Il golfo di Policastro nella storia - primavera 2015

incontro del 16 maggio 2015

Gli Enotri del golfo di Policastro

Elena Santoro - archeologa, presidente dell'associazione Etruria Nova

Dal punto di vista geomorfologico la fascia litoranea è formata da una costa alta e rocciosa, con falesie scoscese, configuranti a volte piccoli promontori e piccole spiagge sabbiose.

A ridosso della costa si articolano, invece, le numerose dorsali montane, ultime propaggini degli Appennini Centrali. In prossimità dei principali corsi d’acqua si sono formate piccole pianure alluvionali che da sempre hanno favorito lo sviluppo e la pratica non intensiva di colture come l’olivo e la vite.

Nell’ultimo scorcio del VI secolo a.C. il Golfo di Policastro risulta diffusamente abitato da gruppi di uomini di origine enotria. Con il termine Enotria gli autori antichi indicavano un vasto territorio, abitato da popolazioni autoctone, compreso tra le grandi colonie greche stanziate tra la Posidonia in Campania, Metaponto in Basilicata e la Calabria incluso un lungo tratto di costa tirrenica fino a Marcellina.

Il termine greco Enotria è connesso ad oinotròn, ovvero paletto da vigna e a oinos vino, una connessione che in qualche modo qualificava l’attività caratteristica di questi popoli. L’origine del popolo è fatta risalire dalle fonti antiche ad Enotro, re degli Arcadi, un popolo greco, che durante la media età del Bronzo (XVI a.C.) si stanziò in questo vasto e fiorente territorio dopo aver attraversato con i suoi fratelli e un folto gruppo di uomini lo Ionio. In queste terre le pratiche agricole, da tempi molto molto remoti erano già sviluppate. I Greci, al loro arrivo si limitarono a potenziare quello che trovarono come la viticoltura.

Nel VI secolo a.C. con le fondazioni greche lungo la costa del Tirreno Meridionale le zone interne dell’Enotria, molto attive e dinamiche nei secoli precedenti, tendono a spopolarsi gradualmente a spostarsi verso la costa.

Vasi da vino in tutte le tombe

Le necropoli enotrie meglio conosciute sono quelle di Palinuro, di Rivello e di Tortora. Queste mostrano tratti comuni sia nella tipologia delle tombe che nei rituali: le tombe sono a fossa terragna rettangolari, delimitate spesso da muretti in pietra, e il rito prevalentemente attestato è quello a inumazione con deposizione supina.

Sia a Palinuro che a Tortora, più diffusamente nella prima, sono attestate anche sepolture a cremazione in cinerari come il cratere - kantharos a Palinuro e in una olla a Tortora. Nelle tombe il contenuto dei corredi varia a secondo del periodo, della condizione e del sesso del defunto, anche se in generale si ravvisa una sostanziale omogeneità nelle forme e nella quantità dei materiali. All’interno di quella che sembra un’organizzazione sociale omogena si riconoscono alcune figure di rango più elevato il cui status viene riflesso nei ricchi corredi di alcune tombe di Palinuro, di Tortora e di Rivello in cui compaiono materiali greci.

I defunti di sesso femminile sono riconoscibili dalla presenza di parure in ambra, quelli di sesso maschile per le armi. Le tombe di bambini, di piccole dimensioni, e a pianta quasi sempre quadrangolare si localizzano nei pressi di tombe più grandi, molto probabilmente a marcare un rapporto di tipo parentale. In tutte le tombe a prescindere dal sesso e dall’età sono presenti vasi da vino.

I corredi funerari enotri, per l’appunto, si compongono di vasi la cui funzione è fortemente legata al consumo del vino, come ad esempio i crateri/kantharoi, le brocche, i bicchieri, le bottiglie/fiasche, recanti spesso una decorazione plastica o dipinta in bruno e rosso con schemi decorativi lineari o geometrici; e da forme acrome come i pithoi, le grandi scodelle, gli attingitoi e i bicchieri. In mancanza di indagini chimiche sulle superfici dei vasi, come la gascromatografia, e in assenza per il momento di tracce di impianti produttivi vinicoli, è comunque possibile ipotizzare che questi contenitori contenessero vino, non solo d’importazione ma anche locale.

L’associazione ricorrente di tipologie specifiche di vasi indigeni come il cratere–kantharos, la brocchetta a bocca trilobata, la bottiglia/fiasca, il poculum e la scodella acroma, sembra riprodurre un modello di set da vino greco ma rielaborato in chiave locale.

Il rito collettivo del simposio

Il termine sympòsion deriva dal greco ( syn + pìnein) e significa bere insieme. I greci non bevevano da soli, perché il consumo del vino era vissuto come atto collettivo. Il simposio è dunque una forma di socialità che caratterizza tutta la durata del mondo antico ed che era spesso mezzo di propaganda politica Al simposio greco erano presenti gli uomini mentre le mogli rimanevano sempre a casa. Di solito erano ben accette le concubine! Ma questa è una storia che conosciamo…

Questo sembra avere un certo riscontro anche per quel che riguarda le comunità enotrie dove seppure la donna riveste un ruolo importante, come si vede nella ricchezza degli ornamenti personali, non è equipollente a quello dell’uomo. Nei corredi delle tombe femminili di Tortora tuttavia pur essendo presenti vasi da vino ad indicare il consumo del vino della donna, in continuità con le fasi pre-greche, manca l’anfora vinaria a marcare l’esclusione della donna dal simposio.

Nelle tombe i crateri indigeni, recipienti con la bocca larga, dotati di due anse, che nella cultura greca rappresentano il vaso per eccellenza per il consumo del vino, sono presenti nel 90% dei casi e indicano la presenza di un vino, molto probabilmente locale. La variazione delle forme e degli elementi decorativi dei crateri farebbero pensare alla presenza di botteghe specializzate nella produzione di questi contenitori, per lo meno a Tortora. Un altro contenitore interessante per ricostruire la storia del vino nel territorio sono le anfore da trasporto di produzione sub-regionale o velina, presenti in associazione con i crateri nei contesti arcaici tortoresi.

L’anfora è un contenitore da trasporto soprattutto per il vino e la sua presenza fa pensare ad un commercio.

Tra l’altro è interessante notare che al vino locale si affianca un vino d’importazione. Nelle tombe emergenti, come la tomba A di Palinuro, la tomba 2 di Masseria Pandolfi di Rivello e la tomba 78 di Tortora , la presenza di crateri indigeni e greci, associati a vasi da vino locali e importati, induce a pensare all’utilizzazione di due tipi di vino.

Quello locale di più antica tradizione e dal forte valore rituale, e quello greco connesso ai prestigiosi cerimoniali del simposio ellenico.

Tre coppe di vino non di più

Ma che vino contenevano questi vasi? Un vino, quello antico, che era una sorta di concentrato di uva che dunque non poteva essere consumato puro ma allungato con l’acqua. E le regole che regolavano la miscelazione del vino con l’acqua erano molto rigide, normalmente la proporzione era a uno a tre, mettere metà acqua e metà vino era già considerato ubriacante mentre consumare il vino puro era considerata un’usanza barbara. Ma a proposito di regole, Dioniso, dio del vino, in una commedia di Eubolo raccomanda:

Tre coppe di vino non di più, stabilisco per i bevitori assennati. La prima per la salute di chi beve; la seconda risveglia l’amore ed il piacere; la terza invita al sonno. Bevuta questa, chi vuol essere saggio, se ne torna a casa. La quarta coppa non è più nostra, è fuori misura; la quinta urla; sei significa ormai schiamazzi; sette occhi pesti; otto arriva lo sbirro; nove sale la bile; dieci si è perso il senno, si cade a terra privi di sensi.

Il vino versato troppo spesso in una piccola tazza taglia le gambe al bevitore.

La presenza in alcune tombe enotrie di grattugie in bronzo, all’interno di grandi contenitori come scodelle o crateri, rimanda all’uso di vino particolare, utilizzato nei grandi cerimoniali ellenici. Omero nel Libro XI, 628-43 dell’Iliade narra che Hecamede, padrona della coppa di Nestore, ricevette da un soldato ferito durante la battaglia di Troia una coppa d’oro che serviva per contenere una particolare bevanda fermentata, chiamata kykeon.

Un vino, o per meglio dire una mistura, composta da vino mescolato ad altri prodotti come il miele sul quale era grattugiato del saporitissimo formaggio di capra.