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Bello come una prigione che brucia
Postilla:
George Gordon


Lord George Gordon, nato a Londra nel 1751, apparteneva ad una lunga schiatta di eccentrici scozzesi. Terzo figlio del fu duca di Gordon, era entrato da giovanissimo in marina, come aspirante ufficiale. Giunto al grado di tenente, quando fu in età di sedere alla Camera dei Comuni scelse di rinunciare alla sua carica, per ripicca, a sentire i suoi detrattori, verso lord Sandwich, Primo Lord dell’Ammiragliato, che non gli aveva dato il comando di una nave che aveva chiesto dopo dieci anni di servizio. Costoro aggiungono che aveva minacciato il ministro di gettarsi fra le braccia dell’opposizione se non l’avesse ottenuto, ma non avendo Sua Signoria voluto affatto cedere, lord George in effetti da quel giorno diventò l’avversario risoluto dei ministri della Corona, cosa che non mancò di farlo litigare con il capo del suo casato, suo fratello il duca di Gordon.
I suoi ammiratori danno di questo episodio una versione ben diversa. Costoro sostengono che il giovin signore avesse manifestato, sin dalla più tenera età, un profondo attaccamento alla Costituzione, della quale idolatrava i precetti con uno zelo a volte violento, non esitando a farsi portaparola degli uomini degli equipaggi presso gli ufficiali di bordo, quando l’arroganza di quest’ultimi incitava i marinai all’ammutinamento; che avesse importato dall’America del Nord, dove aveva servito, un affetto particolare per gli abitanti delle colonie inglesi e che solo il più focoso convincimento lo avesse portato ad opporsi alle misure che il governo di Sua Maestà si ostinava a prendere contro la loro libertà o la loro prosperità e che li avesse, alla fine, incitati a dichiarare la loro indipendenza e a volere conservarla con le armi. Non aveva alcuna ragione di sperare, come gli uomini non si arrampicano che per giochi di consorteria e mai per il loro merito, che lord Sandwich potesse accordargli la sua protezione nella flotta tanto più che infuriava allora la guerra contro i ribelli delle colonie di cui egli si dichiarava il sostegno e anche il proselito; sicché non aveva altra scelta che lasciare le armi.
Si presentò per la carica di deputato nella circoscrizione di Inverness, nella profonda Scozia. Sperperò il suo magro patrimonio, dando un magnifico ballo, il cui successo venne assicurato dalla presenza di una quindicina di allegre e belle figliole del clan Mac Leod che aveva portato personalmente dall’isola di Skye, e fu trionfalmente eletto.
In un tempo in cui tutti quelli del suo rango, e tutti coloro che avevano i mezzi per scimmiottarli, portavano la parrucca, egli era il solo parlamentare a lasciare ondeggiare la sua lunga capigliatura rossa sulle spalle. Conviene qui notare che l’aggiotaggio sul grano di tanto in tanto provocava delle crudeli carestie nelle classi inferiori, senza mai impedire che tonnellate di farina fossero destinate prima di tutto ad incipriare le parrucche delle persone importanti.
Si diceva a mo’ di battuta, nelle taverne, che c’erano «tre partiti in Parlamento: quello del Governo, quello dell’Opposizione e Lord George Gordon». Agli occhi dei tory, legati all’aristocrazia fondiaria ed allora al governo, era una sorta di traditore: doveva la sua elezione al fatto che parlava l’idioma gaelico delle Highland con la più grande spigliatezza, suonava a meraviglia la cornamusa e sfoggiava volentieri il tartan del suo clan - a dispetto del divieto tassativo che colpiva il confezionamento di questa stoffa, dal tempo dell’annessione forzata della Scozia al regno. Inoltre aveva adottato «la strana abitudine» di dire ad alta voce quello che pensava, cosa che gli era stata più d’aiuto nella sua carriera di agitatore che nell’avanzamento della sua carriera navale: il corpo degli ufficiali, in marina come nelle altre armi, era dominato dal conformismo dei signorotti. La schiavitù dei negri, derrata di cui gli inglesi facevano grande e fruttuoso commercio tra la Costa d’Oro e i loro possedimenti in America, rivoltava lo stomaco del giovin signore; e l’intera sua simpatia andava ai discendenti, in guerra con il governo del suo paese, dei dissidenti che il secolo prima avevano fuggito la putrefazione di Babilonia. Un buon numero di questi puritani illuminati, eredi dei divagatori, zappatori o livellatori, vagheggiavano ancora il regno millenario del libero spirito.
I whig, zelatori della modernità capitalistica, non vedevano in lui che un aristocratico eccentrico che urtava, tanto per l’innocente libertinaggio, giudicato indecente, delle sue numerose relazioni, che per il fanatismo delle sue convinzioni egualitarie, il senso così comune di questi borghesi prudenti e prudi, razionalisti e affaristi. Imprecatore verboso e irascibile, lord George perdeva raramente l’occasione di turbare i dibattiti sonnolenti del Parlamento; infastidiva la casta politicante.
Il suo partito, infinitamente più temibile che tutte le fazioni, era del tutto fuori dal Parlamento: meccanici, sovente metodisti, che non chiamavano mai la Chiesa cattolica romana altrimenti che la «Grande Puttana» e che il moltiplicarsi delle fabbriche avide di braccia aveva introdotto in massa nelle grandi città del regno; popolino di taverne dove si mescolavano tonde ragazze dalle cosce accoglienti, tagliaborse dalla mano lesta e profeti itineranti dalla lingua sciolta; bottegai che le guerre coloniali oberavano d’imposte ma che nondimeno erano esclusi dagli scrutini elettorali. Era il partito della vendetta sociale, ma era anche quello dell’amaro risentimento che, allo stesso modo e nello stesso tempo, poteva volgersi verso un’insurrezione popolare come rivoltarsi contro gli indigenti operai irlandesi. Questo partito si era dato il giovane, sincero e romantico lord George come figura emblematica più che come capo; e l’Associazione protestante, ch’egli aveva contribuito a fondare, serviva a radunare i poveri più che a inquadrarli.
Come tutti i figli cadetti della nobiltà scozzese non possedeva un accidenti di niente; forse è il membro più povero della Camera. E il più sorprendente è che rifiutava di lasciarsi comprare. Quando il Primo Ministro, lord North, gli aveva proposto, tramite l’intermediazione del duca di Gordon, di rinunciare al suo seggio dietro risarcimento, li aveva denunciati, l’uno e l’altro, dalla tribuna della Camera, non esitando a qualificare come infame corruzione un genere di commercio che pure rientrava - e rientra ancora, ma in modo più sornione - nell’ordine delle cose.
Quando la legge che favoriva il papismo era stata discussa alla Camera nel 1778, lord George non aveva manifestato molta virulenza nel combatterla. Temendo che il suo talento di oratore non fosse affatto all’altezza del compito - e in effetti i suoi discorsi sconnessi ed interminabili costernavano i suoi colleghi -, aveva pudicamente contenuto la sua indignazione. è solo più tardi, nel momento in cui le moltitudini, eccitate dai predicatori puritani e da altri divagatori da taverna, protestavano a gran voce contro le tolleranze accordate alle sette dell’Anticristo romano, che lord George, trasformatosi di colpo in ispirato tribuno, cercò di radunare gli scontenti in seno all’Associazione protestante. Al culmine della sua popolarità e forte dell’appoggio strategico della plebe londinese, prende la testa della campagna contro una legge «diabolica», destinata soprattutto, nessuno lo ignorava, a combattere meglio gli amici americani di lord George.
Dopo aver invano perorato, supplicato, esortato, ringhiato, minacciato, tuonato davanti al Parlamento, ai ministri ed al re, si decise a impiegare la pressione della piazza. La gente comune lo seguì come un sol uomo e tutte le taverne della città risonavano del grido «Basta con la paperia!» al punto che lo scrittore benpensante Walpole propose di rinchiudere nel manicomio di Bedlam «le poche persone di questo paese che hanno mantenuto la ragione. Sarà più facile e meno costoso che internare tutti i matti».
Lord George non trovò tuttavia, nelle folle che portarono la sua petizione al Parlamento, all’alba del movimento insurrezionale del giugno 1780, quella disciplina che gli avrebbe permesso di dettare le sue condizioni ai legislatori, fra i quali non uno si era minimamente sognato di unirsi a lui, talmente aveva disgustato tutte le fazioni. D’altronde si concordava, fra gli ambienti dirigenti, nel trovarlo una sorta di stravagante, o per meglio dire un pazzo pericoloso... E quando Londra parve condannata senza rimedio a subire la legge della rivolta, non riuscì meglio a trarre profitto dal favore di cui godeva persino fra la feccia del popolo per arrestare gli straripamenti che avvampavano la capitale del regno. Si capisce agevolmente quale tipo di gratitudine i suoi colleghi parlamentari potevano manifestargli per non essere stato portato alla dittatura dal popolaccio, semplicemente perché i furiosi che gridavano il suo nome - sempre seguito dal grido di «Libertà!» - avevano giudicato più imperioso di farsi, per prima cosa, sicura vendetta, radendo al suolo le prigioni della città. Si stenta ad immaginare, in compenso, quanto lo spavento retrospettivo dei deputati ispirò loro il rancore nei suoi confronti per essersi mostrato così perfettamente incapace di incidere sul corso di una sollevazione alla quale aveva aspirato, ma di cui non aveva per niente voluto lo svolgimento caotico.
All’inizio dei disordini, quando il Parlamento era assediato dalla folla e lasciato indifeso, egli si mostrò molto indeciso, come diviso fra l’entusiasmo dei suoi sostenitori che erano i padroni effimeri della strada e il panico dei suoi pari che lo incitavano ad esortare la folla a disperdersi, cosa che fece senza successo, ma non senza ambiguità di linguaggio. Tre giorni più tardi, mentre i disordini raggiungevano il loro culmine, dovette, avendo disertato ogni controversia, nascondersi pietosamente per sottrarsi ad una orda d’insorti che volevano, suo malgrado, portarlo in trionfo. Dopo che l’ordine fu stato ristabilito, nondimeno lo si arrestò per portarlo nella Torre di Londra.
Accusato di alto tradimento e di ribellione contro il suo re, lord Gordon rischiava l’impiccagione ma, brillantemente difeso da uno degli avvocati più eloquenti del regno, fu puramente e semplicemente assolto. La preoccupazione di non procurare martiri ad una causa tinta di religione e animata dal fanatismo non fu senza dubbio estranea a una tale clemenza. Liberato, l’anno seguente tentò di presentarsi di nuovo alle elezioni, a Londra questa volta, ma dovette decidersi a ritirare la sua candidatura, tanto l’elettorato censuario della capitale raccapricciava al suo solo nome, troppo legato alla sedizione di giugno che non è stata, in Inghilterra, mai chiamata diversamente, ancorché molto abusivamente, la «sommossa di Gordon».

* * *

Nel 1786 ebbe di nuovo a che fare con i tribunali: la Corona lo accusava di essere l’autore di un pamphlet sedizioso a beneficio dei detenuti della prigione, prontamente ricostruita, di Newgate, i cui involontari ospiti erano destinati a essere deportati a Botany Bay, all’altro capo del globo. è buffo notare che gli si rimproverava, inoltre, di aver detto e scritto, in difesa del suo amico il conte di Cagliostro, quello che tutta l’Europa sapeva: che la regina di Francia, Maria Antonietta d’Asburgo, era una troia nefasta. Questa volta commise l’errore di voler far assumere a sé medesimo la propria difesa ed esasperò i giudici con le sue cavillosità e con un’arringa che non era né breve né ragionata nella quale si ergeva contro la pena capitale e censurava tutto il diritto penale in generale. Tanto fece e così bene, che si ritrovò certo di avere da sorbirsi qualche anno di prigionia per non aver manifestato il minimo rimorso di essersi schierato con gli sventurati galeotti (per lui loro non erano niente e per loro lui non contava più un granché), né di avere insultato la dama Capeto che la mannaia già aspettava con impazienza. Ma non era così sprovveduto da presentarsi in tribunale il giorno in cui i giudici dovevano emettere la loro decisione e preferì fuggire ad Amsterdam.
Le autorità locali, conosciute famosamente per la loro benevolenza verso i reietti ma allarmate dalla buona accoglienza di cui l’avevano onorato i milieu rivoluzionari batavi, lo rimpatriarono in fretta e furia in Inghilterra, ma senza esporsi all’onta di consegnarlo alla Corona. Sbarcato segretamente, visse qualche tempo in provincia nella più grande discrezione, si convertì al giudaismo, per troppo leggere le Scritture forse, e prese il nome di Israel bar Abraham Gordon. Qualche mese più tardi, ebbe a Birmingham la cattiva sorte di essere riconosciuto, malgrado il suo grande cappello, le sue trecce e la sua lunga barba, da un agente di polizia. Lo si riportò a Londra sotto stretta vigilanza per udire l’inclemente sentenza che gli avevano valso i suoi libelli: cinque anni di prigione.
Condotto a Newgate, tenne a lungo nella sua cella, dove i visitatori di rango come gli umili accorrevano in gran numero, il più brillante ed eclettico dei salotti dell’epoca. Avendo contratto il «male delle gattabuie» nel 1793 finì i suoi giorni in ceppi... canticchiando, in un ultimo respiro quest’arietta all’epoca molto in voga nei sobborghi di Parigi:

Ah ça i-ra, ça i-ra, ça i-ra


L’aristocrazia ha saputo volgere in battuta di spirito la sua battuta finale
La borghesia non avrà per scomparire che la gravità del suo pensiero
Per le forze rivoluzionarie del superamento, non ci sarebbe da trarre più dalla leggerezza del morire che dal peso della sopravvivenza?



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