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LA SCARCERAZIONE: QUALE LIBERTÀ?

- Tema di V. S. - Istituto tecnico.

Alessandria, 31 maggio 1968.
La parola "febbre delle sbarre" colpisce in pieno e in tutti i minimi particolari il travaglio interiore che tormenta i detenuti nel periodo pre-liberatorio. Forse la parola "in procinto di essere liberati" può far pensare che questa febbre viene così da un giorno all'altro a causa di uno spavento improvviso. Invece posso affermare che la febbre avviene sì, ma pian piano col passare degli anni e dopo lunghe riflessioni e constatazioni; la febbre è causata da una falsa maturazione perché questa è solo unilaterale; una maturazione avvenuta forzatamente in contrapposizione all'odio e alla prepotenza che lo circondano, ma manca di formazione, di coscienza, nonostante capisca di essere considerato e trattato come una bestia, e come tale frustato e umiliato.
Col tempo dimentica anche quei piccoli ricordi d'infanzia e pian piano in lui avviene una radicale trasformazione, fisica e mentale, al punto da renderlo irriconoscibile. La realtà della vita comincia a delinearsi ai suoi occhi, come l'immagine nel video, il giovane carcerato può leggervi la verità senza maschera e senza inganni. Dal bagaglio di esperienze che acquisisce lungo il percorso di questa dolorosa via, nasce un uomo nuovo, il quale, ad un certo punto, si trova nell'alternativa di dover scegliere la strada che dovrà prendere per percorrere il suo avvenire. Questa determinazione è promossa dalla carica di risentimento che ha accumulato, contro le autorità e il sistema politico costituito, durante tutti gli anni trascorsi in questi luoghi. Se la "carica" di cui sopra accennata è sostenuta, la "febbre delle sbarre" viene sopraffatta dal desiderio di rivolta che lo spinge a combattere il nemico; e questo è l'uomo che non si ferma dinanzi agli ostacoli che gli vengono posti di fronte. Invece, se sceglie la strada più lunga, ciò vuol dire che la carica è meno sostenuta, ciò vuol dire che nonostante tutto, non ha ancora trovato la forza di affrontare la realtà e, giunto il momento di essere messo fuori dal carcere, si sente come un pesce fuori dall'acqua. Allora si ribella, non vuole uscire, perché nel posto in cui vive, si sente quasi protetto da quel senso di paura dell'ignoto che, col passare del tempo, si è fatto strada nel cuore del carcerato, lo agita, lo sconvolge al punto di farlo ammalare fisicamente. Quindi si potrebbe dire che la causa di questa "febbre delle sbarre" è proprio dovuta a un fattore psicologico, le cause che la determinano sono la lunga frustrazione e l'imposizione di una vita oppressiva qua dentro, e la consapevolezza che, una volta fuori, la vita diventerà ancor più difficile, perché in ogni luogo e in qualsiasi momento non perderanno occasioni per umiliarlo e costringerlo a scappare da un posto all'altro come un lebbroso.
Questo fenomeno avviene in tutti i carcerati che abbiano scontato tanti anni di detenzione. La causa di questo fenomeno è da ricercarsi in seno ai governi di stampo borghese e tradizionale, perché si considera l'uomo uno strumento da usare e sfruttare per produrre, dimenticando che dinanzi alle leggi naturali e alla logica della ragione siamo tutti uguali.
Sono fermamente convinto che quelli che comandano non fanno un passo per aiutarci perché noi serviamo così come siamo a questo tipo di società. Se così non fosse, non ci lascerebbero così a marcire come delle cose inutili, a trascorrere il tempo in un mondo dove l'uomo viene disabituato alla responsabilità, alla iniziativa, a tutto ciò che fa l'uomo libero. C'è forse qualcuno fuori che si interessi minimamente al futuro del carcerato? Veniamo scaraventati di viva forza qui dentro come se fossimo dei pazzi e poi abbandonati a noi stessi. Quali sono le possibilità che ci dànno per reinserirci nella loro società? Nessuna. Per cui il carcerato, dopo aver scontato dieci-vent'anni di carcere, quando lo mandano fuori, ha tante possibilità di guadagnarsi da vivere meno di quante ne aveva prima di entrare in carcere, perché ora, perché è stato in carcere, non gli dànno neppure lavoro. Noi siamo merce di scarto per coloro che sono fuori, sono pochi quelli che la pensano diversamente.

- Tema di R. L. - Istituto tecnico.

Alessandria, 30 maggio 1968.
Ho constatato che il 95 per cento della popolazione detenuta è costretta ad affrontare, con grande disagio, il ritorno in seno alla società. In effetti sono molte le difficoltà e gli ostacoli che uno di noi deve affrontare in simile evenienza! Specie, e soprattutto, coloro i quali non hanno famiglia e la casa propria che li accoglie all'uscita! Con le paghe a noi destinate (circa 300 lire al giorno!), nemmeno chi deve scontare una lunga condanna può mettere da parte una somma tale che gli consenta di vivere tranquillo almeno per i primi tempi. La legge non provvede al mantenimento iniziale: paga al massimo il viaggio ed il cibo per qualche giorno, poi il detenuto deve arrangiarsi! La popolazione, e si può dire la maggioranza ancora oggi, nutre un certo risentimento verso di noi, verso chi ha sbagliato in genere e non può aspettarci certamente con le braccia aperte! Circa il lavoro o l'occupazione che uno di noi vorrebbe, si sa quanto sia difficile trovarlo; e perché c'è già disoccupazione e perché non tutti sono disposti a concedere fiducia ad un ex detenuto, e se a tutte queste difficoltà materiali aggiungiamo ancora quelle di ordine spirituale, e cioè il pensiero di dover iniziare dal nulla a ricostruirsi l'esistenza senza mezzi, con poche speranze, in un mondo nuovo, con tutte le sofferenze già patite, ed il pensiero di tornare tra gente ostile, in un ambiente dove sono nate le cause che ci hanno portati al carcere, ed alle conseguenze ed alla vita che sarà la nostra in avvenire [...].
Oltre una decina di anni fa, mi trovavo all'ergastolo di Porto Azzurro dove, per quale legge non l'ho mai capito, al prossimo "liberato" venivano fatti scontare gli ultimi quindici giorni nell'isolamento, cioè in una cella da solo dove gli venivano così impediti i contatti con gli altri detenuti. A distanza di qualche mese si apprendeva che il tizio uscito in tale data, non era a casa sua, ma in casa di cura o in manicomio!
Una volta che chiesi a un sottufficiale il motivo dell'isolamento, mi rispose: "si ritiene necessario per evitare che si possa consegnare, al liberante, degli scritti da portare fuori clandestinamente e soprattutto per evitare, a chi resta, lo spettacolo della partenza. È dannoso - mi diceva - per chi ha molto da scontare, vedere spesso qualcuno che lascia il carcere mentre egli non può". Mi voleva convincere che era un provvedimento a nostro favore, una regola dettata da un certo senso di umanità. Invece, il detenuto veniva lasciato ed obbligato alla solitudine perché sentisse tutto il peso di quei giorni - sono sempre i più duri perché sembra non giunga mai la fine - perché non avesse modo di dividere con altri le sue ansie, perché nessuno potesse dargli qualche parola di conforto. E ben sei su dieci a cui si credeva fosse utile- secondo loro - la solitudine, iniziavano i loro primi giorni di libertà in un luogo di cura. Da noi non è stata chiamata "febbre delle sbarre" ma "pazzia"!

- Lettera di A. Q.

Parma, 12 agosto 1971.
Pensi che un uomo dopo essere stato in carcere possa ancora, o per lo meno gli consentano di rifarsi una vita? Io non lo credo, e il cielo sa se ci ho provato: dovevo sposarmi, lavoravo in fonderia, era un lavoro duro e sporco ma in compenso guadagnavo molto, e sai chi mi ha fatto perdere il lavoro? I carabinieri. Il padrone non sospettava neppure lontanamente che io ero un avanzo di galera, lo avrei messo al corrente col tempo, invece furono gli sbirri a metterlo al corrente e pure con poca tattica, mi licenziò con una bella scusa: scarsità di lavoro, e non fu la sola volta, e allora cosa devo fare? Subire prepotenze, soprusi, no, mi dispiace, non ci sto, il mio carattere non me lo permette e mi ribellerò sempre, fin quando avrò goccia di sangue, fin quando avrò la forza di farlo combatterò, costi quello che costi e con qualsiasi mezzo. Se gli altri non hanno avuto pietà di me perché dovrei averla io?

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