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L'altra resistenza 3. E' naturale che le notizie dai fronti di guerra avessero nei campi di concentramento un valore eccezionale. La ricerca, il commento, il confronto delle notizie costituiva un dato di fondo della nostra vita e alla resistenza non poteva sfuggire l'importanza del controllo delle voci, dello sceveramento del vero dal falso e la necessità di creare delle fonti di informazione sicure.
Il problema presentava difficoltà enormi. Innanzi tutto perché le voci più straordinarie e incredibili entravano nel lager dai più diversi canali ed esse trovavano un immediato e favorevole terreno. «Credere nell'impossibile» si potrebbe definire la divisa del prigioniero, pronto sempre ad abboccare all'amo del sensazionale e improvviso evento risolutivo. La notizia falsa ed esagerata diveniva uno stupefacente pericoloso dal quale molti nonostante le prove ripetute non sapevano difendersi: la speranza saliva di colpo alle stelle, ma dopo la breve eccitazione si ripiombava più a fondo nello smarrimento e nello sconforto. Qualcuno avrebbe voluto addirittura teorizzare il beneficio delle notizie fantastiche, quasi fossero iniezioni di coraggio e di conforto, e si prestava volenteroso alla circolazione delle panzane più inverosimili. Ma in verità tale sistema presentava aspetti negativi ben più gravi del momentaneo vantaggio e non si può affatto ritenere che le «voci» abbiano aiutato in definitiva a vivere e a resistere.
La resistenza condusse comunque un'azione continua contro le deformazioni delle notizie che attraverso il mercato nero, le cucine, il bagno, tramite i tedeschi e altri prigionieri, filtravano nei lager. Si trattava per questo lato di spogliare le «voci» dalle superfetazioni della speranza e del desiderio, riconducendole attraverso un laborioso processo di interpretazione al nucleo iniziale e veritiero. Allo stesso modo era necessario valutare le informazioni ufficiali di fonte tedesca e repubblichina che talvolta, attraverso qualche giornale o qualche indiscrezione, venivano in nostro possesso. Le indicazioni dei bollettini di guerra servivano soprattutto, grazie ai nomi delle località citate, a fissare le posizioni raggiunte dal fronte e davano luogo sempre a discussioni appassionate e accanite tra gli strateghi che dal più insignificante episodio traevano lo spunto per previsioni di manovre immancabilmente rapide e decisive e quanti intendevano faticosamente rendersi conto dell'andamento generale della guerra.
Dalle lettere che in certi periodi giunsero con sufficiente regolarità dalle case lontane era estremamente difficile desumere notizie certe di carattere politico o militare: esse erano sottoposte a scrupolosa censura e gli interessati attuavano in generale, per non far correre rischi ai loro cari, una ancor più oculata autocensura.
Pure su quel filo sottile che ancora resisteva qualcosa riusciva ad arrivare fino a noi: echi della lotta partigiana, voci di sventure e di ardimento, salda speranza di vittoria. Nel lager tedesco seppi, in modo fortunoso dal biglietto nella noce svuotata di un pacco, che nella mia terra era caduto Felice Cascione, compagno di giovinezza e di cospirazione, alla testa di altri giovani nella battaglia contro i tedeschi: un fatto che assieme a tanti altri ci consentiva di intuire la fisionomia dell'Italia partigiana. Seppi dell'esecuzione di Giovanni Gentile, una vicenda sconvolgente anche sotto il profilo personale perché mi richiamava le tensioni e gli urti con lui alla Normale di Pisa negli anni '40-41 e perché suscitava inquietanti e duri interrogativi sulla responsabilità degli intellettuali, sul rapporto tra pensiero ed azione.
Ma il problema più arduo e impegnativo era di potere attingere direttamente e in modo continuo alle fonti di informazione.
In alcuni lager dove l'ingegno e l'astuzia degli internati avevano permesso di costruire delle radio rudimentali, si diffusero in certi periodi dei veri e propri bollettini quotidiani che erano attesi quasi quanto la scarsa razione di pane. Attorno a quelle fonti di informazione si accesero alcune delle più accanite battaglie della resistenza. I tedeschi diventavano feroci tutte le volte che si accorgevano dell'esistenza di una radio non solo, credo, per le notizie dirette che noi potevamo captare e che documentavano l'inesorabile serie di colpi che i loro eserciti venivano ricevendo, ma per il fatto soprattutto che quegli strumenti costituivano un intollerabile sfregio alle ferree leggi del campo, una beffa giocata al prestigio e alla capacità proverbiale dei loro servizi di vigilanza poliziesca. Come un calcio a una qualsiasi lurida marmitta poteva essere definito «atto di sabotaggio», l'esistenza di una radio clandestina si definiva immediatamente come un attentato al Reich, e di fronte a un tale reato si scatenavano le più minute e vessatorie perquisizioni che mente umana potesse immaginare. Fino a smontare letteralmente un'intera baracca, fino a tenere per giorni e giorni un intero blocco sotto l'incubo del trasferimento al campo di punizione, fino a giungere al processo magari di chi nulla sapeva e alla condanna inesorabile ai lavori forzati o al carcere duro. Parecchi ufficiali pagarono perché sospettati come detentori di radio clandestine o come propalatori di notizie, ma nonostante l'occhiuta sorveglianza le voci continuavano a giungere con il linguaggio della speranza.
Del resto i fatti avevano una loro naturale eloquenza. La trasmigrazione verso ovest degli ufficiali che erano nei campi della Prussia Orientale e del Brandeburgo così come l'altra verso il centro della Germania di quelli che erano dislocati in Olanda o ai confini con la Francia non facevano che indicare le direttrici di marcia degli eserciti alleati. Quei viaggi offrirono anche un'altra occasione per confermare la tragicità della situazione del Reich, ponendo gli internati in maggiore o minore misura a contatto con la realtà del Paese. Noi compiemmo, ad esempio, il percorso da Küstrin alla regione di Brema, attraversando una notevole parte della Germania, su vagoni di terza classe. Un fatto straordinario e incredibile che ci permise di guardare avidamente e di vedere: le stazioni, le tradotte militari, i volti dei soldati e della gente. In ogni cosa si poteva cogliere il segno della stanchezza e dell'ansia silenziosa. Non ci fermammo a Berlino ma ne aggirammo i sobborghi: solo immensi cumuli di macerie. I nostri occhi aperti bevevano con gioia quella disumana, apocalittica, distesa di rovine. Mai avevamo visto qualcosa di simile e il pensiero - è duro dirlo - non andava ai lutti e alle sciagure degli uomini che quegli scheletri di case, quelle vie sconvolte, quei resti carbonizzati significavano. Noi cercavamo i segni della disfatta del nostro nemico; non avevamo tempo per commuoverci sulla sorte di coloro che si erano gloriati di non aver pietà. Avevamo fretta di cogliere il più possibile nell'aspetto delle cose e degli uomini motivi di coraggio e di fiducia.
Di coraggio e di fiducia avevamo bisogno, a dire il vero, perché già sapevamo di dovere affrontare una nuova fase della lotta. Le speranze che la guerra finisse nell'estate del '44 subirono un brusco colpo d'arresto nel fallimento dell'iniziativa alleata di Arnhem.
Nell'autunno e inverno del 1944, mentre i tedeschi sembrano godere il vantaggio di una pausa relativa sui fronti di guerra, si scatenerà sugli internati una nuova e diversa offensiva che richiederà tutta la loro forza e risolutezza.

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