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Convegno di Zurigo, introduzione
INCONTRO ABOLIZIONISTA

«Con l'istituzione della prigione privata i detenuti rappresentano oggi una forza-lavoro che valorizza gli investimenti delle imprese delle sbarre. Non stiamo forse andando, in questo modo, verso una nuova forma di schiavitù?»

(Albert Jacquard, Un monde sans prisons?)


Si è svolto a Zurigo, il 28-29-30 maggio 1999, con il patrocinio della Rote Fabrik, il primo incontro europeo aperto a intellettuali, istanze di base e organizzazioni, incentrato sul complesso interrogativo di «una società senza prigioni». Le relazioni di «capostipiti» dell'abolizionismo come Louk Hulsman o Knut Papendorf della scuola di Mathiesen si sono intrecciati con gli interventi di Vincenzo Guagliardo, prigioniero abolizionista e obiettore di coscienza carcerario, Vincenzo Ruggiero, Michael Faure, Ermanno Gallo.
Questa tematica, che verrà proposta a breve termine sotto forma di volume, continua a essere sviluppata e allargata, anche attraverso incontri e dibattiti locali, come quello di Barge e Pinerolo, con il patrocinio di centri sociali e culturali e la partecipazione di alcuni promotori «per la costituzione di un comitato italiano abolizionista». L'universo carcerario è vasto e controverso: un mondo sfaccettato che nessuno può ormai ridurre alla mera specificità istituzionale, penologica e penitenziaria. È la punta di un iceberg di sofferenza e miseria che volutamente si ignora, ma contro il quale anche il sistema «più inaffondabile» entra in collisione. Il solo fatto di ridurre l'universo carcerario a una questione tecnica, buona per amministratori criminologi e riformatori di buona volontà, è una mistificazione ideologica e sociale. Il carcere, con le sue ramificazioni ormai infinite in tutti i settori del vivere collettivo, riguarda l'intera società; coinvolge il mercato del lavoro clandestino ed extralegale; investe settori sempre più ampi dell'economia e della finanza. Ridurre, in Italia, la questione dei 52.353 detenuti reclusi più i 25 mila sottoposti a misure alternative, a un semplice protocollo di intenzioni amministrative e ministeriali, che riesuma principi obsoleti come il «recupero dei colpevoli», significa ancora una volta non solo calpestare i diritti del cittadino dietro le sbarre; ma irridere all'evoluzione del dibattito criminologico e anticriminologico, che ha attraversato negli ultimi anni tutti i Paesi europei. E che è presente, non soltanto per qualche navigatore solitario di Internet, anche in Paesi d'oltreoceano, dove la pena di morte e la carcerazione progressiva sono i sinistri emblemi dell'ordine democratico.
Il carcere non è una realtà naturale, eterna e immutabile, quasi risultasse un'espressione della creazione divina, uno strumento di vittoria del bene sul male. Tanto meno la «terapia delle sbarre» - su cui è fondato da secoli il carcere penale (a partire in Europa dalla rivoluzione francese) - può essere considerata valida nel contesto mondiale della «globalizzazione», salvo per qualche nostalgico lombrosiano che ritenga ancora il «crimine» una malattia da «espiare». Rivedere, ridiscutere, ridefinire le categorie del carcerario - e dunque del cosiddetto crimine, della punizione e del castigo - è irrinunciabile per qualsiasi società contemporanea che si consideri sulla soglia, non sul baratro del terzo millennio.
Citando solo Foucault, che sottolineava il carattere irriformabile della prigione, o Jacquard (compagno, fra l'altro, dell'abbé Pierre in dure lotte per i senza tetto, i senza lavoro, i senza diritti) - che definisce icasticamente la prigione «luogo del nostro fallimento sociale», non ci si può più non interrogare: a) sul significato concreto e mistificante del carcere contemporaneo; b) sul fatto se possa o meno esistere, e come, una società senza prigioni. Sappiamo che in Italia e in altri Paesi europei oltre la metà dei detenuti non sono definitivi; il 40-60% dei reati, secondo le regioni, sono connessi all'uso e al ciclo delle droghe; una buona percentuale dei «colpevoli» sono recidivi che entrano ed escono dal carcere come attraverso «una porta girevole». Già Tocqueville, nel 1800, si poneva la questione del carcere come «fabbrica di delinquenza». Oggi i dati sui detenuti europei che si accostano alle droghe in carcere per la prima volta sono agghiaccianti. L'istituzione stessa favorisce la «camicia di forza chimica», ovvero la medicalizzazione dei prigionieri-oggetto, per anestetizzarne le reazioni vitali di reazione e conflitto. Sappiamo, poi, che l'ex URSS ha raggiunto la cifra record di un milione di reclusi, per cui, mentre Niels Cristie (padre fondatore dell'abolizionismo nordico) parla, sia pure enfaticamente di un «nuovo gulag europeo», lo Stato russo è costretto ad applicare, suo malgrado, forme di depenalizzazione di massa che approssimano «l'abolizione», ovvero l'autoestinzione delle galere, per mancanze di mezzi economici. Sappiamo anche che dietro i discorsi sulla «sicurezza dei cittadini» - che mietono applausi e voti in favore dei «nuovi partiti democratici», che hanno fatto della «lotta al crimine e del rispetto delle vittime», la bandiera dai molti colori del loro unico opportunismo politico destrorso - si cela il bisogno di «emergenza permanente» da parte di uno Stato che necessita di «nemici assoluti» per autolegittimarsi, e considera i cittadini non soggetti egualitari del patto sociale, ma sudditi ai quali spremere voti e balzelli. Sappiamo, infine, che in Paesi europei come la Francia e l'Inghilterra, dove è stato introdotto su vasta scala il carcere privato o semiprivato, la tendenza penale è di incrementare il numero dei condannati o, quantomeno, di aumentare il numero delle pene medio-lunghe, in modo da «ottimizzare» l'uso degli «impianti penitenziari». Sì, il carcere è ormai, a pieno titolo, una fabbrica di corpi reclusi. Sappiamo così che negli USA la privatizzazione degli ultimi dieci anni ha portato il numero dei detenuti e dei controllati penali a quasi 2 milioni, di cui circa 1 milione e 600 mila intasati dietro le sbarre. Il tutto a beneficio dei dividendi delle imprese delle sbarre quotate in borsa e delle lobbies carcerarie, che gestiscono centinaia di migliaia di posti-cella in diverse zone del Pianeta. Più agenti di custodia e più prigioni, specie nelle aree di bassa occupazione: ecco il loro slogan vincente! Questi sono solo alcuni esempi dell'estensione del fenomeno, della sua complessità e della stupida sicumera di quanti intendono ancora «umanizzare» e «riformare» le prigioni, «riabilitando i reprobi», e reinserendoli nella società, grazie a una pena «giusta rapida e sicura» e al «giusto processo». In un sistema globale in cui 1 miliardo di esseri sono considerati inutili, in cui c'è necessità di lavoro ma non di lavoratori ufficiali (troppo cari!); in cui il 10% della popolazione si spartisce il 90% del prodotto lordo, ecc. «crimine» e «sicurezza» vanno ben oltre queste categorie da bricolage penal-penitenziario, buone per la grancassa elettorale. Questi sono solo alcuni dei problemi che si sprigionano dal labirinto carcerario Questo è lo sguardo abolizionista che, senza pregiudizi e senza filtri ideologici, si estende oltre le apparenze, le ombre. Osserva e indaga i vari aspetti del carcerario, rilanciando a ogni incontro, in ogni circostanza come quella di oggi, le solite domande fondanti. Per stimolare, idee, interrogativi, critiche... e qualche risposta. Può esistere una società senza contenitori di miseria e «devianza», «sofferenza e sfruttamento carcerario»? Può esistere una collettività che non ha bisogno di mostri, di «colpevoli naturali», e di emarginati senza volto che agonizzano dietro le sbarre, per il privilegio di pochi e la perpetuazione dell'ingiustizia economico-sociale?

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