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L'altra resistenza 5. Il periodo di maggiore pressione per l'avviamento al lavoro fu tra l'ottobre '44 e il febbraio '45. I tedeschi agivano ormai sull'individuo attraverso la scelta a sorte o l'indicazione dei collocatori. Diveniva in tal modo sempre più ardua l'azione di difesa collettiva, l'intervento, le proteste, le rimostranze dei comandi italiani. La tesi giuridicamente e politicamente valida invocata dagli internati che non potevano essere per loro vincolanti o coercitivi gli accordi conclusi da un governo che gli italiani non avevano riconosciuto e non volevano riconoscere come legittimo, che la repubblica di Salò non poteva rinunciare a nome degli ufficiali italiani, del resto mai interpellati in proposito, a precise norme del diritto internazionale, si scontravano vanamente con il diritto della forza e con l'ostinata volontà dei tedeschi.
Nell'autunno vi era stata a Sandbostel, nei pressi di Brema, dove erano raccolte molte migliaia di ufficiali italiani, una epidemia di tifo petecchiale conclusasi, senza danni, in una insperata quarantena che ci liberò della presenza dei tedeschi. Restarono sulle torri le sentinelle, restò il filo spinato, ma nel campo i padroni eravamo noi, con i nostri pidocchi! Fu l'estrema pausa concessa dalla sorte e un intralcio imprevisto ai piani dei tedeschi. Poi le cose precipitarono con un ritmo pauroso. Verso novembre cominciarono i trasferimenti a blocchi al campo 83 di Wietzendorf nell'Hannover, da dove gli internati avrebbero dovuto essere avviati al lavoro.
Il trasferimento da un campo all'altro era in ogni circostanza un fatto molto rischioso. Ma un viaggio in pieno inverno e per uomini giunti all'estremo delle forze fisiche rendeva il pericolo ben più grave del consueto. I trasferimenti dell'estate si svolsero sotto il segno della maturità della resistenza, quelli dell'inverno del '44 costituirono l'ultima e più difficile prova. Né è da escludere che nel calcolo dei tedeschi quegli spostamenti, oltre che a rispondere a ragioni logistiche, avessero pure uno scopo psicologico di intimidazione e di pressione tali da favorire lo sfollamento dei campi. Altri che hanno vissuto quella esperienza potrebbero meglio dirne l'atmosfera d'incubo e di tormento.
Si era nel pieno dell'inverno. La neve ricopriva ogni cosa. Usciti dal campo italiano la prima tappa fu, come al solito, la doccia e la disinfestazione. In un camerone ti spogliavi, in un altro con pennelli addetti a imbiancare pareti qualcuno ti spalmava i peli con un liquido oleoso - e spesso i tedeschi a quel servizio adibivano donne, naturalmente di popoli inferiori! - in un terzo eri costretto sotto l'improvviso getto d'acqua o bollente o gelida e se ti insaponavi correvi il rischio di non fare a tempo a liberarti dal sapone; in una quarta immensa sala ci si doveva asciugare, sotto l'effetto dell'aria calda proveniente da grandi sfiatatoi. Di solito aria non ne usciva né calda né fredda e quell'ammasso di uomini, interamente nudi, scheletrici, finivano per vincere il naturale pudore e per schermirsi dal freddo avvicinandosi e stringendosi gli uni agli altri. La doccia era sempre una cosa spiacevole perché ci offriva l'immagine, nell'aspetto degli altri, del nostro progressivo irrimediabile deperimento fisico. Ma in quelle circostanze era un colpo mortale. Ho sempre pensato di fronte a quella scientifica costruzione del lager tedesco alla macchina per mangiare di "Tempi moderni" di Charlot! Un granello di sabbia e via, tutti gli ingranaggi si scatenano a colpire con furia cieca e impassibile il malcapitato: così accadeva per quel miracolo di "Organisation", di "Funktionalität" di cui gli internati diventavano vittime.
A Sandbostel dopo il bagno fummo fatti uscire per rivestirci all'aria aperta. Nudi sulla neve. I nostri abiti, che avevano aggiunto al puzzo naturale quello ben più ripugnante dei gas della lavatura a secco, erano sparpagliati in un disordine voluto e furono necessarie ore perché ognuno di noi potesse rientrare in possesso dei propri stracci.
Poi la ferocia degli aguzzini nazisti si sfogò nella perquisizione. Eravamo nei lager da più di un anno, avevamo subito centinaia di controlli, eppure la perquisizione era prevista all'uscita e all'entrata di ogni campo di concentramento. Non poteva dunque mancare, e quella di Sandbostel ebbe - per evidenti ragioni - un più netto carattere persecutorio. Si passava in una specie di corridoio tra due file di S.S. e di gendarmi i quali più che preoccuparsi degli zaini aperti e del loro contenuto si accanivano a percuotere e a strappare a caso a chi una povera maglia, a chi un pezzo di telo da tenda. La giornata trascorse così tra i pericoli della disinfestazione e le umiliazioni delle percosse e degli insulti, nel freddo atroce e senza cibo, perché i trasferimenti offrivano sempre ai tedeschi l'occasione buona per tagliarci i viveri. A notte alta fummo infine cacciati in una sorta di padiglione mezzo diroccato: sul pavimento, ricoperto da un palmo di fanghiglia, finimmo per abbandonarci sfiniti. Ma in quella stessa notte i tedeschi ci svegliarono all'improvviso, ci allinearono nella neve, ci contarono e ricontarono. Prima ancora di muoverci, qualcuno cadde per sempre sul piazzale del campo di Sandbostel. Altri li seguirono poco dopo nella marcia notturna verso la stazione ferroviaria. Le urla dei tedeschi e l'abbaiare dei mastini ci incalzavano nella bianca pianura dove la neve aveva cancellato ogni traccia di strada. Ci lasciavamo guidare dalla fila degli alberi spogli, dagli insulti dei guardiani. Le luci sparse rivelavano in lontananza il segno delle case e ci sorprendeva che in quel mondo disumano esistessero ancora delle abitazioni e una luce, un tepore per accogliere altri uomini. I più stanchi abbandonavano ai margini le loro ultime cose. Il capitano P. trascina leoninamente i suoi libri; ce la farà, ma è un'eccezione. I pochi chilometri di quella marcia nella neve pesarono ben più di qualche mese di stenti nel lager. All'alba salimmo finalmente sui carri bestiame. Ma non offrivano riparo contro il freddo intenso perché avevano subito l'offesa della guerra: larghe brecce tra le pareti e nei tetti lasciavano passare neve e gelo. Per l'intera giornata il treno restò fermo sui binari e la minaccia del congelamento si fece tanto imminente da costringerci a batterci vicendevolmente sulle spalle e sulle braccia per ore e ore.
Al tramonto il viaggio ebbe inizio. A Wietzendorf ci attendeva la medesima infernale trafila persecutoria e il peggior lager che mai avessimo visto. Non più baracche ma tane umide, malsane, oscure, nelle quali erano passate generazioni di italiani, nella prima e nella seconda guerra mondiale, e schiere infinite, come foglie destinate a morire, di uomini di tutta l'Europa. Il cimitero di Wietzendorf dava l'immagine cupa e angosciante della storia del campo e del sangue versato dall'Europa. I russi dominavano in quel regno della morte. Le tombe con un solo numero cedevano via via il posto a quelle dove i numeri erano allineati a dieci a dieci, a cento a cento fino alle grandi fosse comuni. Epidemie, si diceva; tifo e dissenteria. Vicino a Wietzendorf si trovava Belsen, dove il cimitero non era necessario: i morti non lasciavano nemmeno quella traccia. Erano troppo numerosi: 35 mila ve ne furono solo negli ultimi due mesi di prigionia.
A Wietzendorf fummo assediati dalla fame, dal freddo, dalle malattie, dalla bestialità dei tedeschi. In una sorta di baracca-teatro gli ufficiali venivano radunati secondo la sorte e sottoposti alla scelta dei collocatori che indicavano via via quelli che all'aspetto sembravano utili a un qualche lavoro. Quando qualcuno disse che in un modo analogo si svolgeva nel Mezzogiorno d'Italia il mercato della mano d'opera bracciantile, molti di quegli ufficiali restarono sorpresi e increduli e capirono infine una volta di più quante cose occorreva mutare nel nostro Paese.
Ma di fronte alle difficoltà più gravi la resistenza continuò. Furono di quel tempo gli episodi più alti, i rifiuti più sdegnosi, la serena accettazione di processi e di punizioni da parte di chi non volle a nessun costo piegarsi alla violenza del lavoro forzato.
Non si trattava ormai di chiarire le ragioni della resistenza, di persuadere della necessità politica e morale del rifiuto quanto piuttosto di lottare, di trovare, ognuno di noi nel più profondo della propria coscienza, la forza per assumere un atteggiamento conseguente. Allora si raccolsero i frutti dei molti mesi di attività e di battaglia antifascista: qualcuno è vero cedette, ma furono pochi, estremamente pochi i volontari, pochi quelli che subirono senza protestare e rilevante invece il numero di coloro che incrociarono le braccia andando a finire nei campi dei perseguitati politici.
Poi a poco a poco la macchina nazista perdette il ritmo e la possibilità stessa di smistare con la forza gli ufficiali italiani nei luoghi di lavoro. La controffensiva tedesca delle Ardenne era fallita. Il maresciallo Zukov aveva inflitto alla Germania un altro colpo d'ariete tra la Vistola e l'Oder. Verso la fine di febbraio l'operazione Clarion sconvolse, attraverso un gigantesco attacco aereo, le ferrovie, la produzione, la vita dell'intero Reich. La notte la landa sabbiosa di Wietzendorf era scossa da un tremito sotterraneo e continuo. Nelle baracche i castelli, i nostri letti di legno a due o tre piani, ballavano e all'orizzonte i bagliori delle esplosioni rivelavano gli attacchi su Amburgo e Brema.
La pressione si allentò. I trasferimenti cessarono. E' vero: giungerà ancora a Wietzendorf verso la fine di marzo l'ordine perentorio di cacciare fuori del campo gli ufficiali italiani e di applicare nei confronti dei renitenti la spietata rappresaglia. Ma quella decisione che pure produsse giorni di angoscia non sarà eseguita.
A Wietzendorf vi erano ancora più di 3000 ufficiali italiani e altre migliaia erano a Sandbostel, a Fallingbostel, a Fullen e in altri campi: migliaia e migliaia di italiani si erano opposti al lavoro obbligatorio. La resistenza aveva vinto la sua ultima, definitiva battaglia.
Così si entrò nella fase della dissoluzione della Germania nazista e gli internati vissero il periodo dell'annientamento delle forze fisiche e dell'attesa ansiosa della fine. Giunse davvero il momento in cui non si poteva far altro che risparmiare il fiato e restare il più possibile immobili.

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