessi, ma che sono anche diversi.
Le risposte che vanno cercate sono metodi per destrutturare e distruggere questi
poteri, metodi efficaci. In questo senso la contrapposizione violenza-non
violenza ci appare essere un falso problema. Si sente dire spesso che utilizzare
metodi violenti significa diventare come il potere che si combatte. Le storie, i
destini, le parole e il sentimento di queste donne sembrano smentirlo. Per loro
agire è stata semplicemente una necessità.
Forse è invece il ricercare potere quello che può rendere simili al potere e far
ritornare la ruota al punto di partenza. Se c’è qualcosa da mettere in
discussione nella storia del Novecento, per quel che riguarda la nostra parte,
non è questo problema dei metodi più o meno violenti; è invece, secondo noi, la
questione del potere, delle gerarchie, del centralismo e del partito a cui si
deve obbedienza, del militarismo, della necessità di avere dei capi, della
delega e della rappresentanza.
E tocca purtroppo ancora ribadire che una cosa è la violenza del carnefice e
un’altra quella di chi si ribella alla carneficina.
Le donne parteciparono in molti modi alla Resistenza, dalle partigiane
combattenti alle operaie che organizzavano scioperi nelle fabbriche, dalle
staffette alle donne che preparavano calzini e cibo per chi combatteva in
montagna, da quelle che nascondevano i renitenti a quelle che facevano azioni di
sabotaggio e informazione.
Partecipare alla lotta collettiva significò per queste donne la possibilità di
rompere esplicitamente con i modelli femminili imposti dal regime (ma che
riproducevano una realtà di lunga durata), di passare alla rivolta aperta, di
essere alla pari con gli uomini nella ricerca di una vita nuova. Godere di
autonomia di spostamento ed azione rappresentò per loro il raggiungimento di uno
spazio di libertà impensabile poco tempo prima. L’esperienza della Resistenza,
pur tragica, fece scoprire loro la possibilità di uscire da quei ruoli e spazi
in cui le donne erano chiuse, di vivere un’esperienza totale che superava le
barriere tra maschile e femminile, fu l’occasione per instaurare relazioni nuove
tra uomini e donne, oltre che tra donne e donne. L’esperienza della lotta rende
reale la possibilità di condividere, oltre un progetto comune di trasformazione
politica, anche nuove forme di riconoscimento e rispetto reciproco.
Le donne furono certamente spinte all’azione dall’odio per l’ingiustizia e il
fascismo, dalla lotta di classe, dalla volontà di farla finita con l’invasione
straniera, ma c’era in più un profondo impulso alla liberazione personale.
In quel breve periodo in cui le donne erano pari agli uomini tutto cambiava
velocemente e la vita si inventava giorno per giorno. La scelta era una scelta
di vita, che comportava un capovolgimento di valori. Si poteva credere che
quella libertà femminile sarebbe stata un segno della nuova società nata dalla
lotta.
E invece?
Come per molte altre cose del dopo, e invece NO.
L’incontro tra i generi che pareva possibile durante la guerra di liberazione
sembra svanire subito dopo. Nel dopoguerra si assiste a una pesante
normalizzazione, anche del ruolo delle donne. Da parte delle forze moderate,
certo, ma anche da parte della sinistra, Partito comunista compreso. La
risposta, unitaria, fu l’invito a sacrificarsi, a tirarsi indietro. In realtà
per tutti ma ancor più per le donne.
Dopo la liberazione queste donne sembrano essere state dimenticate, taciute,
vita pubblica e vita privata precipitano nella dimenticanza.
“Alle staffette, nelle sfilate, mettevano la fascia da infermiera”',