indice


Convegno di Zurigo
Intervento di Nicola Valentino

Ergastolo di Santo Stefano 30 maggio 1998*

Jeremy Bentham (filosofo e giurista inglese) nel 1786 caldeggiò in una specifica opera la realizzazione di un panopticon: stabilimento per custodire i prigionieri con maggior sicurezza e per operare nello stesso tempo la loro "riforma morale" ottenendo il dominio della mente sopra un'altra mente. Ma circa dieci anni prima che Bentham formalizzasse questa sua proposta, per volontà dei Borboni l'architetto Carpi costruiva l'ergastolo di Santo Stefano con le celle disposte a ferro di cavallo, in modo che da ogni punto gli ergastolani potessero essere controllati.
Questo controllo era possibile anche grazie al particolare gioco di luce, che filtrando dalla finestra a bocca di lupo posta alle loro spalle, li metteva sempre in controluce; al centro della struttura era posta una cappella esagonale definita "l'occhio di Dio che tutto vede".
I primi 200 reclusi arrivarono all'Ergastolo di Santo Stefano nel 1795; questo edificio può essere definito il primo vero carcere costruito sul nostro territorio, se si considera che in precedenza venivano riadattate a carcere le vecchie caserme o i conventi. La possibilità di un controllo visivo permanente, dispositivo tuttora operante anche con l'ausilio dell'occhio elettronico, genera nel recluso una forma di interiorizzazione del controllo. Si produce così una torsione dissociativa: ogni recluso diventa insieme carceriere di se stesso e carcerato.

"Non si può dire che tumulto di affetti sente il condannato prima di entrarvi: con che ansia dolorosa si sofferma e guarda i campi, il verde le erbe e tutto il mare, tutto il cielo e la natura che non dovrà più rivedere, con che frequenza respira e beve per l'ultima volta quell'aria pura" (Luigi Settembrini).

Ventotene, Grotta dei carcerati, sulla parete ancora si legge una scritta: "Condannato a vita dal Borbone 7-3-1731".

Il recluso condannato a una pena temporale che può scrivere sul muro della cella sia la data d'inizio sia quella di fine della pena può dire: "Quel giorno, qualunque cosa accada, sarò libero". Per noi ergastolani è diverso. Come i vecchi ergastolani speravano nella grazia, noi speriamo nella liberazione condizionale, trascorsi 26 anni di reclusione, ma la liberazione condizionale non è automatica, non è un diritto, è una concessione, una possibilità, la cui attuazione dipende dalla discrezionalità dell'autorità giudiziaria. Noi ergastolani viviamo con la consapevolezza di non poter mai decidere della nostra vita, dal momento che essa è, per sempre, nelle mani di un giudice.
Siamo in rapporto con l'autorità proprio come gli schiavi.

"A chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò ugualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, ma questi sono estesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento, ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre" (Cesare Beccaria).

Se con la pena di morte lo Stato toglie la vita a una persona, con l'ergastolo se la prende.

"Tre anni sono per me un giorno solo, e brevissimo e lunghissimo. Mi rivolgo con la mente a contemplare questo tempo non distinto da avvenimenti e mi pare breve: un giorno non è dissimile dall'altro; si vede sempre lo stesso, si soffre sempre lo stesso. Qui il tempo è come un mare senza sponde, senza sole, senza luna, immenso ed uno" (Luigi Settembrini).

Il tempo di un condannato a pena definitiva viene gestito dall'autorità carceraria e giudiziaria solo per la parentesi della condanna. Il tempo dell'ergastolano invece sarà gestito dall'istituzione per tutta la vita.
Viene da chiedersi quale percezione del tempo sviluppi la persona all'ergastolo per non morire.

"C'è tra noi un vecchietto di 72 anni, arzillo e allegro, il signor Michele Alletta di S. Giacomo in provincia di Salerno, il quale da che venne all'ergastolo quattro anni fa ha detto e dice sempre, che egli sta qui provvisoriamente, che uscirà nel mese corrente.
Io voglio uscire, debbo uscire, ed uscirò.
Non usciremo, Don Michele.
Ed io vi dico che usciremo.
Usciremo morti.
No, dimani, oggi, più tardi può venire un vapore a prenderci. Il mondo cangia ogni momento. Con questa accesa speranza che in lui non viene mai meno, anzi più contrastata più cresce: sicché egli non pensa ma spera.
Che disgrazia è pensare!"

(Luigi Settembrini)

Per vivere, o meglio, per sopravvivere, alla condanna senza fine, l'ergastolano deve sfuggire all'idea metastorica della perpetuità della sua condizione, immaginando dei punti di discontinuità nello svolgersi del tempo e della vita.
Sia quando coltiva speranze che quando vi rinuncia concentrandosi su quel che gli offre il quotidiano, l'ergastolano esce dal tempo dell'eternità per orientarsi con il tempo dell'impermanenza.

"Mi sto veramente rassegnando fatalisticamente a sopportare l'ergastolo. Si vive il giorno per giorno, minuto per minuto..."

Il delitto è stato atroce. In un paese d'Italia un uomo violenta e poi uccide una bambina, che era anche sua nipote.
Indagini: i primi sospetti e poi la certezza delle prove. Una notizia che appare sui giornali, un delitto già accaduto altre volte ma non per questo meno mostruoso.
Passa un po' di tempo e l'assassino viene condannato all'ergastolo.
Passa ancora qualche giorno e i giornali raccontano che nel paese dove è accaduto il delitto c'è stata una festa proprio per celebrare l'ergastolo. La popolazione è uscita per le strade, ha brindato nei bar e nelle case.
Un festeggiamento catartico per quella comunità, che si è liberata per sempre del "mostro", rinchiudendolo a vita.

Mostro, creatura che ha qualcosa di inumano, di innaturale, che suscita orrore.
È talmente disumano il mostro, che l'origine latina della parola rimanda al divino.
Tutte le nominazioni che mostrificano, attribuendo alle persone responsabili di un reato i tratti stereotipi d'estraneità alla specie, favoriscono l'atmosfera culturale che sanziona l'ergastolo.
Viene in mente l'operazione che originariamente nelle società schiaviste si compiva per ridurre in schiavitù i prigionieri di guerra, i quali venivano in primo luogo degradati al pari delle cose o degli animali e quindi resi estranei al genere umano.
L'interrogativo che si pone ora alla società è se non sia giunto il momento di por fine, con un guizzo di civiltà, alla storia dell'ergastolo in quanto pena di schiavitù.

Ottocentosettantacinque sono le persone attualmente all'ergastolo in Italia.
In quattro anni sono quasi raddoppiate.



Bibliografia

Nicola Valentino, Ergastolo, Sensibili alle foglie, Roma, 1994.
Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita, Gremese, Roma, 1990.
"La rete di Indra, Buone notizie", anno II, n. 2, maggio-agosto 1998.
Gianni Maria De Rossi, Ventotene e S. Stefano, Guido Guidotti, Roma, 1993.

indice


informativa privacy