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L'altra resistenza 2. La primavera e l'estate del 1944 furono pertanto il periodo di minore sofferenza.
L'essere usciti dalla durezza dei mesi invernali con il vantaggio morale che sempre deriva dalla persuasione di aver compiuto il proprio dovere contribuì a creare un'atmosfera più distesa e serena. Scomparsi i propagandisti di Salò, partiti gli «aderenti», attenuatosi l'incubo del freddo, a migliorare la nostra condizione giunsero più frequenti i pacchi da casa con il conforto di un contatto riallacciato e il sollievo, pur limitato, di un po' più di cibo.
L'attività culturale e politica si sviluppò allora con più organicità e con un minore assillo dell'obiettivo immediato. Quando nell'agosto gli ufficiali italiani furono trasferiti dal campo di Küstrin, gli amici e i compagni liguri vollero offrirmi come ricordo affettuoso e in riconoscimento di quanto per alcuni mesi avevo potuto fare, una sorta di pergamena. Parve a tutti quasi un addio, un distacco definitivo dalla storia del Risorgimento, dai poeti della libertà...! E invece qualche giorno più tardi ci ritrovammo ad un'altra estremità della Germania, a Sandbostel, in presenza di una più vasta e organica iniziativa, in cui ognuno poté facilmente inserirsi e portare il proprio contributo.
La resistenza è nel periodo della sua piena maturità. D'altra parte le vicende della guerra - nel giugno l'apertura del secondo fronte e l'inizio dell'offensiva dei sovietici nella Russia Bianca - contribuiscono a darle nuovo alimento e calore.
A molti la sorte della Germania parve allora definitivamente segnata. Un giorno, non molto dopo quello dello sbarco in Normandia, atteso per mesi e mesi con indicibile ansia, ci sorprese nel campo di Küstrin un improvviso e strano allarme. I tedeschi ci chiusero nelle baracche e le ore cominciarono a scorrere lente in una attesa fatta di interrogativi, di timori e di speranze, finché si diffuse la notizia incredibile: Hitler kaputt! Hitler è morto! E' il 20 luglio. Nelle baracche le discussioni si intrecciano e si arroventano. Anche i tedeschi hanno dunque avuto il loro colpo di stato. C'è un gusto particolare, anche nei più decisi antifascisti, a mettere in luce questa sorta di vendetta della storia. E' l'orgoglio tedesco, la presuntuosa forza tedesca che si avverte colpita in quell'attentato.
Ma perché chiuderci nelle baracche? Si teme la rivolta dei prigionieri? Siamo, dunque, alla fine della guerra? Che la morte di Hitler rappresenti la fine della guerra non vi è dubbio. Il dubbio è che la notizia sia vera. Non può essere vera, dice qualcuno. Si tratta di un inganno. Bisogna essere prudenti. Chi mai in Germania può avere avuto tanto coraggio? Pure quell'allarme sarebbe altrimenti inspiegabile. Nessun aereo, nessun rumore di battaglia. Sì, dev'essere vero: Hitler è stato ucciso.
Le sentinelle non permettono che si guardi nemmeno dalle piccole finestre delle baracche: che cosa meditano? che cosa preparano? Alla gioia improvvisa si unisce, per una di quelle sensazioni sotterranee e inspiegabili, il timore della vendetta, della cieca irrazionale vendetta che i nazisti avrebbero potuto trarre, quasi un sacrificio pagano, anche su di noi. Non era pazzia: altrove è accaduto. E il tempo continuò a scorrere, in quell'alternarsi di speranze e di paura...
Quando usciremo nuovamente al sole sapremo che l'attentato è fallito, che la Germania e ancora in piedi dopo una sanguinosa repressione. I soldati di guardia si sono fatti più cupi e taciturni. Gli appelli più severi. Ma alla delusione per l'esito sorprendente della vicenda del 20 luglio si unisce in noi la convinzione di essere all'atto finale della tragedia. I segni quotidiani sono quelli dell'agonia, lunga e terribile. In una qualche selva della Germania Mussolini sta proprio allora approntando con il miracolato dittatore nazista un nuovo cappio da stringere al nostro collo, ma noi ci sentiamo forti e vigorosi: la Germania ci aveva offerto una prova della giustezza della nostra lotta.
Poco più tardi la spinta vittoriosa delle armate sovietiche chiude l'intensa pausa estiva. I tedeschi sono costretti a operare il trasferimento di enormi masse di prigionieri. Ma quando ai primi di agosto si muovono verso ovest, gli ufficiali internati a Küstrin sanno quale significato abbia quel viaggio: i sovietici sono ormai alle porte di Varsavia. Küstrin, come altri campi, era già stata una tappa nel ripiegamento dalla Polonia dopo l'offensiva invernale dell'Armata Rossa. Ora si compie un altro passo indietro. E un passo avanti verso la libertà, con animo grato verso l'Unione Sovietica e il suo esercito.
Bisogna qui sottolineare che nei lager l'antisovietismo è crollato come un miserando castello di menzogne. Non erano pochi tra gli ufficiali italiani coloro che avevano avuto la ventura di vivere l'odissea della campagna di Russia, ma quell'esperienza non fu nei campi di concentramento che occasione e motivo del processo contro il regime fascista e la sua guerra, e mai, ch'io sappia, di risentimento o di odio contro l'Unione Sovietica e il suo popolo. La ventennale campagna fascista di bugie e di insulti sul Paese del socialismo s'era dissolta tragicamente di fronte alla realtà della forza, della saldezza, del patriottismo di quel popolo che i soldati italiani avevano constatato nella guerra, di fronte all'umanità e alla schiettezza della gente che essi avevano conosciuto nel momento della disfatta e poi negli stessi lager tedeschi, di fronte alla capacità e alla potenza di quell'esercito che dopo avere sanguinosamente difesa palmo a palmo la propria terra stava ormai piegando la tracotanza e la superbia tedesca.
Ricordo di avere assistito per caso un giorno durante un incontro di ufficiali di cavalleria, nel campo di Sandbostel, alla rievocazione da parte di alcuni superstiti delle tragiche e sanguinose cariche della nostra cavalleria nella campagna di Russia. Nell'esaltazione del valore militare e del sacrificio generoso non mi accadde di ascoltare una sola parola di rancore o di odio, una qualche condanna politica nei confronti dei soldati e del popolo russo.
L'antisovietismo tace umiliato dai fatti. Del resto gli internati italiani avevano voluto unire la propria sorte a quella di tutti i popoli che combattevano contro la Germania. E certo, ben più che in Italia dove la guerra partigiana poteva dare il senso e l'orgoglio di essere ancora padroni e artefici della propria vita essi avvertivano che il loro futuro era strettamente legato alle vicende della lotta e ai successi dello schieramento antinazista. Le vittorie dell'esercito rosso ci toccavano pertanto non solo come episodi di una lotta politica e militare di cui la nostra resistenza era modestissima parte, ma avevano pure per noi un valore direi personale e immediato, perché la nostra stessa esistenza in gran parte dipendeva dall'affermazione dei soldati sovietici.
Anche per questo, ma non solo per questo quasi egoistico interesse, gli internati italiani guardavano allora con simpatia e favore all'Unione Sovietica, e seppure qualcuno di quegli ufficiali avrà finito, più tardi, col piegarsi ancora di fronte alla menzogna anticomunista e al vilipendio del paese del socialismo, è certo tuttavia che ognuno di noi non può aver dimenticato e sa, con maggior precisione ed evidenza di chi non soffrì nei lager, che assieme alla libertà del nostro Paese e di tutta l'Europa, la nostra individuale libertà e la nostra vita furono salvaguardate e difese dall'immenso sforzo e dai sacrifici compiuti, in gran parte, dal popolo e dall'esercito sovietici.

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