indice


LA VERITA' E LE FORME GIURIDICHE
(1973).


["A verdade e as formas juridicas", in « Cadernos da P.U.C..», n. 16, giugno 1974, p.p. 5-133. (Conferenze tenute alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro, dal 21 al 25 maggio 1973.)]


1.

In queste conferenze mi piacerebbe parlarvi di cose che sono forse inesatte, false, erronee, che presenterò a titolo di ipotesi di lavoro, di ipotesi in vista di un lavoro futuro. Chiedo la vostra indulgenza e, ancora più di questa, la vostra cattiveria. In effetti mi piacerebbe molto che, alla fine di ogni conferenza, voi mi poneste delle domande, mi faceste delle critiche e obiezioni, in modo che, nella misura del possibile e nella misura in cui la mia mente non è ancora troppo rigida, io possa a poco a poco adeguarmi a queste domande, e che possiamo così, alla fine di queste cinque conferenze, aver realizzato insieme un lavoro o eventualmente qualche progresso.
Presenterò oggi una riflessione metodologica per introdurre il problema che, con il titolo di "La verità e le forme giuridiche", può apparirvi un po' enigmatico. Cercherò di presentarvi quello che è il punto di convergenza di tre o quattro serie di ricerche esistenti, già esplorate, già inventariate, per confrontarle e riunirle in un genere di ricerca, non dico originale, ma quanto meno innovatrice.
In primo luogo una ricerca propriamente storica: come hanno potuto formarsi dei campi del sapere a partire dalle pratiche sociali? La questione è la seguente: esiste una tendenza che potremmo chiamare, un po' ironicamente, marxismo accademico e che consiste nel cercare in qual modo le condizioni economiche di esistenza possono trovare nella coscienza degli uomini il loro riflesso e la loro espressione? Mi sembra che questa forma d'analisi, tradizionale nel marxismo universitario in Francia e in Europa, presenti un difetto molto grave: quello di supporre che in fondo il soggetto umano, il soggetto della conoscenza, e le forme stesse della conoscenza, siano in un certo modo dati preliminarmente e definitivamente e che le condizioni economiche, sociali e politiche dell'esistenza non facciano altro che depositarsi o imprimersi su questo soggetto definitivamente dato.
Il mio scopo sarà quello di mostrarvi come le pratiche sociali possono giungere a produrre campi del sapere che non solo fanno apparire degli oggetti nuovi, dei nuovi concetti, delle nuove tecniche, ma fanno nascere delle forme totalmente nuove di soggetti e di soggetti di conoscenza. Il soggetto della conoscenza ha anch'esso una storia, la relazione del soggetto con l'oggetto, o detto più chiaramente, la verità stessa ha una storia.
Così mi piacerebbe particolarmente mostrare come ha potuto formarsi, nel diciannovesimo secolo, un determinato sapere dell'uomo, dell'individualità, dell'individuo normale o anormale, dentro o fuori la regola, un sapere che in verità è nato dalle pratiche sociali di controllo e di sorveglianza. E come, in un certo modo, questo sapere non si è imposto a un soggetto della conoscenza, non gli si è proposto, non si è impresso in lui, ma ha fatto nascere un tipo assolutamente nuovo di soggetto della conoscenza. Il primo asse di ricerca che vi propongo è la storia dei campi del sapere in relazione con le pratiche sociali, che esclude la priorità di un soggetto della conoscenza definitivamente dato.
Il secondo asse di ricerca è un asse metodologico, che si potrebbe chiamare analisi dei discorsi. Qui esiste ancora, mi pare, in una tradizione recente ma già accettata nelle università europee, una tendenza a trattare il discorso come un insieme di fatti linguistici legati tra loro da regole sintattiche di costruzione. Qualche anno fa era originale e importante affermare e mostrare che ciò che veniva fatto col linguaggio - poesia, letteratura, filosofia, discorso in generale - obbediva a un certo numero di leggi o di regolarità interne: le leggi e le regolarità del linguaggio. Il carattere linguistico dei fatti del linguaggio è stata una scoperta che ha avuto la sua importanza in una determinata epoca.
Sarebbe dunque venuto il momento di considerare questi fatti del discorso non più unicamente sotto il loro aspetto linguistico, ma, in certo modo - e qui mi ispiro alle ricerche realizzate dagli anglo-americani -, come giochi, "games", giochi strategici d'azione e reazione, di domanda e risposta, di dominazione e di sottrazione, come pure di lotta. Il discorso è questo insieme regolare di fatti linguistici a un certo livello, e di fatti polemici e strategici a un altro livello. Quest'analisi del discorso come gioco strategico e polemico è per me un secondo asse di ricerca.
Infine il terzo asse di ricerca che vi propongo, e che definisce, incontrandosi con i primi due, il punto di convergenza in cui io mi colloco, consisterebbe in una rielaborazione della teoria del soggetto. Questa teoria è stata profondamente modificata e rinnovata, nel corso di lunghi anni, da un certo numero di teorie, o ancora più seriamente da un certo numero di pratiche, tra cui la psicoanalisi si situa certamente in primo piano. La psicoanalisi è stata certamente la pratica e la teoria che ha rivalutato nella maniera più fondamentale la priorità un po' sacra conferita al soggetto che si era stabilita nel pensiero occidentale a partire da Descartes.
Due o tre secoli fa, la filosofia occidentale postulava in maniera esplicita o implicita il soggetto come fondamento, come nucleo centrale di ogni conoscenza, come ciò in cui e a partire da cui, la libertà si rivelava e poteva sbocciare. Ora, mi pare che la psicoanalisi abbia messo in questione in maniera insistente questa posizione assoluta del soggetto. Ma se la psicoanalisi l'ha fatto, mi sembra al contrario che, nel campo di ciò che si potrebbe chiamare la teoria della conoscenza o in quello dell'epistemologia, o della storia delle scienze, o ancora della storia delle idee, la teoria del soggetto sia rimasta ancora molto filosofica, molto cartesiana e kantiana - dato che, al livello di generalizzazione in cui mi colloco, non faccio differenza tra filosofia cartesiana e kantiana.
Attualmente, quando si fa storia - storia delle idee, della conoscenza o semplicemente storia -, ci si attiene a questo soggetto della conoscenza, a questo soggetto della rappresentazione, come punto di origine a partire da cui la conoscenza è possibile e la verità appare. Sarebbe interessante cercare di vedere come si produce attraverso la storia la costituzione di un soggetto che non è dato definitivamente, che non è quello a partire da cui la verità arriva alla storia, ma di un soggetto che si costituisce all'interno stesso della storia, ed è a ogni istante fondato e rifondato dalla storia. E' verso questa critica radicale del soggetto umano da parte della storia che bisogna spingersi.
Una certa tradizione universitaria o accademica del marxismo non l'ha fatta ancora finita con questa concezione filosofica tradizionale del soggetto. A mio avviso è questo che va fatto: mostrare la costituzione di un soggetto della conoscenza attraverso un discorso, considerato come un insieme di strategie che fanno parte di pratiche sociali.
E' questo il fondo teorico dei problemi che vorrei sollevare. Mi è parso che, tra le pratiche sociali nelle quali l'analisi storica permette di localizzare l'emergere di nuove forme di soggettività, le pratiche giuridiche, o più precisamente le pratiche giudiziarie, siano le più importanti.
L'ipotesi che mi piacerebbe proporre è che vi sono due storie della verità. La prima è una sorta di storia interna della verità, la storia di una verità che si corregge a partire dai propri principi regolativi: è la storia della verità come si fa nella storia delle scienze o a partire da essa. D'altra parte mi pare che esistano nella società, o almeno nelle nostre società, numerosi altri luoghi in cui la verità si forma, in cui un certo numero di regole del gioco vengono definite - regole del gioco a partire dalle quali si vedono nascere certe forme di soggettività, certi ambiti di oggetto, certi tipi di sapere -, e di conseguenza, si può fare, a partire da lì, una storia esterna, esteriore della verità.
Le pratiche giudiziarie, la maniera in cui tra gli uomini si giudicano i torti e le responsabilità, il modo in cui, nella storia dell'Occidente, si è concepita e definita la modalità secondo cui gli uomini potevano essere giudicati in funzione degli errori commessi, il modo in cui si è imposto a individui determinati la riparazione di alcune loro azioni e la punizione di altre, tutte queste regole, o se si vuole, tutte queste pratiche certo regolari, ma incessantemente modificate attraverso la storia, mi sembrano una delle forme mediante le quali la nostra società ha definito dei tipi di intersoggettività, delle forme di sapere, e di conseguenza delle relazioni tra l'uomo e la verità, che meritano di essere studiati.
Ecco la visione generale del tema che mi propongo di sviluppare: le forme giuridiche e di conseguenza la loro evoluzione nel campo del diritto penale in quanto luogo d'origine di un numero determinato di forme di verità. Cercherò di mostrarvi come certe forme di verità possono essere definite a partire dalla pratica penale. Dato che quella che viene chiamata l'"enqute", - l'indagine come è stata praticata dai filosofi dal quindicesimo al diciottesimo secolo, e anche dagli scienziati, geografi come botanici, zoologi, economisti - è una forma estremamente caratteristica della verità nelle nostre società.
Ebbene, dove troviamo l'origine dell'indagine? La troviamo in una pratica politica e amministrativa di cui poi parlerò, ma la si trova anche nella pratica giudiziaria. E' in pieno Medioevo che l'indagine ha fatto la sua comparsa come forma di ricerca di verità all'interno dell'ordine giudiziario. E' per sapere esattamente chi ha fatto una cosa, in quali condizioni, e in quale momento, che l'Occidente ha elaborato le complesse tecniche d'indagine che hanno in seguito potuto essere utilizzate nell'ordine scientifico e nell'ordine della riflessione filosofica.
Allo stesso modo, nel diciannovesimo secolo si sono pure inventate, a partire da problemi giuridici, giudiziari, penali, delle forme di analisi abbastanza curiose che chiamerò "examen", esame, e non più indagine. Forme di analisi di questo tipo hanno dato origine alla sociologia, alla psicologia, alla psicopatologia, alla criminologia, alla psicoanalisi. Cercherò di mostrarvi come, quando si ricerca l'origine di queste forme di analisi, si vede che esse sono nate in diretta relazione con la formazione di un certo numero di controlli politici e sociali, nel momento della formazione della società capitalistica, alla fine del diciannovesimo secolo.
Abbiamo così tracciato a grandi linee la formulazione di ciò che sarà trattato nelle conferenze seguenti. Nella prossima parlerò della nascita dell'indagine nel pensiero greco, in qualcosa che non è né del tutto un mito, né interamente una tragedia: la storia di Edipo. Parlerò della storia di Edipo non come punto di origine, di formulazione del desiderio o delle forme del desiderio dell'uomo, ma al contrario come episodio abbastanza curioso della storia del sapere e come momento in cui compare l'indagine. Nella conferenza seguente tratterò della relazione che si è stabilita nel Medioevo, del conflitto, dell'opposizione tra il regime della prova e il sistema dell'indagine. Infine nelle ultime due conferenze parlerò della nascita di quello che io chiamo l'esame o le scienze dell'esame, che sono in relazione con la formazione e la stabilizzazione della società capitalistica.
Per il momento vorrei riprendere in diversa maniera le riflessioni metodologiche di cui parlavo prima. Sarebbe stato possibile, e forse più onesto, non citare che un nome, quello di Nietzsche; dato che ciò che dico ha senso solo se è messo in relazione con l'opera di Nietzsche, che mi pare essere, tra i modelli cui si sarebbe potuto fare ricorso per le ricerche che propongo, il migliore, il più efficace e il più attuale. In Nietzsche si trova effettivamente un tipo di discorso che fa l'analisi storica della formazione del soggetto stesso, l'analisi storica della nascita di un certo tipo di sapere - senza mai ammettere la preesistenza di un soggetto della conoscenza. Quel che io mi propongo ora è di seguire nell'opera di Nietzsche i tratti che possono servirci da modello per le analisi in questione.
Come punto di partenza prenderò un testo di Nietzsche del 1873, comparso solo in edizione postuma. Il testo dice «in qualche punto perduto dell'universo, il cui splendore si estende a innumerevoli sistemi solari, ci fu una volta un astro nel quale alcuni animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu quello l'istante più menzognero e arrogante dell'intera storia universale» (1).
In questo testo, estremamente ricco e difficile, tralascerò parecchie cose, tra cui soprattutto la celebre frase «questo fu l'istante più menzognero». Considererò prima di tutto e di buon grado l'insolenza, la disinvoltura di Nietzsche nel dire che la conoscenza è stata inventata su un astro e in un momento determinato. Parlo di insolenza in questo testo di Nietzsche perché non bisogna dimenticare che nel 1873 si è in pieno kantismo o almeno in pieno neokantismo. E l'idea che il tempo e lo spazio non siano delle forme della conoscenza, ma al contrario delle specie di rocce primeve su cui viene a fissarsi la conoscenza è per l'epoca assolutamente inammissibile.
Mi piacerebbe attenermi a questo, soffermandomi prima di tutto sul termine stesso di invenzione. Nietzsche afferma che in un punto determinato del tempo e in un punto determinato dell'universo, degli animali intelligenti hanno inventato la conoscenza. La parola che utilizza, «invenzione» - il termine tedesco è "Erfindung" -, ritorna spesso nei suoi testi e sempre con un senso e con un intento polemici. Quando parla di invenzione, Nietzsche ha sempre in mente una parola che si oppone a «invenzione», la parola «origine». Quando egli dice «invenzione», è per non dire «origine»; quando dice "Erfindung" è per non dire "Ursprung".
Di questo vi sono numerose prove. Ne presenterò due o tre. Per esempio in un testo che credo si trovi nella "Gaia scienza", in cui egli parla di Schopenhauer rimproverandogli la sua analisi della religione, Nietzsche dice che Schopenhauer ha commesso l'errore di cercare l'origine - "Ursprung" - della religione in un sentimento metafisico che sarebbe presente in tutti gli uomini e che già conterrebbe in anticipo il nocciolo di ogni religione, il suo modello allo stesso tempo vero ed essenziale. Nietzsche afferma: ecco un'analisi della storia delle religioni che è completamente falsa, dato che ammettere che la religione trovi la sua origine in un sentimento metafisico significa, puramente e semplicemente, che la religione era già data, almeno allo stato implicito, avviluppata in questo sentimento metafisico. Dice Nietzsche: la storia non è questo, non è in questo modo che si fa la storia, non è così che sono andate le cose. Perché la religione non ha origine, non ha "Ursprung", è stata inventata, c'è stata una "Erfindung" della religione. A un dato momento è avvenuto qualcosa che ha fatto apparire la religione. La religione è stata fabbricata. Non esisteva prima. Tra la grande continuità della "Ursprung" descritta da Schopenhauer e la rottura che caratterizza la "Erfindung" di Nietzsche vi è un'opposizione fondamentale. Parlando della poesia, sempre nella "Gaia scienza", Nietzsche afferma che ci sono quelli che cercano l'origine, "Ursprung", della poesia, ma a dire il vero non c'è una "Ursprung" della poesia, ce n'è solo una invenzione (2). Un giorno qualcuno ha avuto l'idea abbastanza curiosa di utilizzare un certo numero di proprietà ritmiche o musicali del linguaggio per parlare, per imporre le sue parole, per stabilire attraverso le sue parole una certa relazione di potere con gli altri. Anche la poesia è stata inventata o fabbricata.
C'è ancora il celebre passaggio alla fine del primo discorso della "Genealogia della morale" in cui Nietzsche si riferisce a questa specie di grande fabbrica, di grande officina in cui si produce l'ideale (3). L'ideale non ha origine, è stato esso stesso fabbricato, prodotto da una serie di meccanismi, di piccoli meccanismi.
L'invenzione, "Erfindung", è da un lato per Nietzsche una rottura, dall'altro qualcosa che possiede un inizio piccolo, basso, meschino, inconfessabile. Questo è il punto cruciale della "Erfindung". E' stato per oscure relazioni di potere che la poesia è stata inventata. Allo stesso modo anche l'invenzione della religione è stata dovuta a mere e oscure relazioni di potere. Volgari sono quindi tutti questi inizi, se confrontati con la solennità dell'origine come è concepita dai filosofi. Lo storico non deve temere le meschinità, dato che è stato di meschinità in meschinità, di piccolezza in piccolezza che infine si sono formate le grandi cose. Alla solennità dell'origine bisogna opporre, secondo un buon metodo storico, la piccolezza meticolosa e inconfessabile di queste fabbricazioni, di queste invenzioni.
La conoscenza è stata dunque inventata. Dire che è stata inventata, è dire che non ha origine. E' dire più precisamente, per paradossale che sia, che la conoscenza non è assolutamente iscritta nella natura umana. La conoscenza non costituisce affatto il più antico istinto dell'uomo, o, inversamente, non c'è nel comportamento umano, negli appetiti umani, nell'istinto umano qualcosa che somigli a un germe della conoscenza. In effetti, dice Nietzsche, la conoscenza ha un rapporto con gli istinti, ma non può essere presente in essi e neppure essere un istinto tra gli altri. La conoscenza e semplicemente il risultato del gioco, dello scontro e della congiunzione, della lotta e del compromesso tra gli istinti. E' perché gli istinti si incontrano, si scontrano, e giungono infine, al termine delle loro battaglie, a un compromesso, che qualcosa si produce. Questo qualcosa è la conoscenza.
Di conseguenza per Nietzsche la conoscenza non è della stessa natura degli istinti, non ne è una sorta di raffinamento. La conoscenza ha come fondamento, come base e punto di partenza gli istinti, ma gli istinti nel loro conflitto, di cui essa non è che il risultato di superficie. La conoscenza è come un lampo, come una luce che si diffonde, ma è prodotta da meccanismi o realtà che sono di natura completamente differente. La conoscenza è l'effetto degli istinti; è come un colpo di fortuna o il risultato di un lungo compromesso. Essa è anche, come dice Nietzsche, «una scintilla tra due spade», fatta di materiale diverso dal ferro.
Effetto di superficie, non abbozzato precedentemente nella natura umana, la conoscenza conduce il suo gioco di fronte agli istinti, al di sopra di essi, in mezzo a essi; li trattiene, traduce un certo stato di tensione o di pacificazione tra gli istinti. Ma da essi non si può dedurre la conoscenza in modo analitico, secondo una sorta di derivazione naturale. Non si può dedurla in maniera necessaria dagli istinti. La conoscenza in fondo non fa parte della natura umana. E' la lotta, lo scontro, il risultato dello scontro, e di conseguenza sono il rischio e l'azzardo a generarla. La conoscenza non è istintiva, è contro-istintiva; allo stesso modo non è naturale, è contro-naturale.
Questo è il primo senso che si può dare all'idea che la conoscenza è un'invenzione e non ha origine. Ma l'altro senso che si può dare a questa affermazione è che la conoscenza, oltre a non essere legata alla natura umana e a non derivare da essa, non è neppure imparentata, per un diritto originario, al mondo da conoscere. Secondo Nietzsche non c'è, in realtà, nessuna somiglianza e nessuna affinità preliminare tra la conoscenza e le cose che sarebbe necessario conoscere. In termini più rigorosamente kantiani, bisognerebbe dire che le condizioni dell'esperienza e le condizioni dell'oggetto dell'esperienza sono totalmente eterogenee.
Ecco la grande rottura con ciò che era stata la tradizione della filosofia occidentale, mentre proprio Kant era stato il primo a dire esplicitamente che le condizioni dell'esperienza e dell'oggetto dell'esperienza erano identiche. Nietzsche pensa, al contrario, che c'è tanta differenza tra la conoscenza e il mondo da conoscere quanta tra la conoscenza e la natura umana. Abbiamo allora una natura umana, un mondo, e qualcosa tra i due che si chiama la conoscenza, senza che vi sia tra loro alcuna affinità, somiglianza e neppure legame di natura. Nietzsche dice frequentemente che la conoscenza non ha relazioni di affinità con il mondo da conoscere. Citerò solo un testo dalla "Gaia scienza", aforisma 109: «Per il suo carattere il mondo assomiglia ad un caos eterno; ciò non è dovuto all'assenza di necessità, ma all'assenza di ordine, di articolazione, di forme, di bellezza e di saggezza» (4). Il mondo non cerca assolutamente di imitare l'uomo, ignora ogni legge. Guardiamoci dal dire che esistono delle leggi nella natura. La conoscenza deve lottare contro un mondo senza ordine, senza articolazione, senza forma, senza bellezza, senza saggezza, senza armonia, senza legge. E' a esso che la conoscenza si rapporta. Non c'è niente nella conoscenza che la abiliti, per un diritto qualsiasi, a conoscere questo mondo. Non è connaturato alla natura l'essere conosciuta. Così tra l'istinto e la conoscenza non si trova una continuità, ma una relazione di lotta, di dominazione, di servitù, di compensazione; nello stesso modo, tra la conoscenza e le cose che questa vuole conoscere non può esserci nessuna relazione di continuità naturale. Può soltanto esserci una relazione di violenza, di dominazione, di potere e forza, di violazione. La conoscenza può essere solo una violazione delle cose da conoscere e non una percezione, un riconoscimento, una identificazione di o con esse.
Mi sembra che in quest'analisi di Nietzsche vi sia, nei confronti della tradizione della filosofia occidentale, una duplice e importantissima rottura, di cui dobbiamo fare nostra la lezione. La prima rottura è quella tra la conoscenza e le cose. In effetti, chi garantiva nella filosofia occidentale che le cose da conoscere e la conoscenza stessa fossero in relazione di continuità? Chi assicurava alla conoscenza il potere di conoscere veramente le cose del mondo e di non essere indefinitamente errore, illusione, arbitrio? Chi se non Dio garantiva questo nella filosofia occidentale? Certamente Dio, a partire da Descartes, per non andare più in là, e ancora in Kant, è questo il principio che assicura l'esistenza di un'armonia tra la conoscenza e le cose da conoscere. Per dimostrare che la conoscenza era una conoscenza fondata veramente sulle cose del mondo, Descartes ha dovuto affermare l'esistenza di Dio.
Se non esiste più relazione tra la conoscenza e le cose da conoscere, se la relazione tra questa e le cose conosciute è arbitraria, e una relazione di potere e violenza, l'esistenza di Dio al centro del sistema di conoscenza non è più indispensabile. In un passaggio della "Gaia scienza" nel quale evoca l'assenza di ordine, di articolazione, di forma e di bellezza del mondo, Nietzsche domanda precisamente: «Quando cesseremo di essere oscurati da tutte queste ombre di Dio? Quando riusciremo a sdivinizzare completamente la natura?» (5).
La rottura della teoria della conoscenza con la teologia comincia, strettamente parlando, con un'analisi come quella di Nietzsche.
In secondo luogo, direi che, se è vero che tra la conoscenza e gli istinti - tutto ciò che fa, tutto ciò che trama l'animale umano - c'è solamente rottura, relazioni di dominazione e subordinazione, relazioni di potere, allora a scomparire non è solo Dio, ma il soggetto nella sua unità e nella sua sovranità.
Se si ripercorre la tradizione filosofica a partire da Descartes, per non andare più lontano, si vede che l'unità del soggetto umano era garantita dalla continuità che va dal desiderio al conoscere, dall'istinto al sapere, dal corpo alla verità. Tutto questo garantiva l'esistenza del soggetto. Se è vero che ci sono da un lato i meccanismi dell'istinto, i giochi del desiderio, i contrasti tra la meccanica del corpo e la volontà, e dall'altro - a un livello della natura totalmente differente -, la conoscenza, allora non si ha più bisogno dell'unità del soggetto umano. Possiamo ammettere dei soggetti, o possiamo ammettere che il soggetto non esiste. Ecco in cosa mi sembra che il testo di Nietzsche citato, dedicato all'invenzione della conoscenza, rompa con la tradizione filosofica più antica e consolidata dell'Occidente.
Ora, quando Nietzsche dice che la conoscenza è il risultato degli istinti, ma non è essa stessa un istinto né deriva direttamente dagli istinti, che cosa vuol dire esattamente, e come concepisce questo curioso meccanismo per il quale gli istinti, senza aver nessuna relazione di natura con la conoscenza, possono, con il loro semplice gioco, produrre, fabbricare, inventare una conoscenza che non ha niente a che vedere con essi? Questa è la seconda serie di problemi che desidererei affrontare.
C'è un testo nella "Gaia scienza", l'aforisma 333, che si può considerare come una delle analisi più stringenti che Nietzsche ha fatto di questa fabbricazione o invenzione della conoscenza.
In questo lungo testo intitolato "Che significa conoscere", Nietzsche riprende un testo di Spinoza, nel quale questi opponeva "intelligere", comprendere, a "ridere, lugere, detestari". Spinoza diceva che se vogliamo comprendere le cose, se vogliamo effettivamente comprenderle nella loro natura e nella loro essenza e quindi nella loro verità, è necessario che ci guardiamo dal ridere di esse, dal deplorarle o dal detestarle. E' solo quando queste passioni si placano, che possiamo finalmente comprendere. Nietzsche dice che non solo questo non è vero, ma che avviene esattamente il contrario.
"Intelligere", comprendere, non è niente di più che un certo gioco, o meglio, il risultato di un certo gioco, di una certa conciliazione o compensazione tra "ridere", ridere, "lugere", deplorare e "detestare", detestare.
Nietzsche dice che comprendiamo soltanto perché c'è dietro tutto questo il gioco e la lotta di questi tre istinti, di questi tre meccanismi o passioni che sono il riso, il biasimo e l'odio (6). A questo proposito è necessario considerare parecchie cose.
Prima di tutto dobbiamo considerare che queste tre passioni o impulsi - ridere, deplorare e detestare - hanno in comune il fatto di essere un modo non di avvicinarsi all'oggetto, di identificarsi con esso, bensì di mantenere l'oggetto a distanza, di differenziarsene o di porsi in rottura con esso, di proteggersene con la risata, di svalutarlo attraverso la deplorazione, di allontanarlo ed eventualmente distruggerlo attraverso l'odio. Perciò tutti questi impulsi, che sono alla radice della conoscenza e la producono, hanno in comune il porsi a distanza dall'oggetto, una volontà di allontanarsi da esso e allo stesso tempo di allontanarlo, infine di distruggerlo. Dietro la conoscenza c'è una volontà senza dubbio oscura, non di attrarre l'oggetto verso di sé, di identificarsi, ma al contrario, una oscura volontà di allontanarsi da esso e di distruggerlo. Cattiveria radicale della conoscenza.
Giungiamo così a una seconda idea importante: che questi impulsi - ridere, deplorare, detestare - appartengano tutti all'ordine delle cattive relazioni. Dietro la conoscenza, alla sua radice, Nietzsche non pone una sorta di attaccamento, di impulso o passione che ci farebbe amare l'oggetto, ma, al contrario, degli impulsi che ci collocano in posizione di odio, di disprezzo o timore di fronte a cose che sono minacciose e presuntuose.
Se questi tre impulsi - ridere, deplorare, odiare - arrivano a produrre la conoscenza, per Nietzsche questo non avviene perché si siano placati, come in Spinoza, o riconciliati o perché siano giunti a un'unità; al contrario è perché hanno lottato tra di loro, perché si sono scontrati. E' perché questi impulsi si sono combattuti, perché hanno tentato, come dice Nietzsche, di nuocersi vicendevolmente, è perché sono in uno stato di guerra, in una momentanea stabilizzazione di questo stato di guerra, che giungono a una specie di condizione, di cesura, in cui la conoscenza fa infine la sua comparsa come «la scintilla tra due spade».
Non c'è quindi nella conoscenza un adeguamento all'oggetto, una relazione di assimilazione, ma c'è piuttosto una relazione di distanza e di dominio; nella conoscenza non c'è niente che somigli alla felicità o all'amore, c'è anzi odio e ostilità; non c'è una unificazione, ma un precario sistema di potere. I grandi temi tradizionalmente presenti nella filosofia occidentale sono stati integralmente messi in discussione in questo testo di Nietzsche.
La filosofia occidentale - e questa volta non è necessario far riferimento a Descartes, si può risalire a Platone - ha sempre caratterizzato la conoscenza con il logocentrismo, con la rassomiglianza, con l'adeguamento, con la beatitudine, l'unità. Tutti questi grandi temi vengono ora messi in questione. Di qui si comprende perché Nietzsche si riferisca a Spinoza: di tutti i filosofi occidentali, Spinoza è quello che ha spinto più lontano questa concezione della conoscenza come adeguamento, beatitudine, unità. Nietzsche mette al centro, alla radice della conoscenza, qualcosa come l'odio, la lotta, il rapporto di potere.
Si comprende allora perché Nietzsche affermi che il filosofo è colui che più facilmente s'inganna sulla natura della conoscenza, poiché la pensa sempre sotto la forma dell'adeguamento, dell'amore, dell'unità, della pacificazione. Se si vuole sapere che cosa è la conoscenza non ci si deve avvicinare alla forma di vita, di esistenza, di ascetismo propria del filosofo. Se si vuole realmente conoscere la conoscenza, sapere che cosa essa è, per coglierla alla sua radice, nella sua fabbricazione, si devono avvicinare non i filosofi, ma i politici, bisogna comprendere le relazioni di lotta e di potere. E solo in queste relazioni di lotta e di potere, nel modo in cui le cose tra loro e gli uomini tra loro si odiano, lottano, cercano reciprocamente di dominarsi, vogliono esercitare relazioni di potere gli uni sugli altri, che si comprende in che cosa consista la conoscenza.
Si può allora capire come un'analisi di questo genere ci introduca in maniera efficace alla storia politica della conoscenza, dei fatti della conoscenza e del soggetto della conoscenza.
Ma mi piacerebbe prima rispondere a una possibile obiezione: «Tutto questo è bellissimo, ma non c'è in Nietzsche; è stato il suo delirio, la sua ossessione di trovare dappertutto relazioni di potere, di introdurre questa dimensione del politico persino nella storia della conoscenza o nella storia della verità, che le ha fatto credere che Nietzsche dicesse questo».
Risponderò due cose. Prima di tutto ho scelto questo testo di Nietzsche in funzione dei miei interessi, non per mostrare che questa era la concezione nietzschiana della conoscenza - dato che ci sono innumerevoli testi abbastanza contraddittori tra loro a questo riguardo -, ma solo per mostrare che esiste in Nietzsche un certo numero di elementi che mettono a nostra disposizione un modello per un'analisi storica di quello che chiamerei la politica della verità. E' un modello che effettivamente si trova in Nietzsche e penso persino che costituisca nella sua opera uno dei più importanti per la comprensione di alcuni elementi apparentemente contraddittori della sua concezione della conoscenza.
In effetti, se ammettiamo che vi è qui ciò che Nietzsche intende come scoperta della conoscenza, se tutte queste relazioni stanno dietro la conoscenza, che in certo modo non è che il loro risultato, si possono comprendere allora alcuni testi di Nietzsche.
Prima di tutto, tutti quei testi nei quali Nietzsche afferma che non c'è conoscenza in sé. Ancora una volta bisogna pensare a Kant, confrontare i due filosofi e verificare tutte le differenze. Ciò che la critica kantiana metteva in questione era la possibilità di una conoscenza dell'in-sé, di una conoscenza di una verità o una realtà in sé (7). Nietzsche dice nella "Genealogia della Morale": «Asteniamoci, signori filosofi, dai tentacoli di nozioni contraddittorie come ragion pura, spirito assoluto, conoscenza in sé». Anche nella "Volontà di potenza" Nietzsche afferma che non c'è essere in sé, e neanche può esserci conoscenza in sé. E quando lo dice designa qualcosa di totalmente differente da ciò che Kant intendeva per conoscenza in sé. Nietzsche vuol dire che non vi è una natura della conoscenza, né un'essenza della conoscenza, né condizioni universali della conoscenza, ma che questa è ogni volta il risultato storico e puntuale di condizioni che non appartengono all'ordine della conoscenza. La conoscenza è in effetti un avvenimento che può essere posto sotto il segno dell'attività. Essa non è né una facoltà né una struttura universale. Anche quando utilizza un certo numero di elementi che possono passare per universali la conoscenza apparterrà sempre all'ordine del risultato, dell'avvenimento, dell'effetto.
Si può così comprendere la serie di testi in cui Nietzsche afferma che la conoscenza ha un carattere prospettico. Quando Nietzsche dice che la conoscenza è sempre una prospettiva, non vuol dire, in quella che verrebbe a essere una mescolanza di kantismo ed empirismo, che essa si trova limitata nell'uomo da un certo numero di condizioni, di limiti derivanti dalla natura umana, dal corpo umano o dalla stessa struttura della conoscenza. Quando parla del carattere prospettico della conoscenza, Nietzsche vuole intendere il fatto che non c'è conoscenza se non sotto forma di un certo numero di atti che sono differenti tra loro e multipli nella loro essenza; atti per mezzo dei quali l'essere umano s'impossessa violentemente di certe cose, reagisce a certe situazioni, impone loro relazioni di forza. Vale a dire che la conoscenza è sempre una determinata relazione strategica nella quale l'uomo è situato. E' questa relazione strategica che definisce come suo effetto la conoscenza, ed è per questo che sarebbe completamente contraddittorio immaginare una conoscenza che non fosse nella sua natura forzatamente parziale, obliqua, prospettica. Il carattere prospettico della conoscenza non deriva dalla natura umana, ma sempre dal carattere polemico e strategico della conoscenza. Si può parlare del carattere prospettico della conoscenza perché c'è battaglia e perché la conoscenza è l'effetto di questa battaglia.
E' per questo che in Nietzsche troviamo l'idea, che ritorna costantemente, che la conoscenza è quanto vi è di più generalizzante e al contempo di più particolare. La conoscenza schematizza, ignora le differenze, assimila le cose tra loro e questo senza alcun fondamento di verità. Per questo la conoscenza è sempre una misconoscenza. D'altra parte essa è sempre un qualcosa che prende di mira malignamente, insidiosamente e aggressivamente individui, cose, situazioni. Non c'è conoscenza se non nella misura in cui si stabilisce tra l'uomo e ciò che conosce una sorta di singolar tenzone, un "tte-à-tte", un duello. C'è sempre nella conoscenza qualcosa che appartiene all'ordine del duello, e che fa sì che questa sia sempre singolare. Questo il suo carattere contraddittorio, così come è definito nei testi di Nietzsche, che apparentemente si contraddicono: essa è generalizzante e sempre singolare.
Ecco come attraverso i testi di Nietzsche possiamo ricostruire non una teoria generale della conoscenza, ma un modello che permette di affrontare l'oggetto di queste conferenze: il problema della formazione di un certo numero di campi del sapere a partire dalle relazioni di forza e dalle relazioni politiche nella società.
Ritorno ora al mio punto di partenza. In una certa concezione che l'ambiente universitario ha del marxismo, o in una certa concezione del marxismo che si è imposta all'università, c'è costantemente come fondamento dell'analisi l'idea che i rapporti di forza, le condizioni economiche, le relazioni sociali, siano dati preliminarmente agli individui, ma al contempo s'impongano a un soggetto di conoscenza che rimane identico, eccetto che in relazione alle ideologie, considerate come errori.
Arriviamo così a questa nozione importantissima e allo stesso tempo imbarazzante di ideologia. Nelle analisi marxiste tradizionali, l'ideologia è una specie di elemento negativo attraverso il quale si traduce il fatto che la relazione del soggetto con la verità, o semplicemente la relazione di conoscenza, è turbata, oscurata, velata dalle condizioni di esistenza, da rapporti sociali o forme politiche che vengono imposti dall'esterno al soggetto della conoscenza. L'ideologia è il marchio, lo stigma di queste condizioni politiche ed economiche di esistenza su di un soggetto della conoscenza che in teoria dovrebbe essere aperto alla verità.
Quello che aspiro a dimostrare in queste conferenze è come, di fatto, le condizioni politiche ed economiche dell'esistenza non siano un velo o un ostacolo per il soggetto della conoscenza, ma ciò attraverso cui si formano i soggetti di conoscenza e quindi i rapporti di verità. Non possono esserci certi tipi di soggetti della conoscenza, certi ordini di verità, certi campi del sapere, se non a partire da condizioni politiche che sono il terreno in cui si formano il soggetto, i campi del sapere e le relazioni con la verità. Potremo fare una storia della verità solo se ci sbarazziamo di questi grandi temi del soggetto della conoscenza - allo stesso tempo originario e assoluto -, utilizzando eventualmente il modello nietzschiano.
Presenterò alcuni abbozzi di questa storia a partire dalle pratiche giudiziarie da cui sono nati i modelli di verità che circolano ancora nella nostra società, che ancora in essa si impongono, e valgono non solo nel campo della politica, nel campo del comportamento quotidiano, ma anche nell'ordine della scienza. Pure nella scienza si trovano modelli di verità la cui formazione deriva dalle strutture politiche che non s'impongono dall'esterno al soggetto di conoscenza ma che sono, esse stesse, costitutive del soggetto.

indice


informativa privacy