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L'altra resistenza

Intervenendo nel maggio del 1991 al convegno fiorentino su internati militari e prigionieri di guerra durante la seconda guerra mondiale (i cui materiali sono raccolti nel volume a cura di N. Labanca, "Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945)", Le Lettere, Firenze 1992: l'intervento di Natta è alle pagine 327-32) Alessandro Natta, non più esponente politico di primo piano, rivendicava con forza la memoria dell'esperienza dei soldati italiani nell'internamento nella Germania nazista dopo la deportazione che fece seguito all'armistizio dell'8 settembre del 1943 e al «tradimento» delle forze armate tra gli incunaboli della nuova democrazia italiana.
In quella sede Natta raccontò, se non erriamo per la prima volta, di avere scritto nel 1954 una riflessione-testimonianza su quell'esperienza come fatto non meramente personale ma che aveva coinvolto, si può ben dirlo, una generazione di soldati e ufficiali del regio esercito catapultata nella guerra fascista. Accennò anche alla circostanza che la casa editrice del suo partito, il Partito comunista italiano, non ritenne allora, a dieci anni dalla Liberazione, di dover pubblicare il libro. Confessiamo che le ragioni eventuali di quella reticenza, se motivi di opportunità intervennero e non, come lo stesso Natta suggerisce, una valutazione critica specifica del suo testo, ci sfuggono. E siamo con Natta perfettamente d'accordo che quel libro andava pubblicato. Esce ora con ritardo nel testo che qui si presenta: un ritardo vorremmo dire felice, almeno per due ragioni. Anzitutto, per la forza e per la chiarezza con la quale, in un momento di grande disorientamento politico e culturale in cui, anche da parte non sospetta, la voglia di dimenticare o quanto meno di attenuare i momenti conflittuali più ingombranti della nostra storia sembra prevalere sulla preoccupazione di preservare la memoria evitando equivoche confusioni. In secondo luogo, perché questo intervento cade mentre non sono ancora spenti gli echi del confuso dibattito sull'8 settembre del 1943, nel quale storici incauti o anche troppo consapevoli del veleno che intendevano spargere hanno voluto identificare l'atto di morte della patria.
Diciamo subito che, nonostante i quattro decenni abbondanti che sono passati dalla stesura di quel testo, esso nulla ha perso in freschezza, lucidità, incisività. Si notano appena talune risonanze dell'epoca in cui avvenne la sua redazione: l'accenno, a p. 124, alla presenza nel parlamento repubblicano di esponenti della neofascista Repubblica sociale non può non riferirsi, tra gli altri, all'ex ambasciatore della R.S.I. a Berlino, Filippo Anfuso, che aveva avuto una parte di primo piano nel tentativo di acquisire l'adesione dei militari deportati in Germania al lavoro «volontario» per la guerra nazista o alla repubblica di Salò e al nuovo esercito destinato a riportare soldati italiani sul fronte di combattimento alle dipendenze della Germania.
Né la reviviscenza recente di studi e memorie, come la ristampa di altre testimonianze della prigionia (quali quelle di Luigi Collo o di Giampiero Carocci) o la pubblicazione del diario di Giovanni Ansaldo o del toccante racconto documentario costruito da Christoph Schminck-Gustavus sulle vicende di Attilio, ex internato in Germania ("L'attesa. Cronaca di una prigionia al tempo dei lager", prefazione di Vittorio Emanuele Giuntella, Editori Riuniti, Roma 1989), ha minimamente scalfito la singolarità del testo di Natta, che conserva un suo timbro del tutto particolare rispetto alla maggior parte dei libri che trattano della deportazione e dell'internamento dei militari, le cui caratteristiche, comprese le ragioni della tardiva attenzione che è stata posta al problema che qui ci interessa, sono bene illustrate in un'ampia rassegna critica di Giorgio Rochat (ora ripresa nel volume dello stesso autore "L'esercito italiano in pace e in guerra. Studi di storia militare", R.A.R.A., Milano 1991, cap. 15).
Laddove la stragrande maggioranza dei memorialisti tende per ovvie ragioni a descrivere l'odissea della cattura e del passaggio degli internati da un campo all'altro, le condizioni materiali al limite della disperazione e le umiliazioni anche morali cui erano sottoposti i nostri internati, il libro di Natta si colloca in questa letteratura per la consapevolezza con la quale ne propone una lettura in parte diversa: il campo di concentramento non è per Natta soltanto il luogo della battaglia per la dignità del soldato italiano, per la salvaguardia della sua identità umana prima ancora che morale, è una vera e propria «scuola di democrazia». E' il peso che hanno nel suo racconto la rielaborazione dell'esperienza fascista e il dibattito che nell'internamento si svolse sulle prospettive di rinnovamento della società italiana che fa di questa testimonianza qualcosa di sostanzialmente nuovo nel contesto di esperienze analoghe, ma vissute più sul filo della dimensione esistenziale che con attenzione al processo di maturazione politica di cui esso dà conto.
Vero è che il caso di Natta era una eccezione: laureatosi nel 1940 alla Scuola Normale di Pisa andò in guerra che era già approdato all'antifascismo militante (confer la testimonianza da lui stesso resa a cura di Mariella Del Lungo: "Da Imperia alla normale di Pisa. Un percorso antifascista", in «Storia e memoria», IV, 1, primo semestre 1995, pagine 113-37), un'esperienza certo non generalizzabile che pone sicuramente limiti alla tendenza dello stesso Natta di attribuirla a una cerchia più larga di quanto in realtà non dovette essere.
Prima di entrare più direttamente nel merito del libro di Natta, credo che per i lettori più giovani siano necessarie un paio di precisazioni preliminari. Questo libro parla di deportazione, campi di concentramento, di internamento, ma lo stesso Natta spiega molto bene con quali limiti e con quali caratteristiche la vicenda dei militari italiani si collochi all'interno dell'universo concentrazionario. Soprattutto per coloro ai quali il Terzo Reich non riconobbe l'applicazione della convenzione di Ginevra nei confronti dei prigionieri di guerra, in primo luogo i soldati dell'Armata Rossa e successivamente gli italiani catturati dopo l'8 settembre, l'esperienza della prigionia presentava aspetti che la rendevano più simile a quella dei campi di concentramento (non dei campi di sterminio in senso stretto), in cui il regime nazista relegava avversari politici e razziali o lavoratori forzati, che ai normali campi di prigionia.
Accadde anche talvolta, soprattutto alla vigilia del collasso del Terzo Reich, che i campi per prigionieri fossero allestiti in contiguità di strutture concentrazionarie già esistenti e che alla fine le diverse categorie dei deportati e degli internati si confondessero. Ciò non annulla tuttavia la considerazione di Natta sui livelli di differenziazione nella gerarchia concentrazionaria e sulla specificità della prigionia degli italiani: «non differenza nella sostanza ma solo nel grado di intensità della persecuzione» (p. 137).
La seconda avvertenza riguarda la motivazione della dizione «internati militari» che fu adottata dai tedeschi per i soldati italiani da essi catturati, prefigurando quella condizione che Natta definisce efficacemente «una via di mezzo tra il prigioniero di guerra e il perseguitato politico». Dato il particolare spirito di vendetta che animò i tedeschi nei confronti degli italiani dopo l'armistizio del settembre del 1943, per esplicita volontà di Hitler la parte tedesca doveva riservarsi ogni discrezionalità nel trattamento da adottare nei confronti dei prigionieri italiani e non vincolarsi pertanto alle regole delle convenzioni internazionali. E' noto fra l'altro che la parte tedesca vide nella cattura di una massa così ingente di soldati italiani la possibilità di avviare al lavoro, più o meno coatto, per lo sforzo bellico del Reich un grosso e quasi insperato contingente di lavoratori, destinato a rimpiazzare i vuoti sul mercato del lavoro lasciati dalla manodopera dei tedeschi sempre più inesorabilmente assorbiti dal servizio militare sui fronti di combattimento. A ciò si aggiungono sicuramente motivi di opportunità e, per così dire, di riguardo nei confronti di Mussolini che certo non avrebbe gradito, nel momento in cui si voleva fare rivivere sotto le spoglie di Salò la finzione della continuità dell'alleanza italo-tedesca, che si sottolineasse la presenza nell'alleata Germania di un così rilevante numero di prigionieri italiani. Per non ricordare il fatto che il mancato rientro in Italia della stragrande maggioranza di quei prigionieri, come racconta appunto Natta, rappresentò uno dei momenti di maggior discredito di cui ebbe a soffrire la R.S.I. Una storia la cui puntuale e complessiva ricostruzione, per quanto possibile allo stadio attuale della documentazione, dobbiamo principalmente all'opera eccellente di uno storico militare tedesco, Gerhard Schreiber, accessibile fortunatamente anche in una edizione italiana ("I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945. Traditi, disprezzati, dimenticati", Stato Maggiore dell'esercito. Ufficio storico, Roma 1992). Lo stesso Schreiber è tornato ora a richiamare brevemente questa vicenda nel recentissimo libro sui crimini di guerra tedeschi in Italia ("Deutsche Kriegsverbrechen in Italien. Täter, Opfer, Strafverfolgung", C. H. Beck, München 1996).
Basta comunque il dato della particolare dizione adottata per i prigionieri italiani per segnalare, al di là delle considerazioni più generali sul contesto dell'universo concentrazionario, la profonda differenza che corre tra le vicende della prigionia nel primo conflitto mondiale (studiate per la parte italiana nel bel libro recente di Giovanna Procacci, "Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra", Editori Riuniti, Roma 1993) e quelle della prigionia nel secondo conflitto, in cui nel quadro della guerra totale il confine tra la prigionia in senso tradizionale e la deportazione come premessa dell'annientamento fisico del nemico, vero o presunto, divenne sempre più labile e arbitrario.
Accennavo già prima al rilievo che nello scritto di Natta assume la valutazione dell'8 settembre. E' più che evidente che in esso si esprime una consapevolezza indissociabile dal percorso personale e dalla maturazione dell'Autore, anche se poi finisce per assumere una valenza più generale ma, ripeto, non generalizzabile. Se Natta può scrivere di avere scelto volontariamente la deportazione, per la maggior parte dei compagni di prigionia la decisione di non scegliere la R.S.I. una volta deportati fu una decisione sofferta e maturata lentamente nel corso dei primi mesi successivi all'armistizio, come reazione, frutto in primo luogo della constatazione del trattamento che veniva loro riservato dagli ex alleati; in secondo luogo, della riflessione complessiva cui l'analisi degli accadimenti dell'8 settembre aveva aperto la strada. L'8 settembre infatti non si era ancora posta l'alternativa: restare nei campi di internamento o aderire alla R.S.I.; una simile alternativa si presentò più tardi. L'8 settembre l'alternativa era: resistere o andare a casa, restare sulla breccia o fuggire. Ma anche in questi termini, diverse erano le possibilità di scelta per i militari dislocati nella penisola e in territori occupati dalle nostre truppe nell'area del continente europeo da quelle dei militari di stanza nelle isole dell'Egeo o dello Jonio, come nel caso di Natta, in cui la scelta era ulteriormente semplificata perché si riduceva all'alternativa tra la resistenza subito e la prigionia immediata, non essendovi un retroterra che potesse consentire di sottrarsi alla vendetta tedesca.
I fautori della «resistenza immediata e intransigente» di cui parla Natta furono meno di quanto non risulta dalla sua stessa narrazione, erano appunto la «parte politicamente più matura», quella che non aveva accolto la caduta del fascismo il 25 luglio semplicemente come speranza che avesse a cessare la guerra, ma anche come espressione del crollo della dittatura e degli sviluppi drammatici che a esso non potevano non seguire, con il prevedibile scontro con i tedeschi per imporre l'uscita del Paese dall'avventura bellica. Il valore documentario del libro di Natta tocca uno dei suoi punti più alti proprio nella rappresentazione del disorientamento dal quale fu presa la massa dei soldati e degli ufficiali abbandonati a se stessi o frastornati dall'insipienza, dalla arroganza o dalla passività di comandi e ufficiali superiori assolutamente inconsapevoli di quali potessero essere le implicazioni del colpo di stato del 25 luglio e immotivatamente fiduciosi nella lealtà dell'alleato tedesco. Dove si esprimeva più l'atteggiamento del tirare a campare che una analisi previsionale in qualche modo fondata.
Un atteggiamento che faceva parte di quella crisi dell'esercito, che altro non era che un frammento della più generale crisi di una classe dirigente, che all'impreparazione tecnica univa l'incapacità di prevedere la svolta degli sviluppi politici e che comunque si sentiva per spirito classista pur sempre troppo lontana dal popolo dei gregari per poterne interpretare tempestivamente stati d'animo, aspirazioni, aspettative. La crisi dell'esercito si inseriva nella crisi di un sistema, l'attendismo dei comandanti non rispecchiava soltanto l'assenza di direttive dal vertice, era anche il risultato di una cultura della deresponsabilizzazione, della stanchezza, della rassegnazione.
Lo spirito antitedesco che Natta riscontra nei soldati, e che non era solo frutto di ataviche inimicizie ma risultato dei rapporti che si erano instaurati in una alleanza tipicamente ineguale, non poteva convertirsi immediatamente in uno strumento di lotta né di difesa per l'impreparazione anche politica dei comandi. La disposizione grottesca «resistere senza sparare», che egli cita a proposito della mancata difesa di Rodi, è l'indice più sensibile della lontananza dalla realtà e dell'abdicazione dalle responsabilità di un ceto militare non all'altezza della situazione. Quanti drammi individuali nel dramma generale della catastrofe dell'8 settembre. Giustizia vuole che si dica che l'ammiraglio Campioni, citato da Natta tra i protagonisti di tanti errori, è lo stesso che, fatto prigioniero dai tedeschi fu consegnato insieme all'ammiraglio Mascherpa alla repubblica di Salò, che li condannò a morte per avere resistito all'ordine di resa intimato dai tedeschi e li fece fucilare a titolo esemplare il 24 maggio 1944. Un atto con il quale la R.S.I. riscattò in qualche modo inconsapevolmente gli stessi limiti di comportamento attribuibili alla più parte dei comandanti superiori.
Ne esce fuori una testimonianza, un'ulteriore testimonianza se mai ve ne fosse bisogno, quanto mai efficace dell'8 settembre come momento di crisi e di sbandamento dell'intero apparato militare e statale. Crisi politica, crisi organizzativa e crisi morale: la prigionia in ultima analisi si può definire soprattutto il luogo di elaborazione della crisi morale del paese secondo la testimonianza di Natta.
Sottratto alle secche di interpretazioni psicologistiche, il dramma dell'8 settembre e il dramma di un Paese senza guida che si interroga sulla strada da scegliere, per il quale la semplice uscita dal conflitto dalla parte della Germania poteva risolvere momentaneamente un problema di schieramento, non risolveva i problemi legati alle prospettive di rinnovamento della società italiana. All'interno di coloro che rifiutarono la continuazione della guerra al fianco dei tedeschi prevalevano le motivazioni e le opzioni più diverse, le stesse che del resto resero complessa la discussione e l'opera di omogeneizzazione intorno a piattaforme minime di consenso, sia l'aggregazione nella resistenza sia la solidarietà nella prigionia. Segno che lo stato d'animo antitedesco, di cui Natta dà testimonianza, se rifletteva la condizione della guerra vissuta nel complesso e nella realtà dell'inferiorità rispetto al più potente alleato, non poteva di per sé rappresentare una motivazione sufficiente per un comportamento propositivo e in positivo in una prospettiva futura.
Nel ricordo, anzi, quello stato d'animo rifletteva anche esperienze più attuali, che ne incoraggiavano inconsciamente l'enfatizzazione: penso che negli stessi mesi in cui Natta stendeva il suo libro tra memoria personale e riflessione storica era in corso in tutta Europa l'aspro scontro politico e d'opinione sul riarmo della Germania, in cui la risonanza della non lontana occupazione - si era in fondo a dieci anni soltanto dalla fine della guerra e dell'incubo di invasioni e di oppressioni sia pure mascherate dall'immagine di un Nuovo Ordine così spaventosamente poco promettente - fungeva nell'immaginario e nei comportamenti collettivi di intere popolazioni da freno e rigetto di ogni ipotesi di una nuova guerra in generale e in particolare di una rivalutazione militare di una Germania, seppure divisa, della quale il ricordo come potenza dominante sul continente non era ancora impallidito, anzi continuava o tornava a fare paura. Ciò che non ha a che fare soltanto con la percezione che ne avvertivano i popoli ma direttamente con quello che i popoli avevano sofferto e provato.
Il testo di Natta non è il primo dei libri di memoria della prigionia in Germania che parli dell'attività culturale ed educativa tra gli internati. Ma è certo il primo che ne parli con la rilevanza e con la convinzione che ritroviamo nel suo libro. Sull'attività in prima persona di Natta nell'impegno culturale nei campi di prigionia avevamo già le notizie riferite da qualche compagno d'internamento (si veda fra l'altro la testimonianza di Carmelo Cappuccio nel volume a cura dell'Associazione Nazionale ex Internati, "Resistenza senz'armi. Un capitolo di storia italiana (1943-1945) dalle testimonianze di militari toscani internati nei Lager nazisti", prefazione di Leonetto Amadei, Le Monnier, Firenze 1984, pagine 187-93).
Nel suo racconto "Il campo degli ufficiali", anch'esso ristampato da poco, Giampiero Carocci ricorda l'avidità con la quale divorava le disordinate letture nelle quali gli occorreva di imbattersi nel campo: «erano le mie armi per aggrapparmi alla vita». Una definizione che si può estendere a qualsiasi attività intellettuale, di lettura, di scrittura, di grafica, di meditazione, di preghiera, venisse esercitata nelle condizioni della cattività e della deportazione. Ma nella testimonianza di Natta c'è qualcosa di più che non riguarda soltanto l'attività intellettuale come parte costitutiva della lotta per l'esistenza che ciascuno dei deportati combatteva, prima ancora che per se, dentro di sé. In Natta, al di là delle difese istintive cui chiunque attingeva per sopravvivere, si può leggere un percorso meditato intenzionale dall'istintivo e ancora indistinto sentimento antitedesco alla maturazione verso l'antifascismo e una ragionata scelta di campo destinata ad assimilare l'esperienza degli internati militari a quella di ogni altro gruppo della resistenza, con una valenza anche più dichiaratamente extranazionale che derivava dall'incontro con i prigionieri di altre parti d'Europa, che diede loro il senso e l'orgoglio di ritrovarsi «uomini in mezzo ad altri uomini», superando l'iniziale dicotomia «uomini e tedeschi».
Di qui il significato dell'attività culturale come consapevole espressione di lotta contro il fascismo, come forma di riflessione sui caratteri che aveva assunto la dittatura e sulle sue responsabilità nella catastrofe, ma anche come valutazione storica dei caratteri del Risorgimento e dell'Italia prefascista e insieme come prefigurazione del nuovo ruolo che avrebbe assunto la democrazia dopo il fascismo e rifiuto dell'ipotesi di una restaurazione prefascista. Ne risulta esaltata la funzione aggregatrice dell'attività culturale, che finiva per assumere un significato inestimabile anche dal punto di vista della sopravvivenza individuale («Il mondo del lager non conosceva pietà per chi restava solo»), indipendentemente dalla motivazione in più che forniva al rifiuto di lavorare per i tedeschi o di collaborare e aderire alla repubblica di Salò, nei cui esponenti si individuavano i veri, autentici antagonisti, «più nemici dei tedeschi».
Certo, sarebbe interessante saperne anche di più, conoscere meglio i canali attraverso cui gli internati venivano a conoscere gli sviluppi degli eventi bellici, che non potevano non influire nel consolidare la determinazione di resistere, e che non a caso costrinse i tedeschi a dare la caccia spietata alle rudimentali attrezzature radio clandestine che i deportati usavano per mantenere il contatto con il mondo esterno. Anche le preziose informazioni che Natta fornisce sulla circolazione di libri arrivati fortunosamente nei campi di internamento negli zaini dei prigionieri, consentendo nell'ozio forzato il recupero di letture, concorrono a completare il quadro dello sforzo compiuto per incanalare le energie verso un'opera di chiarificazione e di autochiarificazione politica. Di quest'opera, la polemica e la demistificazione del fascismo di Salò appare una parte relativamente secondaria, non la più importante: la contrapposizione netta contro la R.S.I. e la sua fin troppo evidente subalternità ai tedeschi erano un antidoto tanto istintivo quanto totale per chi aveva compiuto la scelta del rifiuto. Era più importante chiarire il rapporto con la storia dell'Italia prefascista, rivisitare responsabilità di gruppi sociali e culturali. L'attenzione ai comportamenti della Chiesa cattolica o di altre minoranze religiose nel «laico» Natta era un segno dell'apertura problematica, ma anche della consapevolezza della complessità della storia e della società italiana con la quale si sarebbero dovuti fare i conti in un futuro non lontano. Il rispetto per le manifestazioni della fede era parte integrante di una formazione culturale, ma anche connotato essenziale dell'educazione alla libertà di cui si andavano facendo le prove nella deportazione.
Non può non colpire proprio oggi, in mezzo a tanto parlare di oscuramento dei valori nazionali, la constatazione di quanto lo sforzo per il recupero e la formazione di una identità antifascista e democratica fosse tutt'uno ai fini dell'acquisizione di una identità nazionale, come sforzo di aggregazione di una comunità nazionale su valori comuni estranei ed opposti a quelli che il fascismo aveva voluto imporre, rischiando anche di renderci estranei ad una Europa che non fosse mero terreno di conquista e di colonizzazione da parte delle potenze dell'Asse. Credo che vi sia maggiore consapevolezza di ciò che significhi senso di coesione nazionale nelle pagine così antiretoriche e antieroicistiche di Natta che nelle esercitazioni teorizzanti di frettolosi pubblicisti alla moda. Del resto, senza la ferita dell'orgoglio nazionale calpestato, il no degli internati militari, non di tutti ma certo della stragrande maggioranza tra di essi, non sarebbe comprensibile. Questo senza volere minimamente disconoscere che il numero di coloro che collaborarono con i tedeschi o aderirono alla R.S.I., per quanto minoritario non fu comunque irrisorio. Le cifre più attendibili delle adesioni alla R.S.I., questione allo stato attuale ancora controversa dal punto di vista documentario, si trovano negli studi citati di Gerhard Schreiber.
Testimonianza della prigionia, il testo di Natta costituisce anche un documento della ricezione di quella esperienza nella coscienza storica e politica del dopoguerra, se è vero che a un decennio dalla liberazione permanevano difficoltà a recepirla interamente, con le sue specificità, nel contesto della Resistenza, e non solo di quella italiana, alla quale idealmente e politicamente si erano collegati gli internati militari. Ha ragione Natta nel sottolineare il processo di maturazione che aveva portato i militari italiani prigionieri a solidarizzare nell'autunno del 1944, nel campo di Sandbostel, con i superstiti della sfortunata insurrezione di Varsavia che era stata appena schiacciata dalla Wehrmacht.
Non vi è nulla del corporativismo dei reduci nella forte rivendicazione della partecipazione alla Resistenza che è alla base stessa del racconto di Natta. Egli, che già nella prigionia si era posto il problema di evitare la riduzione e la degenerazione reducistica dell'esperienza dell'internamento, poteva a buon diritto rivendicare il contributo dato da chi aveva vissuto la prigionia in Germania alla formazione di una nuova coscienza democratica, anche se non si può presumere che questo processo di maturazione avesse coinvolto tutta la massa dei prigionieri: quanti di essi rimasero nei campi per mera fedeltà al re o per mero spirito antitedesco?
Come accadde per le altre categorie di deportati, da quelli razziali a quelli politici, la cui sofferenza e i cui traumi rimasero a lungo avvolti nell'incomprensione o nel silenzio degli stessi protagonisti per il timore di non essere ascoltati o di essere fraintesi (come è stato di recente rievocato da Anna Bravo e da Daniele Jalla nella bella introduzione alla bibliografia della memorialistica della deportazione), anche le vicende degli internati militari non ebbero nel dopoguerra il riconoscimento né la notorietà che il loro comportamento avrebbe meritato. Eppure si deve in misura sostanziale all'esempio e al comportamento della massa degli ex internati se i reduci della seconda guerra mondiale non hanno rappresentato nel nostro dopoguerra un fattore di freno nel processo di affermazione della democrazia, ma al contrario una componente di sostegno contro ogni nostalgia filofascista, sebbene è presumibile che molti, soprattutto fra gli ufficiali rientrati in patria, conservassero sentimenti di lealtà verso la monarchia. Il rifiuto di aderire alla R.S.I. aveva rappresentato per tutti il distacco definitivo dal fascismo. Più complesso sarebbe evidentemente analizzare come si distribuissero le preferenze e gli orientamenti politici degli ex internati.
Le vicende del dopoguerra dimostrano anche, come è stato incessantemente ricordato da Vittorio Emanuele Giuntella, la negligenza con la quale il potere politico, animato probabilmente dalla pervicace volontà non di chiudere i conti con il passato ma di non aprirli neppure, nell'illusorio miraggio di pacificare gli animi con il silenzio, si disinteressò della sorte di uomini che, traditi e abbandonati a se stessi dai vertici politici e militari, avevano tenuto fede all'imperativo di non fare causa comune con i tedeschi e con i repubblichini. Appare singolare la determinazione con la quale precocemente, sin dai mesi della prigionia, i più consapevoli tra gli internati si prospettarono il rifiuto di ogni rivendicazione reducistica e al tempo stesso la salvaguardia della memoria dell'esperienza della quale erano protagonisti. Conoscere e far conoscere questa esperienza significa di per se stesso aprire un pagina per molti versi ancora bianca della storia della nostra ricostruzione dopo il fascismo. Un'altra pagina recuperata tardivamente ma finalmente, vogliamo sperare, consegnata alla memoria delle nuove generazioni.
ENZO COLLOTTI

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