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LA PRIGIONE DAPPERTUTTO
(1971).

["La prison partout", in «Combat», n. 8335, 5 maggio 1971, p. 1].


Da tre mesi il Gruppo d'informazione sulle prigioni conduce la sua inchiesta. Interroga i detenuti, gli ex detenuti, le loro famiglie, tutti gli utenti della prigione. Dopo tutto a chiunque di noi può capitare di andare in prigione; con che diritto ci si impedisce di sapere cos'è realmente? Essa è uno degli strumenti del potere, e uno dei più smisurati. Con che diritto il potere la rende un segreto?
Il primo maggio ci siamo recati alle porte di Fresnes e della Santé. Come tutti i sabati i visitatori aspettano una mezz'ora, tre quarti d'ora prima di potere entrare. J.-M. Domenach e qualche altro sono andati a Fresnes; io ero con quelli della Santé. Abbiamo discusso con la gente, soprattutto del casellario giudiziario. Abbiamo distribuito un testo e donato del mughetto.
E' durato poco: i poliziotti sono arrivati e ci hanno portato al posto di polizia. Pareva che non sapessero bene il perché. A Fresnes era per «mancanza di deposito legale»; alla Santé per «ambulantato senza ricevuta». Sfortuna nera: nessuno dei due motivi poteva valere in questo caso. Quisquilie? Per niente. La strada sta diventando il dominio riservato della polizia; il suo arbitrio vi detta legge: circola e non fermarti; cammina e non parlare; quello che hai scritto non lo darai a nessuno; niente assembramenti. La prigione comincia ben prima delle sue porte. Da quando esci da casa tua.
Ma il seguito è stato ancora più edificante. Al posto di polizia ci hanno chiesto i nostri nomi, quelli dei nostri genitori, eccetera. «Ma quanti ce ne sono tra voi che abbiano un nome veramente "gaulois"?» Una studentessa ha fatto notare allora che in effetti lei non aveva un nome "gaulois"; e che lo sapeva bene, dato che glielo avevano fatto notare durante la guerra; e che al termine di queste osservazioni, c'era stata per la sua famiglia la deportazione e il crematorio. Il poliziotto si è avvicinato alla studentessa e le ha chiesto se c'era qualcosa che non andava e se non avesse per caso preso dell'hascisc. Poi è stato zitto. Dopo un quarto d'ora, facendo il gesto di mirare e sparare con un revolver immaginario, ha gridato «Heil Hitler!» Mi è sembrato che il graduato non fosse troppo a suo agio. Ci ha rapidamente liquidato.
Ma c'è stato anche un altro poliziotto, che ci ha seguito sul marciapiede; ero già abbastanza lontano dal posto di polizia quando mi ha dato un colpo sulla schiena e mi ha insultato. I suoi «colleghi» sono venuti a cercarlo; sbraitava; si sono impadroniti di lui e ho avuto l'impressione che si dibattesse. Violenza su un agente? La legge è severa, credo, per questo genere di delitto. Speriamo bene.
Da parte nostra certamente sporgeremo denuncia, perché bisogna che si sappia che nell'arbitrio minuscolo e quotidiano della strada, in un affare apparentemente semplice di volantini distribuiti, l'ultimo dei poliziotti è perfettamente a conoscenza del ruolo che gli si fa svolgere; è egli stesso a chiamare per nome il sistema che si stabilisce dolcemente mediante i suoi rozzi gesti maldestri; egli saluta la funzione nuova che esercita, e invoca gioiosamente il capo che si merita.

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