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L'altra resistenza 3. L'8 settembre fu, dunque, lo scoppio di una passione antitedesca più che la razionale volontà di un mutamento politico. Il sollievo che il 25 luglio si era espresso in gioia per la fine di un incubo, si velò all'armistizio per la preoccupazione e l'incertezza del futuro. Per la grande massa dei nostri soldati che erano lontani dalla Patria, isolati, a contatto con i tedeschi, il problema immediato da affrontare non poteva essere che quello di fare i conti con i vecchi alleati. In una situazione come quella delle isole dell'Egeo, ad esempio, si intuiva che l'unica via d'uscita era quella di togliersi di dosso un esercito che non poteva essere ormai che nemico, e che forse lo era stato anche prima. O si riusciva a gettare a mare i tedeschi, e restare padroni del campo, o la nostra sorte era segnata: il dilemma non presentava alternative. Ma al di là del motivo immediato e contingente di una presenza ostile, di un quasi individualistico «o morte o vita», le ragioni e gli ideali di una nuova lotta erano del tutto confusi e incerti. Che esistesse un problema del singolo, del gruppo, si comprendeva, ma non più o non ancora che vi fosse un'esigenza della nazione, di un governo che rappresentava gli interessi generali e al quale era dovuta fedeltà e obbedienza. E forse, fra tutti, i soldati avvertirono meglio la necessità della lotta non per chiarezza di idee politiche, ma per il senso più vivo della trappola dalla quale bisognava liberarsi. I patteggiamenti, gli accordi, le serenate dei tedeschi potevano toccare i comandi, i generali; il soldato capiva che dall'intesa, comunque raggiunta, con i tedeschi, sarebbe stato ribadito il tempo della servitù e la condizione di truppa di ventura. E non a caso la crisi colpì soprattutto i comandi.
A Rodi c'era una dozzina di generali e di ammiragli. Burocrazia, interferenze di comandi, gelosie, incomprensione. Cose naturali, si dice, quando c'è sete di comando e desiderio di rapide e brillanti carriere. Ma nel momento del pericolo nessuno osò comandare. Di carriera pareva loro sufficiente quella percorsa, e tergiversando tentarono di salvare i galloni d'argento. Il loro atteggiamento non fece che riprodurre e accentuare irreparabilmente le ambiguità e le incertezze delle disposizioni del governo Badoglio. Nei promemoria del Comando Supremo era stato disposto che nelle isole dell'Egeo si dovesse far assumere ai reparti un «contegno offensivo» e «disarmare i tedeschi, qualora si prevedessero da parte loro atti di ostilità». La condizione posta all'iniziativa italiana è quanto di più ridicolo e assurdo si possa immaginare. Pure, proprio nella presunzione di una buona fede e di una volontà di star fermi da parte dei tedeschi, per i quali ancor più che per noi valeva il dilemma del battere o dell'essere battuti, si fondarono i calcoli e le azioni dei comandi italiani. Tutta la serie di colloqui, di impegni assunti e smentiti, di accordi fatti e disdetti l'8 e il 9 settembre tra il generale Kleemann e i comandanti italiani Campioni e Forgiero rivelano da una parte l'ostinata e assurda volontà di credere che i tedeschi non avrebbero compiuto atti di ostilità, dall'altra la meditata e accorta ricerca, in chi si trovava con 6000 uomini contro 40 mila, di un vantaggio nello schieramento delle truppe e nella preparazione psicologica da sfruttare al momento opportuno.
I nostri comandi, che erano sempre andati avanti con maggiore o minore intelligenza e capacità, posti di fronte a una situazione politica e militare straordinaria, in cui le direttive dall'alto servivano ben poco o per la loro genericità o per la loro intempestività, annasparono e si smarrirono nelle formule del «difendersi ma non attaccare», del «non assumere l'iniziativa delle ostilità». Né onorevolmente cattivi né perfettamente buoni denunciarono la loro impotenza a decidersi in un senso qualsiasi; attesero il beneficio del tempo in una condizione in cui era evidente che solo un'azione rapida e immediata poteva darci partita vinta. L'irresolutezza e la contraddittorietà dell'atteggiamento dei comandi furono uno dei motivi che determinarono la caduta del presidio di Rodi e dell'intero Egeo, dove pur non mancarono ufficiali capaci e coraggiosi che seppero prendere l'iniziativa e battersi con accanimento.

Ecco una batteria contraerea italiana a difesa dell'aeroporto di Gadurrà. Sera dell'8 settembre. Un ufficiale, per caso, ascolta, da radio Gerusalemme, l'annuncio dell'armistizio. I comandi superiori interrogati si dimostrano all'oscuro di tutto. Giunge la notte. Dall'aeroporto si alza improvviso un crepitio di fucileria: gli avieri celebrano la fine della guerra! I tedeschi della vicina batteria chiedono i motivi degli spari e dei razzi multicolori che si accendono nel campo, come fuochi d'artificio. «E' l'armistizio», si risponde. E quelli sibillinamente: «E vi pare ci sia da rallegrarsi?»
Tutta la zona è posta in stato di allarme; gli artiglieri sono ai pezzi, disciplinati e fermi. Ormai sanno, ma attendono preparati. Dopo le prime ore di silenzio e di ansia cominciano a giungere - dal comando - gli ordini da Rodi. Dapprima pare si debba far fuoco contro i tedeschi. Si è pronti, si attende... Poco dopo contrordine: la situazione è normale; amici come prima, e - testuale - «passare per le armi coloro che insubordinatamente tentassero gesti di ostilità o aprissero senza un preciso comando il fuoco. Comunicare l'ordine ai soldati».
La batteria tedesca pone un quesito: se compariranno aerei come si comporteranno le batterie contraeree italiane? L'interrogativo deve giungere fino al punto più alto per avere una risposta salomonica: gli italiani opereranno contro tutti gli aerei, di qualsiasi nazionalità! Altra pausa. Da qualche punto della pianura giungono canti e colpi isolati.
Improvvisamente la situazione muta ancora: «Pronti ad aprire il fuoco sulla batteria tedesca». Pronti si è, da ore. Una domanda al comando superiore: «Presso la batteria tedesca c'è un piccolo gruppo di nostri soldati. E' necessario richiamarli?» La decisione deve giungere da Rodi. E si fa attendere. Si decide allora di iniziativa e si fanno rientrare gli uomini perché sembrano esposti a imminente pericolo. Ma si sbaglia: Rodi dice che non è necessario ritirare gli artiglieri, anzi, debbono restare e il mattino del 9 gli altri soldati della batteria d'istruzione da 88 dovranno recarsi, come al solito, presso gli amici (perché sono tornati a essere amici) tedeschi per compiere le normali esercitazioni.
Al tepore succede il freddo pungente dell'alba; affiorano nelle piazzole i visi stanchi, ansiosi e incerti dei soldati. Domandano perché e come. E' arduo rispondere. Conoscono del resto la ridda di ordini e contrordini. «Ma non si fa nulla?» La sfiducia e la stanchezza sono in agguato. Sarebbe necessario fare qualcosa. Ma chi osa?
Nuove notizie e nuove speranze: il «gruppo» comunica che un'autocolonna tedesca si muove da un paesino oltre la collina verso l'aeroporto. Allora si spara, finalmente? C'è una strada con alcune curve strette e obbligate da percorrere per i mezzi tedeschi: sarebbe sufficiente dare un ordine e dieci, quindici batterie italiane potrebbero battere con precisione da tempo calcolata quei punti. Nemmeno uno spillo potrebbe passare. Ma l'ordine non giunge... All'impazienza, all'ansia, alle richieste sempre più insistenti si risponde: calma, quell'autocolonna non viene per occupare l'aeroporto, ma solo per fuggire, per evacuare l'isola!
Siamo giunti al ridicolo. Fuggire? Ma dove debbono fuggire, e come? Nell'aeroporto non c'è neppure un aereo, né è possibile affrontare il mare: non esistono navi né barche né zattere. Proseguiranno dunque per Rodi? No, «si fermeranno, ma per fuggire». Occorre calma e sangue freddo, si dice. Si attende dunque ancora. Alle prime luci del giorno la colonna appare in lontananza ai limiti dell'aeroporto. Sarebbe ancora possibile farla fuori rapidamente. «Possiamo sparare? - si chiede - Non vedete che stanno per occupare l'aeroporto? Non vi rendete conto del significato della manovra?» L'insipienza delle risposte dimostra ormai chiaramente la dissoluzione di ogni logica e d'ogni coraggio; non si dovrebbe più obbedire a stoltezze tanto palesi, ma chi può osare il gesto di ribellione? Si risponde infatti: «Non si deve assolutamente sparare; lasciare che i tedeschi si muovano; restare calmi ai propri posti».
E la marea sale lentamente e inesorabilmente. Le autoblinde entrano nel campo: ne occupano i punti principali, si sparpagliano mentre gli avieri ripiegano e fuggono. Che potrebbero fare altrimenti? Il nuovo ordine è «tergiversare». Quest'ordine incredibile è venuto da Rodi: tergiversare! E che significa? Chiacchiere a chi ti viene di fronte col fucile spianato?
A poco a poco i tedeschi circondano le posizioni italiane. Non entrano in contatto; occupano solo i punti dai quali potrebbero all'improvviso attaccare con vantaggio. Il loro piano è evidentemente preparato con metodo e attuato con risoluta calma. E noi? E' giunto un altro ordine da Rodi: «resistere senza sparare». La tragedia di migliaia di uomini si consuma nel ridicolo di queste «nuove» forme di lotta: tergiversare, resistere senza sparare. Ma è la fine. I tedeschi tolgono di mezzo i comandi intermedi. Iniziano un'opera di persuasione. Adottano per la base la tattica che è servita con i più alti in grado. Promettono: «niente più guerra, tutti a casa». Loro sanno che i soldati italiani sono da mesi nell'Egeo, maltrattati e sfruttati. Si rallegrino dunque: cedano le armi e saranno ricondotti alle loro case al più presto. Perché combattere ancora?
I tedeschi sono gentili: «Abbiamo fatto l'armistizio, - dicono, - e verrà rispettato. Cedere le armi e tornare a casa: la tranquillità è assicurata. Desiderano forse gli italiani morire ora che la guerra è finita? Combatteranno loro, anche per noi. Cedere le armi e star tranquilli. Le promesse saranno mantenute. Cedere le armi». Forti sono le lusinghe per molti e più forti ancora gli ordini di resa che alcuni comandi già caduti prigionieri non si fanno scrupolo di diramare. Le resistenze si sgretolano: chi si arrende, chi fugge sui monti, chi tenta di allontanare il momento doloroso con lunghe parole e pretesti.
I tedeschi cercano di evitare la lotta, che necessariamente sarebbe per loro pericolosa, e pazientano. Sanno ormai che le forze italiane si stanno inesorabilmente sfaldando.
Eppure non solo sarebbe stato forse agevole impedire loro ogni mossa, ma isolarli, costringerli alla resa, magari riuscire a eliminarli. E anche più tardi, quando già parevano padroni del campo, non poteva forse essere sufficiente una piccola scintilla per bruciarli?
All'inizio del pomeriggio del giorno 9 nel settore dell'aeroporto di Gadurrà, quando vennero meno i contatti con i comandi superiori e mentre gli automezzi tedeschi continuavano a muoversi, una batteria italiana guidata da un uomo di cuore e di saldi propositi, il capitano Viviani, decise di agire secondo la propria iniziativa. Aprì il fuoco contro un ponte su di un magro torrente per tagliare la strada che dall'aeroporto portava a Rodi. Si accese la lotta e durò tre giorni. Le batterie italiane che ancora non avevano ceduto misero fuori combattimento quella tedesca da 88 che si trovava nella zona e imbottigliarono i soldati con i loro mezzi. I tedeschi furono chiusi in trappola. Allora, chi aveva gettato le armi, cercò di riprenderle, chi aveva ceduto imprecò e maledisse e tentò con ogni mezzo di riscattarsi.
Anche i tedeschi resistettero validamente: non avevano via d'uscita. A un certo punto chiesero che fosse loro concesso di sgombrare il campo. Ma improvvisamente, quando pareva certo il nostro successo, giunsero parlamentari da Rodi con ordini scritti del Governatore: si doveva cedere, cessare il fuoco. E anche i più audaci e risoluti finirono per piegarsi alla capitolazione che il generale Kleemann era riuscito a imporre e a fare accettare dall'ammiraglio Campioni nel pomeriggio dell'11 settembre.
Non diversi la resistenza e i combattimenti che si svolsero nel resto dell'isola. Dovunque si lottò quando i vari reparti restarono isolati e l'esplosione antitedesca non ebbe più le remore dei comandi superiori.
I tedeschi dovettero combattere aspramente fino al 12 novembre per avere ragione del presidio di Lero e di Coo, ma anche la sorte di quell'isola come di tutto l'Egeo era stata segnata. Da una parte, quella di Rodi, dove 5-6000 veterani tedeschi avevano avuto ragione di quasi 40 mila soldati italiani, e dall'altra - è doveroso ricordarlo - dalla valutazione dell'alto comando angloamericano.
I piani strategici degli alleati avevano ormai operato una scelta diversa da quella che Churchill tentò a lungo di imporre per il secondo fronte: non già la penisola balcanica ma la Normandia. Superata la tesi di un attacco alla Germania attraverso la Grecia e i Balcani, il possesso delle isole dell'arcipelago greco diventava di secondaria importanza. La decisione degli alleati l'8 settembre fu assai rapida e frustrò di colpo anche i calcoli politici che probabilmente erano a fondamento delle disposizioni del Comando Supremo italiano, che aveva previsto uno schieramento offensivo delle nostre truppe nell'Egeo e il tentativo di disarmare i tedeschi. Tutto ciò avrebbe creato il trampolino di lancio per una campagna angloamericana nella penisola balcanica che, oltre a colpire la Germania, servisse ad aprire un contrasto con l'Unione Sovietica.
L'intervento degli inglesi a Lero e in qualche altra isola ebbe così il significato di una diversione del tutto circoscritta. Eisenhower disse che i reparti italiani dell'Egeo non offrivano garanzia sufficiente di voler affrontare lo scontro. Un pretesto o, se si vuole, un errore di valutazione.
In questo, come del resto nella generale considerazione delle possibilità dell'esercito italiano, gli angloamericani sbagliarono per non aver compreso i sentimenti antitedeschi che oramai agitavano i nostri soldati e per non essersi resi conto del profondo processo di distacco dal fascismo che si era compiuto durante la guerra e in particolare dal 25 luglio all'8 settembre.

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