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LA VITA DEGLI UOMINI INFAMI
(1977).


["La vie des hommes inf‰mes", in «Les Cahiers du chemin», n. 29, 15 gennaio 1977, p.p. 12-29.

La riesumazione degli archivi di internamento dell'H™pital Général e della Bastiglia è un progetto costante a partire dalla "Storia della follia". Foucault vi lavora e vi fa lavorare a più riprese. Da antologia - di cui questo testo era l'introduzione - il progetto divenne nel 1978 una collezione («Les Vies parallèles», Gallimard), in cui Foucault pubblica le memorie di Herculine Barbin e poi, nel 1979, "Le Cercle amoureux d'Henri Legrand", tratti da manoscritti crittografici conservati alla Bibliothèque Nationale, trascritti e presentati da Jean-Paul e Paul-Ursin Dumont. Tuttavia, nel 1979, Foucault propone di esaminare i manoscritti riuniti per l'antologia alla storica Arlette Farge, che ha appena pubblicato "Vivre dans la rue à Paris au XVIIIe siècle" (collezione «Archives» Julliard/Gallimard). Da questa collaborazione nasce "Le Désordre des familles" (collezione «Archives», Julliard/Gallimard 1982), dedicato alle "lettres de cachet"].


Questo non è un libro di storia. La scelta che vi si troverà non ha avuto regola più importante che il mio gusto, il mio piacere, un'emozione, il riso, la sorpresa, un certo sgomento o qualche altro sentimento di cui mi sarebbe forse difficile giustificare l'intensità, ora che è passato il momento della prima scoperta.
E' un'antologia di esistenze. Vite di qualche riga o di qualche pagina, di innumerevoli avventure e sventure, riunite in un pugno di parole. Vite brevi, incontrate per caso tra libri e documenti. Degli "exempla", ma - a differenza di quelli che i saggi raccoglievano nel corso delle loro letture - esempi che racchiudono, più che lezioni da meditare, dei brevi effetti, la cui forza si spegne quasi subito. Mi sarebbe abbastanza piaciuto designarli col termine «novella» (1), in virtù del doppio riferimento che esso comporta: della rapidità del racconto e della realtà degli avvenimenti riferiti; perché è tale in questi testi la stringatezza delle cose dette, che non si sa se l'intensità che le attraversa dipenda maggiormente dal risplendere delle parole o dalla violenza dei fatti che in essi si agitano. Vite singolari, divenute, per non so quale caso, degli strani poemi, ecco cosa ho voluto radunare in una sorta d'erbario.
Credo proprio che l'idea mi sia venuta un giorno in cui leggevo alla Bibliothèque Nationale un registro d'internamento redatto all'inizio del diciottesimo secolo. Mi sembra anche che mi sia venuta dalla lettura delle due notizie che riporto.

"Mathurin Milan, messo nell'ospedale di Charenton il 31 Agosto 1707: «La sua pazzia è sempre stata di nascondersi alla famiglia, di condurre in campagna una vita oscura, di subire dei processi, di concedere dei prestiti a usura e a fondo perduto, di portare a spasso il suo povero spirito per strade sconosciute, e di credersi capace delle cose più grandi».
Jean Antoine Touzard, rinchiuso nel castello di Bictre il 21 aprile 1701. Francescano apostata, sedizioso, capace dei peggiori crimini, sodomita, ateo, se lo si può essere, è un vero mostro d'abominio che sarebbe più conveniente soffocare che lasciar libero.»"

Sarei in imbarazzo a dire quel che ho provato quando ho letto questi frammenti e molti altri simili: senza dubbio una di quelle impressioni di cui si dice che sono «fisiche», come se potessero essercene altre. Confesso che queste «novelle» che riemergevano all'improvviso, dopo aver attraversato due secoli e mezzo di silenzio, hanno scosso in me più fibre di quanto non possa quella che normalmente si chiama letteratura, senza che io possa ancora oggi dire se mi ha commosso maggiormente la bellezza di questo stile classico, drappeggiato in poche frasi attorno a personaggi senza dubbio miserabili, o invece gli eccessi, la mescolanza di oscura ostinazione e di scelleratezza di queste vite, di cui si percepisce, sotto parole lisce come pietra, la sconfitta e l'accanimento.
Molto tempo fa ho utilizzato documenti simili per un libro. Se allora l'ho fatto, è senza dubbio a causa della vibrazione che ancora oggi provo quando mi capita d'imbattermi in queste vite infime, divenute cenere nelle poche frasi che le hanno stroncate. Il sogno sarebbe stato di restituire la loro intensità attraverso una analisi. In mancanza del necessario talento, ho a lungo rimuginato sull'unica analisi: presi i testi nella loro secchezza; ricercata la loro ragion d'essere (a quali istituzioni o pratiche politiche si riferissero); cercato di comprendere perché fosse stato così importante in una società come la nostra che fossero «soffocati» (come si soffoca un grido, un fuoco o un animale) un monaco scandaloso o un usuraio lunatico e sconclusionato: ho cercato la ragione per cui si era voluto impedire con tanto zelo ai poveri spiriti di andarsene a spasso per strade sconosciute. Ma le emozioni di quei primi momenti, che mi avevano motivato, rimanevano al di fuori. E dato che c'era il pericolo che non riuscissero a passare nell'ordine delle ragioni, dato che il mio discorso era incapace di restituirle come sarebbe stato necessario, non era forse meglio lasciare i testi nella stessa forma che me le aveva suscitate?
Da qui l'idea di questa raccolta, fatta un po' a casaccio. Raccolta che si è andata formando senza fretta e senza uno scopo chiaramente definito. A lungo mi sono preoccupato di presentarla seguendo un ordine sistematico, con qualche rudimento esplicativo in modo che essa potesse manifestare un minimo di significatività storica. Ma ho rinunciato, per delle ragioni su cui tornerò subito. Mi sono deciso a radunare semplicemente un certo numero di testi, per l'intensità che mi sembravano possedere; li ho corredati di qualche notizia preliminare; e li ho distribuiti in modo da conservare - secondo me, il meno peggio che fosse possibile - l'effetto di ognuno. La mia inadeguatezza mi ha votato al lirismo frugale della citazione.
Questo libro non sarà quindi affare degli storici, meno ancora che di altri. Libro umorale e puramente soggettivo? Dirò piuttosto, ma questo rimanda allo stesso punto, che è un libro di convenzione e di gioco, il libro di una piccola mania che si è creata il suo sistema. Credo proprio che il poema dell'usuraio lunatico e quello del francescano sodomita mi siano serviti, di volta in volta, da modello. E' per ritrovare qualcosa di simile a queste esistenze-lampo, a queste vite-poema, che mi sono imposto un certo numero di semplici regole:
- che si tratti di personaggi realmente esistiti;
- che queste esistenze siano state insieme oscure e sfortunate;
- che siano raccontate in qualche pagina o meglio in qualche frase, nel modo più breve possibile;
- che questi racconti non costituiscano semplicemente degli aneddoti strani o patetici, ma che in un modo o nell'altro (dato che si tratta di querele, denunce, ordini o rapporti) abbiano veramente fatto parte della storia minuscola di queste esistenze, della loro sventura, della loro rabbia, della loro incerta follia;
- che dallo shock di queste parole e di queste vite scaturisca per noi ancora un certo effetto misto di bellezza e di spavento.
Ma su queste regole, che possono parere arbitrarie, bisogna che mi spieghi un po' meglio.

*

Ho voluto che si trattasse sempre di esistenze reali, che si potesse dare loro un luogo e una data; che dietro questi nomi che non dicono più nulla, dietro queste parole rapide e che possono nella maggior parte dei casi essere state false, menzognere, ingiuste, eccessive, vi siano stati degli uomini che sono vissuti e sono morti, delle sofferenze, delle cattiverie, delle gelosie, delle dicerie. Ho quindi bandito tutto ciò che potesse essere immaginazione o letteratura: nessuno degli eroi negativi che queste hanno potuto inventare mi è sembrato così intenso come questi ciabattini, questi soldati disertori, questi ambulanti, questi scribacchini, questi monaci vagabondi, tutti arrabbiati, scandalosi, o miserabili; e questo solo perché si sa che sono veramente esistiti. Egualmente ho bandito tutti i testi che potevano essere memorie, ricordi, ritratti, tutti quelli che raccontavano bene la realtà, ma mantenendo, nei suoi confronti, distanza dello sguardo, della memoria, della curiosità o del divertimento. Ho tenuto al fatto che questi testi fossero sempre in rapporto, o piuttosto nel più gran numero di rapporti, con la realtà: non solo che essi vi facessero riferimento, ma che vi operassero; che fossero una "pièce" nella drammaturgia del reale, che costituissero lo strumento di una vendetta, l'arma di un odio, un episodio di una battaglia, la gesticolazione di una disperazione o di una gelosia, una supplica o un ordine. Non ho cercato di riunire testi che fossero più fedeli di altri alla realtà, che meritassero di essere conservati per il loro valore rappresentativo, ma testi che hanno giocato un ruolo in questo reale di cui parlano, e che di rimando si trovano a esserne attraversati, quale che sia la loro inesattezza, la loro enfasi o la loro ipocrisia: frammenti di discorso che portano con sé i frammenti di una realtà di cui sono parte. Non è una raccolta di ritratti quella che qui si leggerà: sono delle trappole, delle armi, delle grida, dei gesti, degli atteggiamenti e delle astuzie, degli intrighi di cui le parole sono state lo strumento. Vite vere sono state «giocate» in queste poche frasi; non voglio dire con questo che vi sono state raffigurate, ma che di fatto la loro libertà, la loro sventura, spesso la loro morte, in ogni caso il loro destino, vi sono stati almeno in parte decisi. Questi discorsi hanno realmente incrociato delle vite; delle esistenze sono veramente state rischiate e perdute in queste parole.
Ho voluto anche che i personaggi stessi fossero oscuri, che nulla li avesse predisposti a una qualunque notorietà, che essi non fossero dotati di nessuna delle grandezze che sono prestabilite e riconosciute - quelle della nascita, della fortuna, della santità, dell'eroismo o del genio; che appartenessero a questi miliardi di esistenze che sono destinate a passare senza lasciare traccia; che vi fosse nelle loro sventure, nelle loro passioni, in questi amori e questi odi, qualcosa di grigio e ordinario rispetto a quel che abitualmente si considera degno di essere raccontato; e che tuttavia essi fossero attraversati da un certo ardore, che fossero animati da una violenza, un'energia, un eccesso nella cattiveria, nella villania, nella bassezza, nella caparbietà, nella sfortuna, che conferissero loro agli occhi di quanti li attorniavano, e in maniera commisurata alla mediocrità di questi ultimi, una sorta di spaventevole e miserabile grandezza. Ero partito alla ricerca di particelle di questo genere, dotate di un'energia tanto più grande quanto più sono piccole e difficili a distinguersi. Perché qualcosa di esse giungesse fino a noi è stato pertanto necessario che un fascio di luce le illuminasse anche solo per un istante. Una luce che viene da un altro luogo. Quel che le strappa alla notte in cui avrebbero potuto, e forse avrebbero dovuto rimanere, è l'incontro con il potere: senza questo urto, non ci sarebbero qui parole per ricordarci il loro fugace percorso. Quel potere che ha atteso al varco queste vite, che le ha perseguitate, che ha fatto attenzione, anche solo per un attimo, al loro lamento e al loro piccolo strepito, e che le ha segnate tenendole tra le sue grinfie, è all'origine delle poche parole che di esse ci restano; o perché a esso ci si è voluti rivolgere per denunciare, lagnarsi, sollecitare, supplicare, o perché ha voluto direttamente intervenire e ha in poche parole giudicato e deciso. Tutte queste vite destinate a passare al di sotto di qualunque discorso e a sparire senza mai essere state dette, non hanno potuto lasciare delle tracce - brevi, incisive, spesso enigmatiche - che nel punto del loro istantaneo contatto con il potere. Così che è indubbiamente impossibile poterle più cogliere in se stesse, come poterono essere «allo stato libero»; si possono trovare solo prese nelle declamazioni, nelle parzialità tattiche, nelle menzogne imperative che presuppongono i giochi del potere e i rapporti con esso.
Mi si dirà: rieccoci, sempre con la stessa incapacità di oltrepassare la linea, di passare dall'altra parte, di ascoltare e far comprendere il linguaggio che viene da altrove o dal basso; sempre la stessa scelta, dalla parte del potere, di quello che esso dice o fa dire. Perché non andare ad ascoltare queste vite dove parlano di sé in prima persona? Ma prima di tutto, di quel che esse sono state nella loro violenza o sventura singolare ci resterebbe forse qualcosa se non avessero a un dato momento incrociato il potere e provocato le sue forze? Non è dopo tutto uno dei tratti fondamentali della nostra società che il destino vi assuma la forma del rapporto con il potere, della lotta con o contro di esso? Il punto più intenso delle vite, quello in cui si concentra la loro energia è proprio là dove si scontrano con il potere, si dibattono con esso, tentano di utilizzare le sue forze o di sfuggire alle sue trappole. Nelle parole brevi e stridenti che vanno e vengono tra il potere e le esistenze più inessenziali, vi è senza dubbio il solo monumento che sia mai stato loro accordato; è ciò a dar loro, permettendo di attraversare il tempo, quel poco di fama, il breve lampo che le conduce fino a noi.
Ho voluto insomma riunire alcuni rudimenti per una leggenda degli uomini oscuri, a partire dai discorsi che nella disgrazia o nella rabbia essi scambiano con il potere.
«Leggenda» perché vi si produce, come in tutte le leggende, un certo equivoco tra il fittizio e il reale. Che qui si produce per ragioni opposte. Il leggendario, quale che sia il suo nucleo di realtà, non è alla fine nient'altro se non la somma di quello che se ne dice. E' indifferente all'esistenza o all'inesistenza di colui del quale trasmette la gloria. Se questi è esistito, la leggenda lo ricopre di così tanti prodigi, lo abbellisce di tante impossibilità che tutto avviene quasi come se egli non fosse realmente vissuto. Se invece egli è puramente immaginario, la leggenda riporta su di lui tanti racconti così persistenti da fargli assumere lo spessore storico di qualcuno che sia veramente esistito. Nei testi che si leggeranno più avanti, l'esistenza di questi uomini e di queste donne rimanda esattamente a quello che ne è stato detto; di quel che sono stati o di quel che hanno fatto non sopravvive nulla, se non in poche frasi. E' la rarità qui, e non la prolissità, a far sì che realtà e finzione si equivalgano. Non essendo stati niente nella storia, non avendo giocato alcun ruolo apprezzabile negli eventi o tra le persone importanti, non avendo lasciato dietro di sé nessuna traccia che potesse essere riferita, essi non hanno, e non avranno mai, altra esistenza che al riparo precario di queste parole. E, grazie ai testi che parlano di loro, essi giungono fino a noi senza maggiori indizi di realtà che se scaturissero dalla "Legenda aurea" (2) o da un romanzo d'avventure. Questa mera esistenza verbale, che fa di questi infelici o di questi scellerati degli esseri quasi fittizi, essi la devono alla loro scomparsa pressoché assoluta e a questa fortuna o sfortuna che ha fatto sopravvivere, nella casualità dei documenti ritrovati, qualche rara parola che parla di loro o che hanno loro stessi pronunciato. Leggenda nera, ma soprattutto secca, ridotta a quel che fu detto un giorno e che improbabili accidenti hanno conservato fino a noi.
Ecco qui un altro tratto di questa leggenda nera. Essa non si è trasmessa come quella aurea per qualche necessità profonda, seguendo un percorso continuo, ma è per natura senza tradizione; rotture, cancellazioni, oblii, incroci, riapparizioni - è solo per questo tramite che può arrivare fino a noi. Fin dal suo inizio è trasportata dal caso. E' stato necessario prima di tutto un gioco di circostanze che ha inaspettatamente attirato sull'individuo più oscuro, sulla sua vita mediocre, su malefatte in ultima analisi abbastanza ordinarie lo sguardo del potere e l'esplosione della sua collera: alea che ha fatto sì che la vigilanza dei responsabili o delle istituzioni, destinata senza dubbio a cancellare ogni disordine, abbia detenuto questo invece di quello, il monaco scandaloso, la donna battuta, l'ubriacone inveterato e furioso, il mercante litigioso, e non tanti altri, al loro fianco, che non erano certo da meno nel far parlare di sé. E' stato poi egualmente necessario che fra i tanti documenti perduti e dispersi, fosse questo e non altri quello che ci è pervenuto, che è stato ritrovato e letto. Di modo che tra questa gente senza importanza, e noi che non ne abbiamo più di loro, non vi è nessun rapporto di necessità. Niente rendeva probabile che emergessero dall'ombra, loro piuttosto di altri, con la loro vita e le loro sventure. Divertiamoci pure, se ci piace, a vedervi una rivincita: la fortuna che ha permesso a queste persone assolutamente senza gloria di risorgere fra tanti morti, di gesticolare ancora, di continuare a manifestare la loro rabbia, la loro afflizione o il loro invincibile intestardirsi a divagare, compensa forse la sfortuna che aveva attirato su di loro, malgrado la loro modestia e il loro anonimato, gli strali del potere.
Vite che sono come se non fossero mai esistite, che non sopravvivono se non negli urti con un potere che non ha voluto che annientarle o cancellarle, vite che non ci ritornano se non per una serie di casi, ecco le infamie di cui ho voluto riunire qui qualche resto. Esiste una falsa infamia, quella di cui beneficiano uomini di scandalo e spavento come sono stati Gilles de Rais, Guillery o Cartouche, Sade o Lacenaire. Apparentemente infami, a causa dei ricordi abominevoli che hanno lasciato, delle malefatte loro attribuite, dell'orrore reverenziale che hanno ispirato, questi sono di fatto gli uomini della leggenda gloriosa, anche se le ragioni di questa fama sono l'opposto di quelle che fanno o dovrebbero fare la grandezza degli uomini. La loro infamia non è che una modalità della "fama" universale. Ma il francescano apostata, i poveri spiriti smarriti su cammini sconosciuti, quelli sono rigorosamente infami; non esistono che per le poche parole terribili che erano destinate a renderli indegni, per sempre, della memoria degli uomini. E il caso ha voluto che fossero queste parole, solo queste parole a sopravvivere. Il loro ritorno attuale nel reale si fa proprio nella forma in cui li si era voluti cacciare dal mondo. Inutile cercare loro un altro volto, o sospettare in essi un'altra grandezza; sono solo quello per cui li si è voluti opprimere: né più né meno. Tale è l'infamia in senso stretto, quella che non essendo mescolata né a uno scandalo ambiguo, né a una sorda ammirazione, non si concilia con nessun tipo di gloria.

*

In rapporto alla grande raccolta dell'infamia, che ne riunirebbe le tracce un po' dovunque e in tutti i tempi, mi rendo conto benissimo che la scelta qui presentata è meschina, ristretta, un po' monotona. Si tratta di documenti che appartengono più o meno allo stesso centinaio d'anni, 1660-1760, e che provengono tutti dalla stessa fonte: gli archivi degli internamenti, della polizia, delle suppliche al re e delle "lettres de cachet". Supponiamo che si tratti di un primo volume e che La vita degli uomini infami potrà estendersi ad altri tempi e altri luoghi.
Ho scelto questo periodo e questo tipo di testi a causa di una vecchia familiarità. Ma, se il gusto che ho per essi da anni non si è affievolito e vi ritorno spesso ancora oggi, è perché vi sospetto un cominciamento; in ogni caso un avvenimento importante in cui si sono incrociati dei meccanismi politici e degli effetti di discorso.
Questi testi del diciassettesimo e del diciottesimo secolo (soprattutto se li si confronta con quella che sarà in seguito la piattezza dei documenti amministrativi e polizieschi) hanno una loro forza, rivelano nelle pieghe di una frase uno splendore, una violenza che smentisce, almeno ai nostri occhi, la piccolezza della faccenda o la meschinità abbastanza vergognosa delle intenzioni. Le vite più miserabili vi sono descritte con le imprecazioni o l'enfasi che sembrano convenire a quelle più tragiche. Effetto senza dubbio comico: c'è qualcosa di derisorio nel convocare tutto il potere delle parole, e attraverso di esse, la sovranità del cielo e della terra, su disordini insignificanti o sventure così comuni: «Oppresso sotto il peso di un eccessivo dolore, Duchesne, commesso, osa con umile e rispettosa fiducia gettarsi ai piedi di Vostra Maestà per implorare la sua giustizia contro la più malvagia delle donne... Quale speranza non deve concepire lo sfortunato, che ridotto all'ultimo estremo, fa ricorso oggi a Vostra Maestà, dopo aver esaurito tutte le vie della dolcezza, della rimostranza e del riguardo, per ricondurre al suo dovere una donna priva di ogni sentimento di religione, d'onore e d'onestà, e perfino d'umanità? Tale è, Sire, lo stato dell'infelice che osa far risuonare la sua voce lamentosa all'orecchio di Vostra Maestà». O ancora di questa nutrice abbandonata che domanda l'arresto del marito in nome dei quattro figli «che non hanno nulla da attendersi dal proprio padre se non un esempio terribile degli effetti del disordine. La vostra giustizia, Monsignore, risparmierà loro una così disonorevole istruzione, e a me e alla mia famiglia l'obbrobrio e l'infamia, e metterà in condizione di non poter più fare alcun torto alla società un cattivo cittadino che non può che nuocerle». Si riderà forse; ma non bisogna dimenticare: a questa retorica che è magniloquente solo per la piccolezza delle cose cui si applica, il potere risponde in termini che non ci paiono affatto più misurati; con questa differenza tuttavia, che nelle sue parole balena il lampo delle decisioni; e la loro solennità può essere autorizzata, se non dall'importanza di quel che puniscono, per lo meno dal rigore del castigo che impongono. Se si imprigiona non si sa quale astrologa, è perché «vi sono pochi crimini che essa non abbia commesso e di cui non sia capace. Cosicché non vi è minor carità che giustizia nel liberare senza indugio il pubblico da una donna tanto pericolosa, che lo inganna, deruba e scandalizza impunemente da tanti anni». Oppure, a proposito di un giovane scapestrato, cattivo figlio e dissoluto: «E' un mostro di libertinaggio e d'empietà... avvezzo a tutti i vizi: briccone, indocile, impetuoso, violento, capace d'attentare deliberatamente alla vita del proprio padre... sempre in compagnia di prostitute di infimo ordine. Tutto quel che gli si rammenta delle sue bricconate non gli fa la benché minima impressione; non vi risponde che con un sorriso da scellerato che dà a conoscere il suo indurimento e che altro non permette d'apprendere se non che è incurabile». Alla minima stravaganza si è già nell'abominevole, o almeno nel discorso dell'invettiva e dell'esecrazione. Queste donne scostumate e questi figli ribelli non impallidiscono a fianco di Nerone o di Rodogune. Il discorso del potere nell'età classica, così come il discorso che a esso si rivolge, genera mostri. Perché questo teatro così enfatico del quotidiano? Il cristianesimo aveva in gran parte organizzato attorno alla confessione la sua conquista del potere sulla vita ordinaria: obbligo di far passare regolarmente al vaglio del linguaggio il mondo minuscolo di tutti i giorni, gli errori banali, le debolezze più impercettibili e persino il gioco oscuro dei pensieri, delle intenzioni e dei desideri; rituale di confessione in cui colui che parla è al tempo stesso colui di cui si parla; cancellazione della cosa detta mediante la sua enunciazione, ma insieme accrescimento della confessione stessa, che deve restare segreta, non lasciare dietro di sé altra traccia che il pentimento e le opere di penitenza. L'Occidente cristiano ha inventato questa stupefacente costrizione, che ha imposto a chiunque, di dire tutto per cancellare tutto, di formulare fino alla più piccola mancanza in un mormorio ininterrotto, accanito, esaustivo, cui nulla doveva sfuggire, ma che non doveva sopravvivere neppure un istante a se stesso. Per centinaia di milioni di uomini, e per secoli, il male si è dovuto confessare in prima persona, in un sussurrio fugace e obbligatorio. Ora, a partire da un momento che si può situare alla fine del diciassettesimo secolo, questo meccanismo si è trovato inquadrato e superato da un altro il cui funzionamento era molto differente. Concatenazione amministrativa e non più religiosa; meccanismo di registrazione e non più di perdono. L'obiettivo cui si mirava era tuttavia lo stesso. Almeno in parte: messa in discorso del quotidiano, percorso dell'universo infimo delle irregolarità e dei disordini senza importanza. Ma la confessione non vi gioca più il ruolo eminente che il cristianesimo le aveva riservato. Per questo incasellamento ("quadrillage") si utilizzano, e sistematicamente, dei procedimenti antichi, ma fino ad allora localizzati: la denuncia, la querela, l'inchiesta, il rapporto, lo spionaggio, l'interrogatorio. E tutto quello che così si dice si registra per iscritto, si accumula, costituisce dossier e archivi. La voce unica, istantanea e senza traccia della confessione penitenziale, che cancellava il male cancellandosi essa stessa, è rimpiazzata ormai da voci multiple, che si depositano in una enorme massa documentaria e costituiscono così attraverso il tempo come una memoria, crescente e incessante, di tutti i mali del mondo. Il male minuscolo della miseria e dell'errore non è più rinviato al cielo dalla confidenza appena udibile della confessione; si accumula sulla terra sotto forma di tracce scritte. E' tutto un altro tipo di rapporti che si stabilisce tra il potere, il discorso e il quotidiano, tutta un'altra maniera di governare quest'ultimo e di formularlo. Nasce per la vita ordinaria una nuova messa in scena.
I suoi primi strumenti, arcaici ma già complessi, sono noti: sono le suppliche, le "lettres de cachet" o le ordinanze reali, i vari internamenti, i rapporti e le decisioni di polizia. Non tornerò su quanto è già noto, ma solo su certi aspetti che possono dar conto della strana intensità e di una sorta di bellezza che rivestono a volte queste immagini affrettate in cui dei poveracci hanno assunto, per noi che li scorgiamo da così lontano, le sembianze dell'infamia La "lettre de cachet", l'internamento, la presenza generalizzata della polizia, tutto questo evoca abitualmente il dispotismo di un monarca assoluto. Ma bisogna vedere che questa «arbitrarietà» era una sorta di servizio pubblico. Gli «ordini del re» non si abbattevano all'improvviso, dall'alto in basso, come segni della collera del monarca, se non nei casi più rari. Il più delle volte essi erano sollecitati contro qualcuno dal suo stesso "entourage", da suo padre e sua madre, da uno dei suoi parenti, dalla sua famiglia, dai figli o figlie, dai vicini, a volte dal curato del posto o da qualche notabile; li si richiedeva con insistenza, come se si fosse trattato di grandi crimini che avrebbero meritato la collera del sovrano, per oscure storie di famiglia: sposi beffati o battuti, fortune dilapidate, conflitti d'interesse, giovani indocili, bricconate o bevute, e tutti i piccoli disordini della condotta. La "lettre de cachet" che si dava come la volontà espressa e particolare del re di fare rinchiudere uno di questi soggetti, al di fuori delle vie della giustizia regolare, non era che la risposta a una domanda venuta dal basso. Che non veniva però accordata a pieno titolo a chi la richiedeva; doveva precederla un'inchiesta, destinata a giudicare la fondatezza della domanda; essa doveva stabilire se una dissolutezza o un'ubriacatura, se una violenza o un libertinaggio meritassero davvero l'internamento, e in quali condizioni, e per quanto tempo: compito della polizia, che raccoglieva a questo fine testimonianze, spiate, e tutto quel mormorio dubbio che si addensa attorno a ognuno.
Il sistema "lettre de cachet"-internamento non fu che un episodio abbastanza breve: non più di un secolo e localizzato soltanto in Francia. Nondimeno è importante nella storia dei meccanismi del potere. Non assicura soltanto l'irruzione spontanea dell'arbitrio regio nell'elemento più quotidiano della vita. Ne assicura piuttosto la distribuzione secondo circuiti complessi e in tutto un gioco di domande e risposte. Abuso dell'assolutismo? Può darsi; tuttavia, non nel senso che il monarca abuserebbe puramente e semplicemente del suo potere, ma nel senso che ognuno può usare per sé, per i propri fini e contro degli altri, l'enormità del potere assoluto: una sorta di messa a disposizione dei meccanismi della sovranità, una possibilità data a chi sarà abbastanza astuto da captarli, da deviarne a proprio favore gli effetti. Da qui una certa serie di conseguenze: la sovranità politica viene a inserirsi al livello più elementare del corpo sociale; da soggetto a soggetto - e si tratta a volte dei più umili -, tra i membri della stessa famiglia, nei rapporti di vicinato, d'interesse, di mestiere, di rivalità, d'odio e d'amore, si possono far valere, oltre alle armi tradizionali dell'autorità e dell'obbedienza, le risorse di un potere politico che ha la forma dell'assolutismo; chiunque, se sa giocare il gioco, può diventare per l'altro un monarca terribile e senza legge: "homo homini rex"; tutta una catena politica viene a incrociarsi con la trama del quotidiano. Ma è ancora necessario, almeno per un attimo, appropriarsi di questo potere, canalizzarlo, captarlo e indirizzarlo nella direzione voluta; bisogna «sedurlo», per farne uso a proprio profitto; esso diviene al contempo oggetto di cupidigia e oggetto di seduzione; desiderabile quindi, e ciò nella misura in cui è assolutamente temibile. L'intervento di un potere politico senza limiti nei rapporti quotidiani diviene così non solo accettabile e familiare, ma profondamente auspicato, non senza divenire, per lo stesso motivo, il tema di una paura generalizzata. Non bisogna stupirsi di questa tendenza, che a poco a poco ha aperto le relazioni di appartenenza o di dipendenza, tradizionalmente legate alla famiglia, a controlli amministrativi e politici. Né stupirsi che il potere smisurato del re, funzionando così al centro delle passioni, delle rabbie, delle miserie e delle malefatte, abbia potuto diventare, a dispetto o proprio a causa della sua utilità, oggetto di esecrazione. Coloro che usavano le "lettres de cachet", e il re che le accordava, sono rimasti impigliati nella trappola della loro complicità: i primi hanno perduto sempre più la loro potenza tradizionale a vantaggio di un potere amministrativo; quanto al secondo, per il fatto di essere stato mescolato tutti i giorni a tanti odi e intrighi, è divenuto odiabile. Come diceva il duca di Chaulieu, credo nelle "Mémoires de deux jeunes mariées" (3), tagliando la testa al re la Rivoluzione l'ha tagliata a tutti i padri di famiglia. Di tutto ciò vorrei per il momento tener fermo questo: con i suoi dispositivi di supplica, di "lettres de cachet", di internamento, di polizia, nasce un'infinità di discorsi che attraversa in ogni senso il quotidiano e si fa carico, ma in un modo assolutamente differente dalla confessione, del male minuscolo delle vite senza importanza. Nelle ragnatele del potere, per circuiti assai complessi, vengono a impigliarsi le dispute di vicinato, le liti tra genitori e figli, i malintesi delle coppie, gli eccessi nel vino e nel sesso, le baruffe pubbliche e tante passioni segrete. C'è stato qui come un immenso e onnipresente appello per la messa in discorso di tutte queste agitazioni e di tutte queste piccole sofferenze. Comincia a crescere un mormorio che non si fermerà: quello per cui le variazioni individuali della condotta, le vergogne e i segreti sono offerti dal discorso alla presa del potere: il «qualunque» cessa di appartenere al silenzio, alla voce che passa o alla confessione fugace. Tutte queste cose che compongono l'ordinario, il dettaglio senza importanza, l'oscurità, le giornate senza gloria, la vita comune, possono e devono essere dette, o meglio scritte. Esse sono diventate descrivibili e trascrivibili, nella misura stessa in cui sono attraversate dai meccanismi di un potere politico. Per lungo tempo non avevano meritato d'essere dette seriamente che le gesta dei grandi: soltanto il sangue, la nascita e le gesta davano diritto alla storia. E se capitava a volte che i più umili accedessero a una sorta di gloria, era a causa di qualche fatto straordinario - una fama di santità o l'enormità di un misfatto. Che possa esserci nell'ordine di tutti i giorni qualcosa come un segreto da svelare, che l'inessenziale possa essere in certo modo importante, tutto questo è rimasto escluso, fino a che non è venuto a posarsi su queste turbolenze minuscole lo sguardo bianco del potere.
Nascita quindi di una immensa possibilità di discorso. Un certo sapere del quotidiano trova qui almeno parzialmente la sua origine, e con essa una griglia di intelligibilità che l'Occidente ha cercato di sovrapporre ai nostri gesti, alle nostre maniere di essere e di fare. Ma è stata necessaria per questo l'onnipresenza tanto reale che virtuale del monarca. E' stato necessario immaginarlo sufficientemente vicino a tutte queste miserie, sufficientemente attento al più piccolo di questi disordini, perché ci si mettesse a sollecitarlo; è stato necessario che egli stesso apparisse come dotato di una sorta di ubiquità fisica. Nella sua forma originale, questo discorso sul quotidiano era interamente rivolto al re; a lui s'indirizzava; doveva scivolare tra i grandi rituali cerimoniali del potere; doveva adottarne la forma e rivestirne i segni. Il banale non poteva essere detto, descritto, osservato, incasellato e qualificato se non in un rapporto di potere che era penetrato dalla figura del re - dal suo potere reale e dal fantasma della sua potenza. Da qui la forma singolare di questo discorso, che esigeva un linguaggio decorativo, d'imprecazione o di supplica. Ciascuna di queste piccole storie di ogni giorno doveva essere detta con l'enfasi dei rari avvenimenti che sono degni di fermare l'attenzione dei monarchi; una grande retorica doveva rivestire questi affarucci da niente. Mai più in seguito la triste amministrazione poliziesca o i dossier della medicina o della psichiatria ritroveranno simili effetti di linguaggio. A volte un edificio verbale sontuoso per raccontare un'oscura malefatta o un piccolo intrigo; a volte frasi brevi che folgorano un miserabile e lo fanno risprofondare nella sua notte; o ancora il lungo racconto di sventure narrate nella forma della supplica e dell'umiltà: il discorso politico della banalità non poteva essere che solenne.
Ma si produce in questi testi un altro effetto di differenziazione. Accadeva spesso che le domande d'internamento fossero fatte da persone di condizione molto umile, poco o niente alfabetizzate; essi stessi con le loro scarne conoscenze, o al posto loro uno scriba più o meno abile, componevano come potevano le formule e i giri di frase che pensavano fossero dovuti quando ci si rivolgeva al re o ai grandi, e le mescolavano ai termini più maldestri e violenti, a rustiche espressioni con cui pensavano di conferire alle loro suppliche maggior forza e verità; allora, in frasi solenni e fuori posto, a fianco a termini senza né capo né coda, affiorano espressioni rozze, maldestre, dissonanti; al linguaggio obbligatorio e rituale si intrecciano le impazienze, le collere, le rabbie, le passioni, i rancori, le rivolte. Una vibrazione e un'intensità selvaggia fanno vacillare le regole di questo discorso affettato e si fanno strada con le maniere di dire loro proprie. Così parla la donna di Nicolas Bienfait: essa «si prende la libertà di far presente molto umilmente a Monsignore che il detto Nicolas Bienfait, cocchiere di rimessa, è uomo grandemente debosciato che la ammazza di botte e che vende tutto avendo già fatto morire due sue mogli, alla prima avendo ucciso il di lei infante ancora in corpo, la seconda dopo averla venduta e consumata, con i suoi cattivi trattamenti l'ha fatta morire di languore, fino a volerla strangolare alla vigilia della sua morte... Alla terza vuole mangiare il cuore alla graticola, senza parlare di altre vittime che egli pure ha fatto; Monsignore io mi getto ai piedi di Vostra Grandezza per implorare la Vostra Misericordia. Spero che per la vostra bontà mi renderete giustizia, perché essendo la mia vita in costante pericolo, io non cesserò di pregare il Signore per la conservazione della vostra salute...».
I documenti che ho qui riunito sono omogenei e rischiano di apparire monotoni. E tuttavia funzionano all'insegna della disparità. Disparità tra le cose raccontate e il modo di dirle; disparità tra coloro che si lamentano e supplicano e quelli che su di loro hanno ogni potere; disparità tra l'ordine minuscolo dei problemi sollevati e l'enormità del potere messo in moto; disparità tra il linguaggio della cerimonia e del potere e quello dei furori o delle impotenze. Sono testi che guardano a Racine, o Bossuet, o Crébillon; ma essi portano con sé tutta una turbolenza popolare, tutta una miseria e una violenza, tutta una «bassezza» come si diceva, che nessuna letteratura dell'epoca avrebbe potuto accogliere. Fanno comparire dei pezzenti, dei poveracci, o semplicemente dei mediocri in uno strano palcoscenico in cui assumono delle posture, degli scoppi di voce, delle magniloquenze, in cui si rivestono di lembi di un drappeggio che è loro necessario, se vogliono che gli si presti attenzione sulla scena del potere. Fanno pensare a volte a una povera troupe di saltimbanchi paludati alla meno peggio con qualche orpello, un tempo sontuoso, per recitare dinanzi a un pubblico di ricchi, che si prenderà gioco di loro. Salvo che recitano la loro stessa vita e davanti a potenti che hanno il potere di deciderne. Personaggi di Céline che vogliono farsi ascoltare a Versailles.
Verrà un giorno in cui tutta questa disparità sarà cancellata. Il potere che si eserciterà a livello della vita quotidiana non sarà più quello di un monarca vicino e lontano, onnipotente e capriccioso, fonte d'ogni giustizia e oggetto di non importa quale seduzione, al contempo principio politico e potenza magica; sarà costituito da una rete sottile, differenziata, continua in cui si collegano le diverse istituzioni della giustizia, della polizia, della medicina e della psichiatria. E il discorso che si formerà allora non avrà più la vecchia teatralità artificiale e maldestra, si svilupperà in un linguaggio che pretende d'essere quello dell'osservazione e della neutralità. Si analizzerà il banale secondo la griglia efficace ma grigia dell'Amministrazione, del giornalismo e della scienza; salvo andare a cercarne gli splendori un po' più in là, nella letteratura. Nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo, si è ancora nell'epoca ruvida e barbara in cui tutte queste mediazioni non esistono; il corpo dei miserabili è contiguo quasi direttamente a quello del re, il loro agitarsi alle sue cerimonie; non solo non c'è un linguaggio comune, ma c'è uno scontro tra i disordini che si vogliono dire e il rigore delle forme che è necessario seguire. Da qui vengono per noi, che osserviamo da lontano questo primo affiorare del quotidiano nel codice del politico, strane folgorazioni, qualcosa di stridente e d'intenso, che si perderà in seguito, quando si farà di questi uomini e di queste donne, degli «affari», dei fatti diversi o dei casi.

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Momento importante quello in cui una società ha prestato dei termini, delle forme, dei rituali di linguaggio a una massa anonima di persone perché queste potessero parlare di se stesse - parlarne pubblicamente e alla triplice condizione che questo discorso fosse indirizzato e messo in circolazione in un dispositivo di potere ben definito, che facesse apparire il fondo fino ad allora appena percettibile delle esistenze e che, a partire da questa guerra infima delle passioni e degli interessi, concedesse al potere la possibilità di un intervento sovrano. L'orecchio di Dionisio era una piccola macchina ben più elementare se la si paragona a questa. Come sarebbe indubbiamente facile smantellare il potere, se esso si limitasse a sorvegliare, spiare, sorprendere, proibire e punire; ma esso incita, suscita, produce; non è semplicemente occhio e orecchio, ma fa agire e parlare.
Questo macchinario è stato indubbiamente importante per il costituirsi di nuovi saperi. Non è estraneo neppure a tutto un nuovo regime letterario. Non voglio dire che la "lettre de cachet" sia all'origine di forme letterarie inedite, ma che, alla svolta tra diciassettesimo e diciottesimo secolo, i rapporti del discorso, del potere della vita quotidiana e della verità si sono annodati in un modo nuovo, in cui la letteratura stessa si è trovata coinvolta.
La favola, secondo il senso della parola, è quello che merita di essere detto. A lungo nella società occidentale la vita di tutti i giorni non ha potuto accedere al discorso se non attraversata e trasfigurata dal favoloso; era necessario che essa fosse tratta fuori da se stessa dall'eroismo, dalla fama, dalle avventure, dalla Provvidenza e dalla grazia, eventualmente dal delitto; era necessario che fosse segnata da un tocco d'impossibile. Solo allora diventava dicibile. Quello che la metteva fuori dalla portata le permetteva di funzionare come lezione ed esempio. Più il racconto esulava dall'ordinario, più aveva forza per ammaliare o persuadere. In questo gioco di «favoloso esemplare», l'indifferenza al vero e al falso era dunque fondamentale. E se accadeva che si tentasse di dire in quanto tale la mediocrità del reale, non era che per provocare un effetto di burla: il solo fatto di parlarne faceva ridere.
Dopo il diciassettesimo secolo l'Occidente ha visto nascere tutta una «favola» della vita oscura, da cui il «favoloso» si è trovato proscritto. L'impossibile o il derisorio hanno cessato di essere la condizione alla quale si può raccontare l'ordinario. Nasce un'arte del linguaggio il cui compito non è più cantare l'improbabile, ma far apparire quel che non appare - che non può o non deve apparire: dire i gradi ultimi e più tenui del reale. Nel momento in cui si mette in moto un dispositivo per forzare a dire l'«infimo», quel che non si dice, quel che non merita alcuna gloria, dunque l'«infame», si forma un nuovo imperativo che va a costituire quel che si potrebbe chiamare l'etica immanente al discorso letterario dell'Occidente: le sue funzioni cerimoniali si vanno poco a poco cancellando; non vi sarà più come compito quello di manifestare in maniera sensibile lo splendore troppo visibile della forza della grazia, dell'eroismo e della potenza, ma di andare a cercare quel che è più difficile a scorgersi, il più nascosto, il più disagevole a dirsi e a mostrarsi, infine il più proibito e scandaloso. Una sorta d'ingiunzione a scovare la parte più notturna e più quotidiana dell'esistenza (salvo scoprirvi a volte le figure solenni del destino) va a disegnare quella che è la linea di tendenza della letteratura dopo il diciassettesimo secolo, dopo che ha cominciato a essere letteratura nel senso moderno della parola. Più che una forma specifica, più che un rapporto essenziale con la forma è questa costrizione, stavo per dire questa morale, che la caratterizza e ne ha portato fino a noi l'immenso movimento: dovere di dire il più comune dei segreti. La letteratura non riassume da sola tutta questa grande politica, questa grande etica discorsiva; neppure vi si riconduce interamente; ma vi ha il suo luogo e le sue condizioni di esistenza.
Da qui il suo duplice rapporto con la verità e con il potere. Mentre il favoloso non può funzionare se non in un'indecisione tra il vero e il falso, la letteratura invece s'installa in una decisione di non-verità: si dà principalmente come artificio, ma impegnandosi a produrre degli effetti di verità riconoscibili come tali; l'importanza che si è accordata nell'epoca classica al naturale e all'imitazione è indubbiamente uno dei primi modi di formulare questo funzionamento «veridico» della letteratura. La finzione ha da allora rimpiazzato il favoloso, il romanzo si libera dal romanzesco e non si svilupperà che liberandosene sempre più completamente. La letteratura fa quindi parte di questo grande sistema di costrizione mediante il quale l'Occidente ha obbligato il quotidiano a mettersi in discorso; essa vi occupa però un posto particolare: accanita com'è a cercare il quotidiano al di sotto di esso stesso, a superare i limiti, a svelare brutalmente o insidiosamente i segreti, a spiazzare regole e codici, a far dire l'inconfessabile, essa tenderà quindi a mettersi fuori legge o almeno a farsi carico dello scandalo, della trasgressione o della rivolta. Più che qualunque altra forma di linguaggio essa rimane il discorso dell'«infamia»: a essa spetta dire il più indicibile - il peggiore, il più segreto, il più intollerabile, lo spudorato. La fascinazione che da anni esercitano l'una sull'altra la psicoanalisi e la letteratura è in questo punto significativa. Ma non bisogna dimenticare che questa singolare posizione della letteratura non è che l'effetto di un determinato dispositivo di potere che attraversa in Occidente le economie dei discorsi e le strategie del vero.
Dicevo all'inizio che vorrei che questi testi si leggessero come altrettante «novelle». Senza dubbio era dire troppo; nessuno varrà mai il meno importante racconto di Cechov, di Maupassant o di James. Né «quasi-letteratura» né «sotto-letteratura», non è nemmeno l'abbozzo di un genere; è nel disordine, nel rumore e nella pena, nel lavoro del potere sulle vite, il discorso che ne nasce. "Manon Lescaut" racconta una di queste storie.'


NOTE.

1. Foucault usa qui "nouvelle" nel duplice significato di notizia e di novella o racconto; confer anche la chiusa del saggio [N.d.T.].

2. Nome dato alla raccolta di vite di santi composta in pieno tredicesimo secolo dal domenicano Iacopo da Varazze, "Legenda Aurea", a cura di A. Vitale Brovarone e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995.

3. Allusione alle affermazioni del duca di Chaulieu, riportate nella "Lettre de Mademoiselle de Chaulieu à Madame de l'Estorade", in H. de Balzac, "Mémoires de deux jeunes mariées", Librairie Nouvelle, Paris 1856, p. 59: «Tagliando la testa a Luigi Sedicesimo, la Rivoluzione ha tagliato la testa a tutti i padri di famiglia»; ed. it. a cura di P. Decima Lombardi, "Memorie di due giovani sposi", Mondadori, Milano 1982.

4, A. F. Prévost, "Les Aventures du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut", Amsterdam 1733; trad. it. di M. Ortiz, "Storia del cavaliere des Grieux e di Manon Lescaut", Einaudi, Torino 1982.

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