Immigrazione e nuovi razzismi prima e dopo l'11 settembre
Razzismo e capitalismo nell'era moderna e in quella "globale"

Relazione svolta da Pietro Basso, 23 febbraio 2002
C.S.O.A. Cox 18 - Archivio Primo Moroni - Libreria Calusca City Lights


versione PDF (89Kb)

Io inizierei col constatare una situazione, credo, sotto gli occhi di tutti: in Occidente in generale, ma in modo peculiare in Europa (che molti anche nella sinistra e nell'estrema sinistra intendono come qualcosa di diverso dagli Stati Uniti, benché non si riesca a vedere la forma di questa diversità assolutamente presunta), il razzismo è sicuramente in ascesa rispetto alla fine degli anni Sessanta e all'inizio dei Settanta. ˇ sicuramente in ascesa, non solo in collegamento con i processi immigratori, ma anche con le guerre che l'Occidente, ivi compresa l'Europa, ha scatenato (Malvinas, Iraq, Iugoslavia, Afghanistan e tutto quello che seguirà). Ci troviamo di fronte, quindi, a un processo di ascesa del razzismo come componente di crescente importanza nella vita sociale e politica.

Si è discusso un po' se si tratti di vecchio o di nuovo razzismo. Negli anni scorsi, in Italia, ha avuto una certa fortuna un libro di P.-A. Taguieff (La forza del pregiudizio), uno studioso francese, spacciatosi inizialmente come di sinistra e progressivamente avvicinatosi al filosofo della Nouvelle Droite Alain de Benoist, il quale ha fatto una menata di circa 500 pagine per dire che il vecchio razzismo era esclusivamente biologico e il nuovo, invece, è esclusivamente culturale. Chiunque abbia studiato un po' il vecchio razzismo sa come sia una panzana raccontare che esso fosse biologistico: basti pensare a Evola, a Spengler, a Spann, e anche a Gobineau, che non era quell'imbecille che tutti vorrebbero che fosse, così come non era affatto un razzista che si fondava esclusivamente su argomenti biologici, sebbene parlasse del sangue (ne parlava più come di una metafora che come di un dato, diciamo così, biologico in senso stretto). Credo che la distinzione tra vecchio e nuovo razzismo sia assolutamente oziosa, perché il vecchio razzismo era molteplice così come lo è il nuovo. ˇ contemporaneamente a sfondo biologico e a sfondo culturale, spirituale, storico, chiamatelo come volete. Differenzialista, per così dire, era il vecchio razzismo biologico, che sottolineava le differenze non mediabili tra le diverse razze. Differenzialista, cioè disegualiatario - in quanto il termine differenziale è mistificante -, era il primo razzismo; disegualitario è quello che si ripresenta oggi. Direi quindi di lasciar perdere questa distinzione, andando invece a osservare le diverse forme nelle quali ricompare il razzismo.

In primo luogo, abbiamo le forme del razzismo istituzionale, chiamiamolo così, che si manifesta anche a livello di diritto internazionale. Voi sapete che l'accordo di Dayton ha creato degli Stati etnici, assolutamente etnici. Il criterio dell'onu, al quale spesso ci si continua velatamente a riferire, il criterio della pace di Dayton, è il modello dello Stato etnico. Ciò verso cui si sta andando in Palestina, con l'assenso di tutti, fondamentalmente è una divisione per comparti sempre più omogenei sul piano etnico, addirittura con i muri, innanzitutto separando le due popolazioni secondo un principio etnico. Nel Kosovo si è adottato con le armi e/o senz'armi - la pace fa più schifo della guerra - questo criterio di etnicizzazione; in Macedonia si sta andando nella stessa direzione. Questo processo di razzismo istituzionale, quindi, è assunto progressivamente a principio anche nelle istituzioni internazionali.

In secondo luogo, siamo di fronte a un razzismo socializzato, in maniera crescente e fondamentalmente, dai mezzi di comunicazione di massa. ˇ una diffusione di razzismo sul piano culturale, una rappresentazione dei popoli di colore. Attenzione: non dell'Altro, con la maiuscola o la minuscola poco importa. ˇ la rappresentazione dei popoli di colore - e quando dico popoli di colore intendo anche quei bianchi che sono neri, ovverosia gli albanesi, i rumeni le popolazioni dell'Est Europa ecc. In un libro interessante si riporta il caso di un bambino delle elementari cui è stato chiesto chi fossero i neri. La sua risposta è stata: "Ci sono tre tipi di neri: i neri, i gialli e i bianchi". Ciò che li unisce è il fatto di essere poveri, di appartenere cioè alle popolazioni povere schiacciate dall'Occidente, da noi insomma.

La prima forma di razzismo che sta prendendo sempre più piede è quella istituzionale. La seconda è quella della pregiudiziale razziale e religiosa: "Vogliamo gente che sia più omogenea a noi". (ˇ così anche in Italia, senza bisogno di portare adesso degli esempi, essendo chiaro che la politica italiana sull'immigrazione sta andando nettamente in questa direzione.) Su questo piano, quindi, ritornano i vecchi principä della democrazia razzista statunitense degli anni Venti, quando si selezionava chi poteva entrare negli USA e chi no sulla base del livello d'istruzione e del grado d'appartenenza al ceppo, diciamo così, anglosassone. Allora furono esclusi per legge cinesi, giapponesi e asiatici e, anche in Europa, furono poste due condizioni all'ingresso negli Stati Uniti: la scolarità e la disponibilità economica di partenza, che di fatto funzionarono come criteri selettivi razziali, che limitavano, fondamentalmente, l'afflusso a tedeschi, britannici e abitanti dei Paesi dell'Europa del Nord. Ora anche in Italia stiamo andando verso una selezione su questa base dei flussi migratori - non affermo che la legge Bossi-Fini sia già l'attuazione di questa linea, bensì che si sta preparando il terreno.

Oltre al razzismo istituzionale e a quello culturale, ce n'è anche uno popolare, non me lo nascondo. In Razze schiave e razze signore e in Immigrazione e trasformazione della società (apparsi entrambi presso l'editore Franco Angeli nel 2000) evidenzio come negli ultimi anni ci sia stata una campagna molto forte e sistematica perché attecchisse, anche all'interno degli strati popolari e nel proletariato, il veleno del razzismo; e riconosco come questa campagna abbia raggiunto alcuni risultati. Durante i bombardamenti dell'Iraq da parte dell'aviazione nato, sotto l'egida dell'onu, ricordo che in non poche fabbriche si brindava. Non era un fatto generalizzato, ovviamente, nondimeno resta il fatto che un settore non indifferente di proletariato industriale, disgraziatamente, contribuiva a quest'azione criminale: la distruzione di un Paese e il massacro di un popolo.

Faccio una distinzione tra il razzismo istituzionale e il razzismo culturale, entrambi promossi dalla classe capitalistica e dalle classi colte, perché il razzismo è un prodotto non dell'ignoranza bensì della cultura. Della cultura, del capitalismo, del colonialismo, insomma. Certamente si potrebbe parlare anche di Aristotele, di Platone ecc., ma è inutile, non facciamo intellettualismo. Certe categorie sono riprese dall'epoca pre-borghese, ma il razzismo come produzione organica e sistematica è moderno, è un prodotto del capitalismo, dalle origini a oggi, senz'alcuna soluzione di continuità. Il razzismo istituzionale e quello culturale vanno ricondotti quindi agli interessi capitalistici, agli interessi di dominio e sfruttamento, esterni e interni, del capitalismo. Viceversa, considero il razzismo diciamo così popolare e proletario, un fenomeno indotto e, per certi versi, innaturale, perché gli elementi che accomunano i proletari bianchi e quelli di colore sono sicuramente, non solo sul piano storico, ma spesso anche sul piano immediato, molto più forti degli elementi che li separano. Il razzismo a livello popolare e proletario prende piede, lo abbiamo visto alle volte in alcuni episodi, in alcuni frangenti, anche qui a Milano. Quando, e perché?

Quest'ultima forma di razzismo prende piede nel contesto di un movimento operaio molto debole, incapace d'integrare lavoratori immigrati e lavoratori autoctoni, con il sentimento di paura dei lavoratori bianchi nei confronti della concorrenza oggettiva portata da una forza-lavoro come quella immigrata, che è necessariamente disponibile a vendersi a un prezzo inferiore perché si trova in una condizione di ricatto al momento della partenza, ed è poi tenuta qui in permanenza nella stessa condizione - la clandestinità, questa famigerata clandestinità - per decisione statale, governativa, padronale, affinché possa appunto essere spremuta più pesantemente, onde poter poi ricattare anche la forza-lavoro un po' più garantita. In questi anni vedo anche una diffusione di razzismo a livello popolare e proletario, però mentre nelle classi colte e nella borghesia d'Europa questo razzismo non ha alcun tipo di controtendenza - mi si indichi un padrone che non sia un razzista, uno Stato che non faccia leggi razziste e non adotti prassi razziste, più importanti delle stesse leggi razziste -, viceversa è proprio a livello popolare e proletario che troviamo le uniche forme di cooperazione tra appartenenti a razze diverse. Direi che l'istituzione più multirazziale in Europa, senza il minimo dubbio, è il sindacato, con tutti i difetti che può avere un sindacato per varie vie legato allo Stato, al primato del mercato e dell'azienda. Non voglio fare alcuna apologia del sindacato; mi limito a un dato di fatto: in Germania, nell'ig-Metal c'è sostanzialmente una parità tra lavoratori immigrati e lavoratori tedeschi, e questo da quindici anni. Da vent'anni esiste un giornale multilingue, molto serio, che appunto si sforza di trattare le stesse tematiche per tutti gli appartenenti al sindacato. Anche in Italia, soprattutto al Nord, nonostante le grandi resistenze opposte dal pachiderma burocratico alle innovazioni, stiamo andando seppur lentamente verso sezioni sindacali ormai largamente caratterizzate da un'attiva presenza di lavoratori immigrati. Incontestabilmente, in tutta una serie di circostanze quel po' - poco, certamente - di solidarietà che hanno ricevuto i lavoratori immigrati aggrediti individualmente o su grande scala da questa nuova legge (ma anche dalle precedenti) lo hanno avuto dalla gioventù e dal proletariato, anche in piazza. Certamente a Roma, il 19 gennaio, non sfilavano le classi medie e borghesi, caso mai sfilavano il popolo di Genova e altri lavoratori. In questo senso mi guarderei bene dal fare, come spesso si fa, di tutte le erbe un fascio, cioè dall'accomunare tutti i tipi di razzismo o addirittura, come si fa abbastanza velenosamente anche un po' a sinistra, dal vedere quasi un razzismo che sale dal basso verso l'alto, ragion per cui i governi non potrebbero fare a meno di tener conto dei sentimenti ostili dei lavoratori bianchi nei confronti degli altri lavoratori. Questi sentimenti, quando ci sono, vengono attentamente attizzati dall'alto; viceversa le controresistenze, diciamo così, salgono dal basso, dai lavoratori.

Mi avvio a concludere il mio intervento dicendo questo: indubbiamente l'immigrazione sembra essere un catalizzatore di sentimenti razzisti che, diciamo così, stanno risorgendo. La questione dell'immigrazione, per chi ha a cuore - e personalmente mi schiero da questa parte - non la guerra tra le razze ma quella tra le classi, dev'essere attentamente valutata per mettere in opera tutti quegli antidoti possibili, reali, già esistenti, in parte già agenti, suscettibili di contrastare il processo di diffusione di questa infezione. A che cosa mi riferisco? In generale si presenta il razzismo come una sorta di malattia dello spirito, ma se noi vorremo combattere il razzismo come una mera malattia dello spirito non arriveremo mai a nulla, perché il razzismo è innanzitutto radicato nei rapporti sociali materiali, rapporti di diseguaglianza tra razze, tra nazioni, tra classi (perché c'è un razzismo contro la classe operaia), tra sessi (perché c'è un razzismo sessista). Parlo di razze schiave riferendomi ai colorati, alle popolazioni di colore, ai proletari (non a caso Friedrich W. Taylor, il maggiore teorico dell'organizzazione del lavoro, parla dell'operaio ideale come dell'uomo-bue) e delle donne. Parlo cioè di tre razze schiave, schiave perché si trovano in una condizione reale d'inferiorità sociale, d'inferiorità complessiva, che necessariamente sono rappresentate come inferiori da chi le tiene in queste condizioni.

Allora, se non vogliamo fare un antirazzismo di facciata, un antirazzismo ottativo fatto di sospiri, un antirazzismo delle buone intenzioni per lavarci un po' la coscienza, sporchissima in materia, da buoni occidentali (in particolare noi italiani: "Italiani brava gente!"), dobbiamo andare, nella critica e nella pratica, ad affrontare e a denunziare queste diseguaglianze e non soltanto la loro rappresentazione. Dobbiamo lottare contro questo sfruttamento di una razza sull'altra, di una classe sull'altra e contro questa oppressione di un sesso sull'altro, invece di limitarci a prendercela con gli effetti di tutto ciò, quali sono le rappresentazioni che inferiorizzano i colorati. A proposito degli immigrati, per esempio, non è possibile che tutto si limiti alla lotta per il permesso di soggiorno: se vogliamo effettivamente combattere la ripresa di razzismo e discriminazione, in molti casi di vero e proprio apartheid, è necessario denunziare la condizione organica d'inferiorità sociale e politica in cui vengono mantenuti. Sembra una grande cosa chiedere il voto amministrativo per loro, una cosa dell'altro mondo. Personalmente non credo che con il voto si cambi granché, ma la questione di fondo è un'altra: è se si assume oppure no un principio di totale parificazione della condizione dei lavoratori immigrati rispetto a quella dei lavoratori bianchi. A mio parere, una cosa altrettanto fondamentale è - se si vuole attivamente contrastare questa pericolosissima ripresa del razzismo - quella di prendere posizione in modo molto più deciso di quanto sia stato fatto finora contro le guerre d'aggressione che l'Occidente sta conducendo in tutto il mondo. Guardate la Fallaci, l'Ariana Fallaci mi vien di chiamarla, benché sia una laica e di quelle con cui un certo tipo di cultura aspira a legarsi - Fassino e tutta quest'altra brava gente, diciamo di tendenze radicali (con rispetto parlando per questa parola). Costei ha scritto un libretto a suo modo magistrale e sanguinario, in cui vediamo la più perfetta rappresentazione di una coscienza europea media, di una coscienza occidentale media, borghese chiaramente, che chiede un'azione d'aggressione e anche di sterminio nei confronti delle popolazioni di colore in lotta e in rivolta. Eppure non solo questo libretto, che è poca cosa, ma la stessa guerra che tutto l'Occidente sta portando avanti rischiano di passare sotto silenzio. Per questo dico che, se vogliamo reagire effettivamente contro questa ondata velenosa e pericolosa di razzismi, è necessario esporsi in modo un po' più deciso su questo versante.

Sia in Razze schiave e razze signore sia in Immigrazione e trasformazione della società, metto in guardia dalla etnicizzazione dei problemi degli immigrati e dalla stessa categoria di etnia, con tutto ciò che le sta dietro. Perché? Perché, dopo la Seconda Guerra mondiale, è evidente come le democrazie vincitrici ed eredi del nazifascismo - sottolineo eredi, non semplicemente vincitrici, ma eredi legittime di tutti gl'insegnamenti fondamentali del nazifascismo - non abbiano potuto recepire la forma specifica del razzismo nazifascista. Adesso si sta via via recuperando anche quella, lentamente, attraverso processi contraddittori. Le democrazie occidentali, un tempo si diceva imperialiste e non credo che questa definizione sia perita, queste democrazie hanno la loro propria forma di ripresentare il contenuto, l'ideologia e la prassi razzista del nazifascismo sconfitto. Una delle forme attraverso cui si ripresenta quello stesso contenuto è la sostituzione della categoria razza con la categoria etnia, che non è affatto un passo in avanti, anzi, è un passo all'indietro, perché bene o male razza è una categoria affasciante. Gobineau dice che ci sono tre grandi razze: i neri, i gialli e i bianchi (esiste un gran numero di classificazioni delle razze: si va da centinaia a tre). Anche nell'opera che è la pietra angolare della dottrina razzista, tutto sommato, le razze si riducono a tre: è un affasciamento di popolazione. La categoria etnia ha questo di tipico, di perfettamente rispondente agl'interessi delle potenze occidentali: è una categoria che frantuma. La categoria etnia nella sua applicazione sistematica, anche se non soprattutto a sinistra, frantuma non solo i grandi aggregati alla Gobineau ma anche le nazioni, in particolare quelle di nuova indipendenza. Questa categoria è applicata con particolare sistematicità dal giornalismo e dalla diplomazia alle nazioni di nuova indipendenza, cioè a quelle nazioni che hanno cercato, a prezzo di sanguinose lotte contro il colonialismo, di superare la frammentazione, riuscendo a raggiungere la dimensione nazionale. In qualunque testo voi apriate sulle situazioni del Terzo Mondo, in modo smaccatissimo per quanto riguarda l'Africa, troverete questa categoria. (ˇ stata fatta la stessa cosa per l'Afghanistan. Gli unici due tentativi di superare la divisione etnica in questo Paese li ha distrutti proprio l'Occidente: la prima volta quando fece cadere un re, Am­n Ull­h, che scrisse quasi lettere d'amore, diciamo così, alla Rivoluzione russa di Lenin, Trotsky ecc.; la seconda volta, negli anni Settanta, con la frazione più di sinistra della piccola borghesia afghana. Gli unici due tentativi datisi in un secolo di superare la dimensione della frammentazione etnica in Afghanistan sono stati abbattuti con guerre dirette e indirette da parte dell'Occidente.) La nostra rappresentazione di queste popolazioni passa sempre più attraverso la categoria dell'etnia. Perché? Perché è interesse dei grandi potentati economici e finanziari sbriciolare gli Stati di nuova indipendenza e arrivare a poter disporre delle ricchezze e della forza-lavoro di questi territori senz'avere l'impaccio degli Stati nazionali, andando a trattare direttamente con i piccoli capi clan, così da poterli sottomettere con relativa facilità. Salvo poi avere problemi anche a questo livello (perché le contraddizioni e gli antagonismi non possono essere aboliti, da nessuno). Dà fastidio che ci siano Stati nazionali che possono essere un argine, in qualche modo. Davano fastidio la Iugoslavia, la Serbia, ecc., come dà fastidio l'Iraq, che dev'essere diviso in tre, in quattro, in cinquanta ecc. Ora, credo che anche a sinistra, anche nei circuiti che possiamo raggiungere direttamente, bisognerebbe prestare molta più attenzione a un'attitudine che spesso viene presentata come il "rispetto della differenza". Il discorso etnico è la fissazione e la moltiplicazione delle differenze al fine della divisione, cosa ben diversa dal rispetto della differenza. Quindi, ci sarebbe da andare un po' più in profondità e analizzare in che modo questa categoria ricompaia a tutti i livelli. In particolare nelle amministrazioni di sinistra è tipico implementare il folclore, la cucina etnica ecc. Il caso di Mestre è tipico: i camerunesi vengono invitati a organizzarsi non come camerunesi ma sulla base delle diverse regioni e quindi delle diverse etnie. In sostanza il Comune invita a moltiplicare le associazioni, all'interno della stessa nazione camerunese. L'etnia è una politica, non semplicemente una categoria, è uno strumento operativo di azione, di divisione.

Devo precisare che, nella mia relazione di oggi, ho usato polemicamente il termine razze: so bene che le donne non sono una razza e che la classe operaia soltanto impropriamente lo è. Ho parlato di "razzizzazione" della classe operaia per dire che c'è una rappresentazione della classe operaia, ieri come oggi, la quale tende a inferiorizzarla e ad avvicinarla agli stereotipi tipici del mondo animale. Ho denunziato questo parlando di razze schiave, ho usato questo termine polemicamente, non intendo sostituire il termine razza a quello di classe e neppure a quello di sesso. Indubbiamente c'è un limite nella possibilità di usare polemicamente questi termini; ho semplicemente voluto segnalare è che si dà un'unità di meccanismi.

Dobbiamo ammettere che negli anni passati, spesso, abbiamo considerato separatamente queste forme di sfruttamento e ci siamo lasciati andare all'idea, e alla pratica, della possibilità di una risposta distinta ed efficace a questo sistema di relazioni. Sottolinearne invece, come ho cercato di fare, l'unitarietà è in funzione della necessità di dare una risposta integrata allo sfruttamento combinato delle razze schiave. In questo senso, non è solo una polemica anti-, ma anche una sollecitazione in vista di una lotta sempre più integrata. Il destino delle popolazioni di colore, il destino del proletariato e quello della donna sono inseparabilmente legati tra loro. Non c'è soluzione delle contraddizioni per gli uni senza che ci sia anche per gli altri.

è un errore capitale credere che il razzismo colpisca solo quelli su cui si abbatte direttamente, anche perché se c'è una cosa che le nostre democrazie hanno imparato magnificamente dal nazifascismo è che, perché sia efficace, la politica razziale deve coinvolgere la popolazione, non può semplicemente essere fatta statualmente. Le democrazie hanno appreso in pieno l'insegnamento della mobilitazione dall'alto, insegnamento tipico dell'esperienza nazifascista,. Tutto sommato Bossi non ha cercato di far marciare la sua base in questa stessa direzione? Le Pen, Haider non hanno fatto la medesima cosa? Sicuramente. E anche da sinistra si cerca di far marciare la popolazione, innanzitutto quella lavoratrice; si cerca di coinvolgerla attivamente in quest'aggressione agli altri che è un'aggressione a se stessi perché gli altri sono sé. I proletari immigrati sono una parte del mondo del lavoro, del mondo proletario, quindi aggredire e colpire loro è aggredire e colpire tutti, perché più sono schiacciati loro più saremo schiacciati tutti quanti. In questo senso, guai a vedere il razzismo come qualcosa di limitato: cerchiamo di combattere insieme qualcosa che si abbatte su tutti noi; e accetto perciò molto volentieri la sintesi efficacissima, che ho sentito fare oggi, secondo cui il razzismo è inversamente proporzionale alla forza del proletariato. ˇ esattamente così, perché l'antidoto - non lo dico io che sono marxista, comunista, internazionalista: lo dice persino una persona un po' più oggettiva di altri pubblicisti quale fu Hannah Arendt - al razzismo in Germania, l'unica forza che l'ha combattuto, è stata la classe operaia, il proletariato. Adesso sembra un insulto parlare di proletariato e di classe operaia; per me è una cosa oggettiva quindi continuo tranquillamente a parlare di proletariato e di classe operaia. ˇ evidente che non c'è altra forza attivamente coinvolgibile che possa svolgere una funzione attiva di contrasto al razzismo se non questa, naturalmente insieme con le razze di colore - se le popolazioni di colore supereranno, come stanno cominciando a fare, un chiuso nazionalismo che le isola le une dalle altre - e con le donne - se il movimento femminile supererà quelle caratteristiche assolutamente bianche che ha avuto negli anni Settanta. Per fortuna la Marcia mondiale delle donne nel 2000 ha visto un forte avvicinamento tra le donne canadesi, le più attive di tutto il movimento, e le donne dei continenti di colore. Questa è stata una cosa molto bella, molto diversa dal femminismo perfettamente bianco dei primi anni Settanta, animato da gente semi-benestante, estraneo nel suo sentimento di fondo alla condizione delle donne delle popolazioni di colore. Credo che la Marcia delle donne 2000 vada proprio in questo senso, benché ci sia un lungo cammino da fare ancora per tutti: per le donne, senz'altro (che però, per fortuna ricompaiono in massa in scena), per il proletariato, per la classe operaia (non ne parliamo), che ha da fare un cammino non minore, forse maggiore. Quindi, il cammino da fare è enorme, però, è importante che sia chiaro come non ci siano altre forze oltre quelle di cui stiamo parlando in grado di contrastare efficacemente il razzismo. Rivolgersi agli intellettuali è una bufala, è una cosa paradossale, perché in Italia se si è potuto fare una manifestazione come quella del 19 a Roma è esclusivamente grazie alle lotte degli immigrati, grazie a quella rete di solidarietà, di cooperazione che ha fatto sì che gli immigrati che si stanno battendo da quando è stato assassinato Jerry Maslow fino a oggi - sono tredici anni - non siano rimasti totalmente soli. Questi sono i soggetti di una vera, e non di facciata, lotta contro il razzismo. I proletari del Terzo Mondo presenti in Italia non sono come credono quelli di Ya-Basta o di certi Social Forum, cioè gente da tenere sotto tutela: "Noi andiamo a parlare per Voi". Ci sono comitati con 30 immigrati, ma il portavoce è necessariamente qualcuno che, istituzionalmente, ha questo compito, di fatto assegnato dai Comuni. Tutto ciò per me è un neo-paternalismo di sinistra, se non peggio. Non voglio dilungarmi su episodi di uno squallore immenso, ma la logica è quella di tenere sotto tutela, quindi con diritti limitati e con rappresentanze bianche. Invece è vero che esiste un'enorme ricchezza d'esperienza, anche politica. Se avete ascoltato tre o quattro degli interventi dal palco del 19 di gennaio a Roma, avrete notato come alcuni fossero assolutamente magistrali, anche sul piano politico, proprio nella capacità d'individuare interlocutori e di lanciare messaggi destinati, quindi è vero che i proletari e le proletarie che arrivano qui dal Terzo Mondo, non arrivano nudi di tutto. Perché ormai dalla rivolta di Haiti ci sono due secoli di lotta attiva contro il colonialismo, e questa non è gente che è nata ieri, e bisognerebbe saper capitalizzare questa esperienza.

Una sola parola sulla questione dei flussi. L'idea del controllo dei flussi è vecchia, tanto che la prima politica sistematica di controllo organico dei flussi data dagli anni Venti in America. Dico vecchia, cioè non dei nostri giorni, perché rispetto al nomadismo potremmo risalire anche a prima, per esempio al Medioevo, quando esistevano fortissime limitazioni ai movimenti; se poi riandiamo al nomadismo originario, possiamo dire che ci sono state diverse motivazioni per gli ostacoli agli spostamenti. Potremmo fare un ragionamento sul nomadismo e vedere che lo stesso aveva in sé non il principio del movimento illimitato, come filosofia umana, ma il principio del movimento necessario. Cioè il nomade si sposta quando è obbligato dalle circostanze, quindi anche il diritto-bisogno di spostarsi è sempre da storicizzare nelle sue forme. Noi siamo contro le politiche di navi che affondano. Invece è importante ricostruire la politica di controllo forte delle frontiere rispetto all'immigrazione degli anni Venti negli Stati Uniti. Raffaele Rauty in un suo libro - Il sogno infranto (Manifestolibri, Roma, 1999) - racconta proprio di questo primo organico tentativo, motivato anche razzialmente (sostenuto dai bravi sociologi delle università statunitensi), di attuare una politica di chiusura delle frontiere. Una prima politica sistematica di chiusura delle frontiere che, credo saprete, viene lodata nel Mein Kampf, laddove Hitler dice che la Germania di Weimar è una terra degenerata, mentre gli Stati Uniti (democratici, perché era al governo il Partito democratico), hanno fatto dei passi nella direzione giusta. I criteri fondamentali di questa politica stanno ritornando, a partire dal 1968, quando un premier inglese, Inok Powell, fece un discorso in parlamento contro la marea montante dal Terzo Mondo che avrebbe imbastardito la razza bianca e avrebbe, diciamo così, portato il pericolo dei popoli di colore all'interno dell'Europa. Da allora (non a caso il 1968, anno in cui anche le popolazioni di colore erano attive sul tema della lotta anticoloniale tricontinentale) Powell con questo discorso violentissimo spezza la facciata democratica antirazzista. Da allora si adopera il modello, non a caso etologico, della marea, cui tutti i Paesi europei si sono allineati a questa politica, che tende non tanto a controllare i flussi, quanto a schiacciare gli immigrati, perché nei Paesi europei, dal 1968 a oggi, l'immigrazione in genere è cresciuta. Forse in un solo Paese ha avuto una relativa stagnazione, ed è la Francia, mentre ma negli altri è enormemente cresciuto. Ormai siamo ad almeno 20 milioni di lavoratori immigrati nei principali Paesi europei, quindi questa politica non è servita a impedire l'immigrazione perché le imprese hanno bisogno di lavoratori immigrati, questo è chiaro. A che cosa è servita invece questa politica? A rendere più difficile l'ingresso degli immigrati in Europa, ossia a renderlo più costoso in modo tale che almeno i primi anni della loro permanenza in Europa siano anni di vera e propria schiavitù. Perché tu entri e hai un debito accumulato che non c'era quando i lavoratori dal Veneto o dalla Sicilia andavano negli anni Cinquanta a Marcinelle a morire nelle miniere di carbone; allora tu non dovevi pagare 4 milioni del tempo per arrivare in Belgio. Addirittura era lo Stato a darti il biglietto, perché c'era un accordo sul trasferimento di manodopera. Tu arrivavi lì e trovavi il lavoro, in un certo senso già garantito (non parliamo del tipo di lavoro né della rimunerazione). Adesso ogni immigrato che entra ha un debito di vario tipo e poiché sono stati istituiti i controlli ed esistono due mafie all'ingresso: la mafia dello Stato, che è quella più importante, e la mafia delle organizzazioni cosiddette mafiose. Allora tu devi pagare per il viaggio e quando entri devi passare sotto queste altre due forche caudine. Tutto il sistema dei controlli non serve a impedire i flussi, bensì a inferiorizzare gli immigrati in modo tale che come minimo tu abbia un periodo di subordinazione garantita, dopodiché si vedrà. Serve più a questo che all'idea del controllo totale, perché il controllo totale non lo si vuole assolutamente.