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L'altra resistenza PREMESSA DELL'AUTORE.


Nel 1954, quando mi accinsi a rievocare la vicenda della prigionia, ero mosso da un preciso intento politico. Eravamo allora in presenza di un tentativo colpevole di oscuramento, di messa ai margini, e anche di contestazione delle ragioni e dei valori della guerra di liberazione e del movimento partigiano. Per contrastare i rischi che la resistenza venisse offesa e tradita e che si producessero rotture e involuzioni nel tessuto democratico del nostro Paese, a me parve che potesse essere utile anche una riflessione storico-politica sulla deportazione in Germania, dopo l'8 settembre, e sulla resistenza nei campi di concentramento dei soldati e degli ufficiali italiani.
L'obiettivo che avevo era di mettere in luce il carattere peculiare dell'internamento di centinaia di migliaia di militari italiani. Sotto un profilo generale quel fatto costituiva, in verità, un capitolo della grande deportazione di uomini e di donne in Germania da tutti i paesi d'Europa per il lavoro coatto, ma in senso specifico si trattava, sia per chi la prigionia la inflisse sia per chi la subì, di un episodio di vera e propria lotta politica più che della conseguenza inevitabile di una vicenda bellica.
Dalla denominazione inedita - Imi (internati militari italiani) - alla collocazione, secondo un evidente criterio politico-razziale («felloni» e «meridionali»), nella gerarchia della persecuzione che segnò l'universo concentrazionario, risulta chiaro questo carattere proprio della prigionia degli italiani. E anche noi, caduti nelle mani dei tedeschi e deportati, avevamo compreso presto che eravamo di fronte a qualcosa di diverso dal potere di uno Stato ostile, che dovevamo vedercela con un nemico politico - il nazifascismo - con un nemico straniero e uno di casa nostra. Per questo la prigionia diveniva qualcosa di diverso dalla sua forma classica, tradizionale, di attesa, per quanto tediosa e triste, che il conflitto si risolvesse sui campi di battaglia, si collocava al di fuori delle norme e delle difese dei trattati internazionali e finiva per trasformarsi anch'essa in un momento del conflitto stesso, perché anche da parte nostra assumeva il senso di un pronunciamento e il carattere di una opposizione politica e ideologica.
Al centro del mio interesse non si poneva pertanto l'indagine sul crollo catastrofico dell'8 settembre, anche se quel tornante tra la caduta abissale e dissolutrice dell'esercito e dello Stato e l'impulso immediato alla ripresa, vissuto e sofferto in una realtà come quella di Rodi, o di altre isole, da Lero a Cefalonia, in cui si propose di colpo e drasticamente l'aut-aut tra la resa e il combattimento, sta all'origine di tutto il percorso di fatti e di idee che trasformerà l'internamento, in particolare degli ufficiali, in una oscura, ma generosa e nobile impresa politica.
Allo stesso modo non volevo rievocare i miei giorni di Rodi, tra la lotta e la resa - non vi è nemmeno notizia nel libro della ferita, che mi toccò il 9 settembre e mi fece rischiare la vita - non mi proponevo di scrivere il diario dei miei giorni di pena e di sofferenza a Küstrin, a Sandbostel, a Wietzendorf, né intendevo mettere in primo piano la riflessione, che già aveva trovato espressione in opere significative, sulle condizioni e la sorte dell'uomo nei campi di concentramento, sulla linea cupa e le feroci regole del Reich tedesco che erano rivolte sempre, in ogni girone e in ogni luogo di quell'inferno, a umiliare, a comprimere, ad annullare la persona umana, la sua libertà e dignità.
E' vero: per gli italiani internati il campo, anche nei casi in cui divenne di punizione (Straflager), il lavoro per i soldati e per quegli ufficiali ai quali, dopo l'agosto del '44, fu imposto con una aperta e violenta coazione, non significarono automaticamente lo sfruttamento e l'oppressione fino all'annientamento fisico. Wietzendorf e Belsen, il lager militare e quello politico, vicini e dentro lo stesso universo di persecuzione, di fame, di morte, furono tuttavia due realtà diverse. Ma gli ufficiali italiani che rifiutarono fino all'ultimo ogni forma di collaborazione, ogni compromesso con il Reich tedesco e con la Repubblica sociale italiana, avevano, nella grande maggioranza, la convinzione di battersi al confine tra la vita e la morte. E soprattutto sapevano bene che avrebbero potuto evitare quello stato orrendo di avvilimento, di patimenti, di insidie solo che avessero deciso di aderire al regime fascista; e che avrebbero potuto sfuggire alla stretta sempre più soffocante e micidiale andando a lavorare nelle fabbriche, nelle campagne, nelle miniere della Germania. Perché dissero di no e si ostinarono nel rifiuto?
A me sembrava estremamente importante capire e mettere in luce il perché e il come di quel faticoso, impervio passaggio dal crollo rovinoso di idee, di convinzioni, e anche di presunzioni che la sconfitta militare determinò per centinaia di migliaia di soldati e decine di migliaia di ufficiali alla determinazione di una così ampia e forte volontà e capacità di resistenza e di riscatto. All'inizio, subito dopo l'8 settembre, quando di colpo scomparvero i punti di riferimento, i comandi, le guide, i motivi e le ragioni del rifiuto opposto ai fascisti e ai tedeschi, che ognuno dovette cercare nella solitudine e nel silenzio, furono tra i più diversi, obbedirono a reazioni emotive, ad argomenti formali, a calcoli ingenui, ad attese rassegnate. Ma, poi, per non mollare, per reggere con dignità, come accadde alla grande maggioranza, fu necessario rompere del tutto i ponti con il fascismo, darsi una motivazione politica e ideale di quella scelta o di quella costrizione, e dei sacrifici, dei pericoli, sempre più evidenti e paurosi, che comportavano; fu necessario soprattutto dare un fondamento forte e unitario a quella decisione di restare volontariamente in un carcere duro, a quella resistenza, che in qualche misura fosse analogo a quello antifascista, nazionale, patriottico di chi si batteva in Italia e in altri paesi europei.
La rievocazione della mia personale esperienza cercava, dunque, di attirare l'attenzione sul processo di politicizzazione, e sull'opera di educazione democratica che furono perseguiti e portati avanti attraverso tramiti e forme diverse. E' chiaro che io mi preoccupavo di mettere in luce e di sottolineare l'itinerario di una «minoranza», della parte più consapevole e matura degli internati nei campi degli ufficiali, ma in quella analisi si facevano pur emergere i problemi generali che gli internati si trovarono di fronte, il travaglio della ricerca di risposte persuasive, e gli orientamenti che prevalsero. Certo, in quella massa enorme di italiani - più di 600 mila disseminati in centinaia di lager - ognuno ha avuto il suo dramma e la «sua» resistenza, ma a me importava fare emergere la verità che poteva valere e contare per tutti e per il nostro Paese, allora e in avvenire, affermando con forza la validità e il valore nazionale e democratico di quella resistenza, il dovere patriottico e la rinascita di una coscienza democratica che essa cercò di perseguire. Insomma, volevo dire e dimostrare che l'essenza della prigionia nei lager consisteva nella conquista, estesa e sofferta, della consapevolezza, e nella purificazione degli errori e delle colpe del fascismo.
Era questo anche un modo per dare un contributo, piccolo ma significativo, in occasione del decennale della Liberazione e per stimolare una ricerca che andasse al di là della memorialistica, delle espressioni letterarie e artistiche e si facesse opera di storia. Ma quel lavoro ebbe la disavventura di essere bocciato per la pubblicazione dalla casa editrice a cui mi ero rivolto, che era poi quella legata al Partito comunista (gli Editori Riuniti). Non credo che abbiano fatto ostacolo riserve e perplessità di tipo politico, e non ricordo comunque motivazioni di questo tipo. Del resto la valorizzazione umana e politica della non collaborazione e della resistenza passiva degli internati dilatava e arricchiva l'area e il significato della lotta antifascista, ribadendone in pieno le ragioni di fondo e il dato unitario. Forse, più banalmente, il mio lavoro non rientrava nei piani editoriali. O più probabilmente, e con qualche ragione, non persuadeva l'editore quell'ibrido tra la memoria e il saggio, tra il taglio letterario e quello politico che caratterizzava il mio scritto. Ora mi sembra che il non avere accolto quel libro, sia pur modesto, sia stato un errore, e che soprattutto l'errore sia stato mio, di non aver insistito, di non aver tentato altre vie per pubblicarlo. In quella rinuncia non mi pare che abbia pesato un qualche soprassalto del complesso del reduce. Nel libro c'è traccia, in verità, del mio orientamento critico nei confronti del fenomeno del reducismo che già era venuto delineandosi nei campi. Nel mio fastidio verso le rivendicazioni vittimistiche di meriti ritengo ci fosse coerenza, sia con una visione rigorosa e schiva del nostro dovere di ufficiali, e più semplicemente di italiani, che mi aveva spinto a schierarmi nell'area dell'intransigenza politica e morale, sia anche con il contributo che avevo cercato di dare per costruire un senso e una persuasione unitaria per la nostra resistenza e per formare, in uno sforzo di mutua educazione, una nuova coscienza civile e morale. A me infastidiva, sia chiaro, il reducismo piagnone e indistinto, non certo l'opera doverosa rivolta a far conoscere e a valorizzare l'esperienza drammatica che avevamo vissuto. E del resto al ritorno ho cominciato subito a rivendicare, in una terra come la Liguria dove era stato ampio e sanguinoso il movimento e la guerra partigiana, il valore della non collaborazione, della resistenza a cedimenti e compromessi dei soldati e degli ufficiali prigionieri in Germania come una realtà che era legittimamente parte della lotta di liberazione. Così come ricordo bene che il mio primo impegno, più strettamente politico, fu di parlare in una manifestazione a sostegno del governo Parri, proprio a nome dei reduci.
Perché, dunque, mi arresi allora e ho continuato a lasciare nel cassetto così a lungo questa mia testimonianza? Debbo confessare che si è trattato di un peccato di presunzione. Anche a me sembrava che non fosse ben risolto il rapporto tra i ricordi delle vicende di cui ero stato testimone e protagonista e il giudizio storico sulla complessiva esperienza degli internati italiani e che la ricognizione, anche per ciò che riguardava i campi degli ufficiali, risultasse troppo limitata. All'ambizione, insomma, del giovane «normalista» che si era cimentato con gli studi storici, con la rivoluzione napoletana del '99 e Vincenzo Cuoco, con Cattaneo e Pisacane, con l'Illuminismo e Filippo Buonarroti, quell'intoppo del rifiuto dell'editore suonava come un richiamo severo, mi faceva apparire troppo povera cosa quella ricostruzione del cammino percorso nel sacrificio volontario e nel pericolo mortale della resistenza nei campi di prigionia. E forse temevo un poco anche il giudizio dei miei vecchi maestri, dei Russo, dei Cantimori e dei Calogero. Più tardi mi parve che l'esigenza politica, e culturale, che mi aveva mosso, fosse ormai superata.
Ora ho imparato la modestia e mi difendo più debolmente dalla suggestione dei ricordi. Posso così fare ammenda e consentire di pubblicare nella sua originaria versione quel mio lavoro, anche se continuo a essere ben consapevole dei suoi limiti, dei tanti giudizi datati, delle lacune e delle sviste. Ma il lasciare intatto quel testo mi è parso che potesse aggiungere un qualche ulteriore elemento di interesse, quale può essere la valutazione degli orientamenti, delle posizioni politiche e culturali, delle prospettive di quaranta anni fa, non tanto, ma anche in verità, per ciò che riguarda la mia persona, quanto per il campo, quello comunista e di sinistra, nel quale militavo. Mi hanno convinto i consigli e gli inviti di parecchi amici, che mi hanno sentito spesso in questi anni recenti rievocare quei fatti lontani e di qualcuno tra loro che ha anche letto le mie note; e soprattutto sono stato spinto dal dibattito e dalle battaglie che nel campo storiografico hanno stimolato e accompagnato il sommovimento politico che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo in questa prima parte degli anni novanta.
Sia chiaro: la tesi che nel 1954 io mi sforzavo di provare - che la prigionia nei lager tedeschi era parte integrante della resistenza antifascista - mi sembra oggi generalmente condivisa, e in questo lungo periodo abbiamo avuto una notevole fioritura di opere di memorialistica e di documentazione, e soprattutto c'è stato un importante sviluppo degli studi storici sulla grande e tragica vicenda della deportazione dei militari italiani in Germania. E tuttavia mi sono convinto che anche una conoscenza parziale, ma diretta e sofferta di grandi eventi come l'8 settembre, anche una parte piccola, ma intensa, quale anche a me toccò nella schiera dei più sensibili e preparati tra gli intellettuali, i capi militari, gli spiriti religiosi nell'azione di educazione alla democrazia e di costruzione di un rinnovato spirito patriottico, possono rendere valida e utile una testimonianza, sia pure parziale e tardiva: perché è bene, ed è necessario più che mai stimolare e mantenere viva la memoria.
Si dice che la fase storica, in cui si iscrivono i fatti di cui si racconta e discute in questo libro, si sia ormai conclusa o stia per concludersi, e non certo perché siamo al termine del secolo. Che sia finita un'epoca lo penso anch'io, anche se non è facile vedere quali vie vorremo e saremo in grado di percorrere nel futuro, sia pure quello prossimo, qui nel nostro Paese, in Europa e nel mondo. Che siano vie nuove si auspica da tante parti, e l'esigenza del cambiamento non può certo essere negata da parte di chi, come me, ha fatto a lungo professione ed esercizio di rivoluzionario!
Non mi colloco nella coorte, pur numerosa, dei catastrofisti, e nemmeno in quella dei pentiti di aver progettato delle società migliori. Ma certo abbiamo imparato, anche attraverso le dure lezioni dei fatti, che l'innovazione, la modernizzazione non rappresentano di per sé e sempre un incremento di civiltà e un avanzamento sociale e politico. E ancor più che può essere illusorio credere che per aprire prospettive nuove e migliori sia sufficiente rimuovere ed esorcizzare il passato, chiudere i capitoli più controversi, aspri e sanguinosi della nostra storia con qualche manipolazione o revisione, con qualche taglio di radici, che pareggi i conti, che giustifichi e assolva tutto e tutti. In verità per promuovere tempi e ordini nuovi, per far progredire le cose, come è necessario, occorre armarsi di una robusta e vigile coscienza critica del passato, certo nella sua interezza e complessità. Bisogna andare non nella direzione del riduzionismo, dell'appiattimento grigio e conciliatore, ma in quella della esplorazione e rivisitazione più approfondita, degli esami di coscienza veri, della conoscenza più chiara e a trecentosessanta gradi.
Così, per tornare al tema della deportazione e prigionia in Germania, a me pare sia stato e sia giusto e utile, per la storia del nostro Paese e dell'esercito italiano, che la ricerca e l'indagine investano i diversi campi e le diverse scelte, anche quella dell'adesione alla R.S.I. Nel primo terribile impatto con il lager, nell'inverno del 1943-44, i soldati italiani vissero, come in un microcosmo disperato e squallido, la stessa prova che l'intero Paese dovette affrontare e patire dopo l'8 settembre. Si decise nei campi di Polonia e di Germania attraverso tensioni, rotture, scontri nel freddo e nel buio, sotto l'incalzare delle lusinghe e delle minacce. E non mancarono, è noto, le adesioni alla R.S.I., per l'assillo umano del ritorno a casa, per la preferenza data all'azzardo dell'avventura di fronte al languire oscuro e miserevole nella detenzione, ma anche per la deliberata volontà di tornare a combattere a fianco dei tedeschi e con i fascisti. Non può esserci impaccio oggi a valutare, e a capire, le proporzioni e le motivazioni di queste scelte, ma bisogna anche riconoscere che esse non fanno assolutamente da contrappeso, non inficiano e non oscurano, ma semmai mettono in maggiore evidenza ed esaltano la decisione di chi volle e seppe resistere e di quanti promossero, organizzarono e tennero vivo il rifiuto. Il giudizio storico può solo farsi più preciso e netto: se nel dopoguerra il reinserimento nella vita civile di centinaia di migliaia di reduci non ha costituito un problema politico, se non si sono scavati solchi tra internati e partigiani, se un recupero dell'onore e della dignità nazionale, dell'identità e del sentimento patriottico è stato possibile e ampio, tutto ciò è avvenuto perché, in Italia e in Germania, tanta parte delle giovani generazioni ha avuto l'ardimento e la determinazione di combattere per la causa giusta, con le armi e con la non collaborazione, con la condanna e la ripulsa del nazismo e del fascismo. E non perché stavano per essere sconfitti nel conflitto mondiale, ma per le responsabilità nell'averlo scatenato e soprattutto per le ideologie della forza, della razza, della guerra di cui erano portatori.
Mantenere integra e salda questa persuasione a me sembra particolarmente importante oggi che il nostro Paese sta vivendo una difficile fase di transizione ed è impegnato a costruire con altre nazioni la nuova realtà politica dell'Europa. E' chiaro che per uscire dal disordine materiale e spirituale, dalla crisi politica e istituzionale, bisogna rinnovare la politica, le istituzioni, i partiti; bisogna promuovere una grande espansione e apertura della democrazia, un nuovo sviluppo economico e sociale, una riforma intellettuale e morale. L'impresa è ardua. Attenti, dunque, a non smarrire la bussola. Nuovi patti nazionali, ordinamenti, istituti, regole nuove possono reggere e valere se si richiama la Repubblica ai suoi principi costitutivi, a quel complesso di valori, di idealità, di esperienze comuni su cui si e fondata e ha vissuto in questo cinquantennio l'unità della nazione, e se si tiene fermo quel disegno e programma dello sviluppo storico dell'Italia che sono sanciti nella Costituzione. Il senso della pubblicazione della mia vecchia testimonianza vuol essere, dunque, anche questo: un segno di fiducia nella saldezza, nella vitalità e nella capacità di rinnovamento della democrazia italiana.

Ottobre 1996.

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