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L'universo concentrazionario 7.
GLI UBUESCHI.


Il popolo dei campi costituisce un mondo alla Céline con ossessività kafkiane. Il colore in auge è il verde. Un uomo con le mani legate, inginocchiato su una sbarra di ferro che lentamente, inesorabilmente penetra sotto pelle, la faccia percorsa da rivoli di sudore, gli occhi fuori dalle orbite rivolti a un faro implacabile che li fissa per ore interminabili, che brucia le palpebre e svuota il cervello invadendolo di folli paure e di desideri ardenti come sete inestinguibile: è questo il destino dell'internato. Su ogni percorso e a tutte le ore le S.S. hanno disseminato violenze. L'uomo non può sfuggire, e vive nella loro attesa, in angoscia perenne. Le violenze corrompono in modo mirabile ogni resistenza e ogni dignità. Gli uomini verdi sono i grandi maestri di quelle cerimonie, i cinici sacerdoti di quelle espiazioni. Nei cantieri, ubriacano di urla e di insulti le menti sconvolte, calpestano e stroncano sul nascere i tentativi di rivolta. Si nutrono di incerte delizie scavando solchi a suon di botte nei corpi indifesi. Ma sono presenti anche la sera, al ritorno nei Blocks: non deve esservi requie, per l'internato - e, soprattutto, non deve esservi oblio. Quando cadono le catene del lavoro essi forgiano i ceppi delle corvé inutili, delle infinite molestie, delle torture gratuite. I criminali sono indispensabili all'universo dei campi, poiché assicurano la continuità della distruzione psicologica. Non conosco nulla che possa rendere con pari intensità, plasticamente, la vita interiore degli internati come la porta dell'inferno e i personaggi che ne sono usciti. Non fosse che per il loro numero, i «comuni» la fanno da padroni. Rendono impossibile e falsa ogni forma di solidarietà. Considerano la forza e l'astuzia come gli unici rapporti naturali fra uomini. Esasperano i pregiudizi nazionali, trasformano tutte le superstizioni locali, tutti gli avvilimenti individuali in grandi manifesti che urlano dai muri. Per vigliaccheria e perversione, ogni fame diventa omicida. Gli uomini verdi hanno scritto la carta dei valori concentrazionari.

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In tale sordida miseria, una delle conseguenze più sorprendenti è la caduta di ogni gerarchia legata all'età, il crollo di tutte quelle convenzioni che comportano un minimo di ossequio nei confronti dei vecchi. Qui i vecchi non sfuggono alle vessazioni comuni a tutti. E' considerato legittimo che un adolescente li picchi e li insulti, li cacci dal loro posto per occuparlo e servirsi. I vecchi sono oggetto, per la loro debolezza, di irrisione e disprezzo. Conta solo il potere, che si fonda sulla forza fisica e sull'astuzia. A Helmstedt vi era tra noi un anziano albergatore di Anversa. Era al campo per aver nascosto in casa dei russi. Aveva sessantatré anni. Piangeva spesso, perché anche sua moglie e sua figlia erano internate. Gli era rimasto, libero, solo un figlio, e ne parlava con ingenuo orgoglio. La vita quotidiana, la fame e le botte lo avevano reso fisicamente ripugnante. Sapeva di non essere in grado di prendere in mano un badile, e sapeva che questo voleva dire manganellate e colpi di stivale. Così, si sforzava di rimanere il più a lungo possibile al Revier. Soffriva di una fetida diarrea, ma questo non era sufficiente. Perciò si fingeva pazzo. Yup il polacco e il LagerŠltester Poppenhauer lo portavano in giro come un orso da fiera e si facevano beffe di lui nel modo più volgare; dopodiché lo frustavano. Un giorno Antek non trovò niente di meglio che scrivere il suo necrologio, con tanto di data del decesso e di invio al Krematorium, e mostrarglielo tenendosi la pancia dal ridere. Del resto, pochi giorni dopo il vecchio morì. Si era aggrappato a Emil, che non lo picchiava e lo lasciava in pace. In quel periodo la nostra squadra lavorava ai pozzi di Schacht Marie. Al primo piano della torre vi era un banco da falegname. Il vecchio si infilava nell'armadio degli attrezzi e chiudeva le porte. Così rannicchiato, non sentiva troppo freddo. Quando lo tiravano fuori, il fetore era insopportabile. Aveva delle manie. Un giorno, gli venne voglia di due patate che un greco stava facendo cuocere sulla brace. Gli offrì in cambio tutta la sua porzione di pane, la razione di un giorno. Era una vera fortuna, e non aveva alcun rapporto con i reali valori di mercato. Al greco le patate non erano costate niente, dal momento che le aveva rubate da un carretto. Da parte del vecchio, era una sciocchezza senile. Il greco accettò, e per paura che qualcuno si intromettesse si ingozzò di quel pane fino a strangolarsi. Ma nessuno si indignò. I russi e i polacchi, seduti in cerchio intorno al fuoco, giudicarono che il greco era stato furbo, con quella sorta di stima che è fatta di un cordiale disprezzo reciproco.

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Nei campi le posizioni sociali occupate nella vita civile non avevano alcuna rispondenza. Cessavano semplicemente di esistere, e anzi apparivano ridicole caricature, senza alcun rapporto con l'essere concentrazionario. Una mattina - questo accadde durante la nostra allucinante fuga davanti agli americani - venne a cercarmi un francese insieme a un suo compagno, pregandomi insistentemente di far salire quest'ultimo sul vagone Revier, o comunque di metterlo al sicuro da qualche parte. Era un ometto fragile, con la pelle raggrinzita sulle ossa. Durante la notte era stato spaventosamente picchiato, e aveva il volto e tutto il corpo ricoperti di ecchimosi e di macchie blu o nere. La sua giacca a strisce blu era sporca e lacera; i pantaloni, strappati per tre quarti, gli ricadevano a frange sulle ginocchia. Era scalzo. I suoi occhi mi supplicavano, e aveva come tutti quel fondo di folle terrore nello sguardo. Mi disse che faceva l'avvocato a Tolosa, e io fui costretto a un grande sforzo per trattenermi dallo scoppiare a ridere. Certo, l'immagine sociale di un avvocato non aveva più nulla a che spartire con quell'infelice. L'accostamento era di una vis comica irresistibile. E lo stesso valeva per tutti noi. L'uomo si andava lentamente disfacendo nell'internato.

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