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L'altra resistenza 6. In tal modo il dibattito culturale e politico poté arrischiarsi a segnare anche i limiti e le insufficienze della democrazia e del liberalismo prefascista. Nelle responsabilità del regime, vennero alla luce il peso e il contributo che nell'affermazione del fascismo avevano assunto determinati gruppi politici, forze sociali e istituzioni, quali la monarchia e la Chiesa. Gli stessi cattolici più illuminati sentivano come l'azione della Chiesa nei confronti del fascismo e del nazismo era stata equivoca e contraddittoria e come anche il problema dei rapporti tra Chiesa e Stato si fosse riaperto nella crisi generale che aveva colpito l'Italia l'8 settembre. Un'affermazione recisa di libertà e di giustizia, un riconoscimento delle esigenze nuove che nei lager fermentavano tra tutti i popoli d'Europa, anche da parte delle supreme autorità religiose del mondo cattolico pareva inevitabile e giusta. D'altra parte non mancavano nei campi di concentramento le voci spregiudicate e coraggiose che non rinunciavano ad affermare le responsabilità della Chiesa nell'esperimento politico del fascismo nel momento stesso in cui l'atteggiamento del governo pontificio sembrava contribuire a liberare la Nazione dalla servitù politica e dallo smarrimento morale e i terrori e le ansie, le incertezze e gli stenti della nostra condizione rendevano naturale e agevole il ricoverarsi sotto le grandi ali di Dio e obliare l'oscuro e misero presente nel conforto e nella speranza ineffabile di un riscatto che non avrebbe potuto mancare.
Ricordo che ebbe una qualche diffusione una formula desunta da quella del liberalismo cavouriano: in libero Stato libera Chiesa spirituale, proprio nell'intento di trovare con i cattolici una conciliazione e un'unità effettiva, risparmiando alla Chiesa e agli italiani le insidie e i pericoli concordatari e al partito politico dei cattolici il rischio di diventare il partito del papa e del clero.
Numerosi erano nei lager i cappellani militari, che svolsero un'intensa, e dai tedeschi tollerata, attività di assistenza spirituale. Essi diedero un contributo alla resistenza e furono sostanzialmente concordi con i suoi princìpi avendo accettato di condividere con i soldati e gli ufficiali internati le privazioni e le sofferenze della prigionia. Anche le cerimonie e i riti della religione divennero occasione di mobilitazione delle coscienze contro il nazismo e il fascismo, e l'opera di consolazione, di conforto, di speranza dei sacerdoti giovò senza dubbio a rafforzare le volontà, a dare fiducia nella giustezza di quel sacrificio che gli italiani subivano e accettavano. Nel campo di concentramento la fede fu per molti un'ancora di salvezza, un rifugio contro le umiliazioni e le percosse e talvolta, come accade, una mania ossessiva e superstiziosa. Non direi che vi fosse il disinteresse necessario per un vigoreggiare schietto e duraturo del sentimento religioso: si trattava spesso di qualcosa di simile al «voto» del naufrago che nel giungere a terra viene dimenticato. Pure la baracca in cui si celebrava la messa, dove il sacerdote accoglieva le confessioni, fu un punto di raccolta - e non solo per i credenti - e l'atteggiamento dei cappellani cospirò con quello dei gruppi politicamente più avanzati, anche se la loro opera si fondò soprattutto sui motivi della pazienza e della rassegnazione, della prova che bisognava affrontare in espiazione di tante colpe, ed ebbe uno scarso rilievo dal punto di vista dell'educazione civica e politica degli internati. Durante il periodo della prigionia i cappellani non si impegnarono in un vero e proprio lavoro di formazione di gruppi né di chiarificazione e propaganda politica, a parte taluni sacerdoti più informati e più attivi e soprattutto quei laici di forte sentire religioso e politico, come Giuseppe Lazzati, che non rifuggivano dal discutere, anche sul terreno politico, il futuro del nostro Paese, e che erano aperti alle esigenze di un rinnovamento democratico al quale, a loro giudizio, i cattolici italiani dovevano partecipare con una propria e autonoma formazione politica. Fu solo al momento della liberazione che i cappellani iniziarono una intensa e aperta attività di «indottrinamento» delle coscienze, soprattutto attraverso le iniziative assistenziali che, anche per la carenza dello Stato, gravitavano in gran parte attorno alla Chiesa e alla Città del Vaticano. Ma questo è già un episodio della vita postbellica del nostro Paese e non più della resistenza nei lager.
Ho già osservato come fosse politicamente più impegnata l'azione dei piccoli gruppi protestanti, per i quali la rivendicazione della libertà di fronte al fascismo assumeva anche un carattere e un significato di libertà religiosa, ben più viva che non nei sacerdoti cattolici. Per questi valeva soprattutto, nella condanna del fascismo, il suo aspetto di negazione disumana d'ogni valore spirituale, d'ogni spirito di carità e di amore per il prossimo e quel culto della forza, quella infernale oppressione del regime nazista di cui il lager era lo specchio rivelatore. Lo spirito religioso condannava il fascismo così come lo condannava l'autonoma e libera «ragione», che fu la forza-cardine dell'attività dei laici.
Quest'opera difficile e paziente di educazione annoverò nei campi di concentramento degli eroi oscuri. Penso con commozione a quanti riuscirono a portare nei lager i libri più cari, a difenderli dal rozzo sospetto dei nazisti, a farli divenire un patrimonio comune. Forse non si ha un'idea del numero notevole di libri che gli internati, in particolare nei campi degli ufficiali, ebbero a disposizione e che costituirono la premessa indispensabile dell'attività culturale. E, si badi, non solo opere letterarie, volumi di poesie, romanzi, ma pure quanto di meglio nel campo storiografico e scientifico era stato pubblicato prima e durante la guerra in Italia. Le pubblicazioni di Laterza, di Einaudi, de La Nuova Italia; le opere principali di Croce, di De Ruggiero, di Flora, di Russo e ciò che in Italia era stato tradotto e stampato di storici stranieri: di Fisher, di Meineke, di Pirenne, e così via.
Per molti tali volumi avevano un sapore di novità assoluta e un'occasione straordinaria fu per parecchi degli stessi antifascisti l'incontro nei lager con i libri, giunti in qualche modo dalla Svizzera e dalla Francia, di fuorusciti italiani, quali Salvemini, Borgese e Ferrero. Parve una singolare ironia della sorte quella di riuscire a leggere nel campo di concentramento tedesco ciò che era stato proibito in Italia. Lo stesso accadde per il "Manifesto" di Marx e per altre pubblicazioni di cui molti ebbero allora per la prima volta notizia. I tedeschi non sequestravano, in genere, i libri, e tanto erano sospettosi e diffidenti nei confronti della carta scritta a mano, tanto erano accomodanti verso la carta stampata e con un atteggiamento tipico della più crassa ignoranza per la quale lo stampato equivale a lecito. Al più aggiungevano una certa dose di disprezzo e di noncuranza verso i libri come nei confronti della diverse attività culturali che tolleravano senza molto preoccuparsi. Per loro, non v'era dubbio, gli internati costituivano una massa di «dannati» verso i quali non valeva la pena di tentare una qualche opera di persuasione. Ciò spiega il comportamento delle autorità naziste dei lager di fronte alla propaganda degli emissari fascisti di Salò che non fu accompagnata in generale da uno sforzo di intimidazione, di pressione o di coercizione. Lasciavano fare, ma probabilmente nutrivano molto scetticismo sulle possibilità di successo dei repubblichini, e avevano altrettanta disistima e disprezzo per i fascisti che per coloro che aderivano alla repubblica di Salò. Tanto che furono gli stessi tedeschi a definire «volontari della fame» gli aderenti dell'inverno 1943-44, che del resto vennero tenuti per lunghi mesi nei medesimi campi di concentramento dei resistenti, da essi magari divisi da uno dei tanti fili spinati, ma a essi in sostanza equiparati nel trattamento materiale e morale. Ricordo che ancora nel marzo 1944, nel campo di Küstrin, vi era la baracca degli aderenti, considerati come cani rognosi, più nemici dei tedeschi. Con noi avevano in comune solo i gabinetti le cui pareti erano divenute un campionario di insulti variopinti e di polemica spicciola. Un giorno mi provai a raccogliere - a scopo documentario - quel dialogo di scritte, ma ebbi l'immediata e desolante percezione che non si trattava nemmeno di un qualche scontro di ragioni, di un dialogo, ma solo di una massiccia e volgare farneticazione «sull'essere satolli» dei repubblichini e «sull'essere affamati» dei resistenti! Dirò, tra parentesi, che la letteratura murale non ebbe nel lager espressioni di rilievo e di tutte le scritte due sole mi sembrano degne di essere salvate: il grido di rivolta e di speranza dei francesi, «on les aura!», e il nostro più ammiccante e meno eroico, «la va a pochi!», che possono essere assunte come espressioni di due temperamenti diversi di fronte allo stesso nemico e nel medesimo impegno di lotta.
La circolazione dei libri non trovò, dunque, ostacoli da parte delle autorità tedesche così come non furono frapposte difficoltà insormontabili alle riunioni di carattere culturale. I tedeschi avevano più sospetto e timore di uno spettacolo di varietà - e se ne organizzarono di veramente singolari e notevoli - che non di una lettura di Dante o di Leopardi, anche se in chiave politica; si ebbe perfino la possibilità in certi campi e in determinati periodi di dar vita a giornali parlati nei quali il «fondo» assumeva quasi sempre un netto e preciso significato politico. Il 6 agosto del 1944 apparvero anche, nel campo di Küstrin, diverse copie di un giornale murale che portava una recensione tra il serio e il faceto del lavoro teatrale di un giovane ufficiale italiano, rappresentato qualche giorno prima nella baracca-teatro del lager. Quello scritto, una sorta di pasquinata anonima, sta a documentare da una parte l'intensità raggiunta nella attività culturale e ricreativa, e l'atteggiamento dei tedeschi che non solo avevano consentito una serie di rappresentazioni, di trattenimenti musicali, di conferenze, di corsi di lezioni di letteratura, di storia, di pedagogia, ma che non intervennero nemmeno di fronte all'affissione a diverse baracche di un giornale murale scritto a mano e dall'altra testimonia nel suo impietoso e radicale gusto pedagogico-politico un carattere tipico della resistenza. La recensione criticava innanzi tutto la facilità del consenso e dell'applauso degli internati per ogni fatica, «fossero le esibizioni sportive della palla a volo o le lezioni di storia dei trattati, le arguzie insulse di Largaspugna e il tragicomico pot-pourri, più o meno originale, del maestro E», e riportava tale abitudine al fatto che gli internati «erano stati educati in un clima che amava l'accordo pieno e la partecipazione totale, senza eccezioni!» «Ci agitiamo, urliamo, ci proclamiamo nuovi, abbiamo tagliato i ponti con il passato, eppure siamo ancora ben imbevuti di quei vizi e difetti che per tanti anni hanno fatto di noi un popolo di morti». Né valeva per il severo recensore a giustificare il guaio di quella mancanza di discernimento critico, che faceva annegare ogni voce, ogni espressione nel mare del plauso incondizionato, la constatazione delle condizioni particolari in cui ci trovavamo: «né vale la scusa che qui siamo nel lager perché voi avete ammirato ieri e ammirerete domani, si può dire quasi con certezza, le più insulse commedie di cui è stato ricco il nostro teatro contemporaneo», e per rieducarsi del resto, anche come spettatori, non era necessario attendere il tempo della libertà. Di "Erba nella sabbia", il dramma rappresentato dagli internati, si dava quindi un giudizio critico notandone la staticità assoluta, primordiale e la tecnica mutuata da ben noti tentativi del teatro americano. «Vi siete commossi - incalzava la recensione - di fronte a una dubbia poeticità del contenuto, perché quel contenuto vi tocca da vicino ed è la vostra pena quotidiana, e non avete sentito l'uso e l'abuso dei più vieti luoghi comuni. Diciamo la verità: i primi quadri respirano nell'atmosfera convenzionale di certe rappresentazioni domenicali a edificazione delle buone famiglie cattoliche, gli ultimi ricordano i teatri del GUF con la falsa rettorica d'uso, e non vi ingannino i mutati idoli polemici». Scarsa azione, scarsa poesia, nebulosità di simboli e di formule: a quel tentativo pur sempre generoso non si riconosceva altro merito da parte di chi aveva inorridito alle sorpassate tirate del povero Largaspugna e aveva tremato a sentir parlare di una possibile "Cena delle beffe" o di una "Ginevra degli Almieri", che quello di avere risparmiato agli internati i drammi dei Benelli, dei Forzano, dei Fraccaroli.
Senza dubbio la posizione del recensore e del suo gruppo non era nel caso specifico del tutto giusta, come non sempre giusto e umano fu l'atteggiamento degli intransigenti della resistenza di fronte a una serie di inevitabili debolezze e necessità, dall'intenso mercato nero che nei campi aveva la sua «borsa», i suoi «annunci economici», la sua moneta di scambio, il tabacco, a quella sorta di delirio irrefrenabile che si espresse nella ricerca e nella raccolta di ricette culinarie, ma bisogna pur riconoscere che essa si inquadra in una particolare atmosfera di acutezza critica nei confronti di tutti gli aspetti della vita passata del nostro Paese, in uno sforzo pedagogico che poteva riuscire a qualche risultato solo se abbracciava l'insieme della nostra esistenza. Il giorno stesso in cui quella recensione apparve, venne l'ordine di trasferimento dell'intero campo di Küstrin, ma le incertezze e i timori paurosi che ogni cambiamento di lager comportava si attenuarono quel giorno nelle discussioni, nei consensi e dissensi che il singolare e audace giornale murale aveva suscitato.

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