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Politici e amnistia

DAL PRIMO DOPOGUERRA ALL'«AMNISTIA DEL VENTENNALE»

di Floriana Colao.



[Questo capitolo riproduce, fatta eccezione per una breve aggiunta finale, l'articolo apparso in «Studi Senesi» 1982, 1, p. 63 segg. con il titolo «La ricostruzione dogmatica del reato politico attraverso le amnistie (1919-1932)»].





- Il ricorso alla clemenza nel dopoguerra.



1. Il ricorso alla clemenza costituisce l'intervento normativo che più risente delle vicende politiche e degli orientamenti del governo, dal momento che l'emanazione dei decreti di amnistia consente una attuazione rapida delle direttive di politica criminale perseguita dall'esecutivo. La concessione del beneficio ai delitti politici sembra proprio motivata dal fatto che il ricorso alla clemenza in questa materia è uno strumento più immediato e incisivo della normativa ordinaria. Il codice consente infatti un adeguamento più problematico e meno immediato della materia penale a determinati delitti originati dalla situazione politica e sociale, per la lentezza con la quale la legislazione ordinaria configura illegalità in parte originali rispetto agli schemi trasmessi dal codice Zanardelli.

Oltre a consentire un immediato intervento del potere politico nei confronti dei delitti originati dalla dinamica sociale, l'emanazione dei decreti di amnistia contribuisce a configurare il profilo dogmatico di queste condotte, ma soprattutto svolge un'importante funzione pratica condizionando l'attività giurisdizionale relativa ai delitti politici e sociali.

Per queste considerazioni si spiega il frequente ricorso alla clemenza da parte del potere politico fin dai primi anni dello stato unitario. Infatti immediatamente dopo l'unità alcuni decreti di amnistia concedono il beneficio a delitti commessi in occasione di tensioni sociali, tentando di definire il profilo dogmatico di questi reati con riferimenti generici come i «fatti di Torino». Già nel 1865 il R.D. 26.2 n. 2160 fa esplicita menzione del proprio oggetto come di «delitti politici», in riferimento ai delitti contro la sicurezza dello stato e alle relative condotte istigatorie (1).

In seguito, lo sviluppo dei conflitti sociali provoca il ricorso all'emanazione di provvedimenti di amnistia proprio all'indomani di questi periodi; con l'estendersi dei contrasti economici nei primi anni del novecento il ricorso alla clemenza assume in modo particolare i connotati di strumento di politica penale. Le amnistie sono infatti il mezzo del governo per ricercare le basi della stabilizzazione politica non tanto tramite la repressione dei conflitti economici e sociali, quanto piuttosto vanificando l'efficacia della legge penale positiva. E' esemplare di questa tendenza il decreto di amnistia emanato nel 1905 che ha per oggetto una serie molto ampia di reati connessi allo sciopero generale dell'anno precedente (2).

Il fenomeno accennato diventa più vistoso nel primo dopoguerra, quando il tentativo di ricomposizione sociale attraverso l'uso della clemenza in materia penale si concretizza particolarmente nelle «amnistie della pacificazione», nelle quali appare chiaramente la volontà del legislatore di non limitarsi a metodi esclusivamente repressivi nei confronti delle condotte criminose tipicamente connesse all'eccezionalità della situazione sociale all'indomani della fine del conflitto.

In questo periodo l'accresciuta ingerenza dell'esecutivo nel complesso della vita economica e sociale comporta anche una frequente emanazione di decreti di amnistia per reati militari o commessi da militari, per reati annonari, e per reati politici. Relativamente a questi ultimi, l'art. 5 del R.D. 21.2.1919 concede il beneficio ai reati commessi in dimostrazioni pubbliche o tumulti determinati da cause politiche o economiche (3); analogamente l'art. 3 del successivo R.D. 2.9.1919 n. 1501 si riferisce ai reati commessi in occasione di moti popolari (4).

Sul piano tecnico del contenuto normativo di questi decreti si nota che il legislatore prende in esame le cause generatrici dell'ambiente del commesso reato, riferendosi all'«occasione di moti popolari, pubbliche dimostrazioni o tumulti determinati da cause politiche ed economiche» (5).

L'attenzione per le cause generatrici del reato, prese in considerazione ai fini della qualificazione della politicità della condotta, rappresenta un avvicinamento del legislatore ai motivi soggettivi dell'agente come criterio selettivo dei reati. Nei decreti di amnistia la definizione di reato politico non si ricava dall'ubicazione del fatto nei titoli del codice penale o dal riferimento al bene giuridico leso, mentre acquistano un particolare valore le cause sociali del reato, da tempo oggetto di attenzione nella penalistica positivista. In questo senso i decreti di amnistia sembrano accogliere diversi principi teorici caratteristici di questo indirizzo scientifico, e, più in generale, la materia penale risente dell'impostazione tipica della « scuola positiva» che valorizza in modo particolare l'aspetto soggettivo del reato. E' infatti incentrato su questo principio il lavoro della commissione composta di autorevoli esponenti dell'indirizzo positivista nominata dal guardasigilli Mortara per attendere alla riforma delle strutture penali. Significativamente nello stesso anno in cui è insediata la commissione presieduta da Ferri (6), vengono emanati anche decreti di amnistia, che in riferimento ai delitti politici rappresentano un momento importante e significativo del generale orientamento della legislazione e della scienza penalistica verso l'aspetto soggettivo dell'antigiuridicità. In questo contesto il ricorso alla clemenza in materia penale sembra suggerire all'interprete il criterio valutativo di riconoscere un particolare rilievo alle cause sociali del reato nei riguardi dell'intera legislazione.

Alle necessità di politica criminale di chiudere varie fasi di tensioni sembra aggiungersi la ricerca da parte del legislatore di un generale aggiornamento delle strutture tradizionali del di ritto penale. In questo senso i decreti di amnistia emanati immediatamente dopo la fine del conflitto più che rappresentare la sospensione dell'efficacia della legge penale vigente, sembrano costituire una forma tutta particolare di politica penale, anticipando i contenuti di una legislazione incentrata sulla valorizzazione dei criteri soggettivi del reato in generale, e dei criteri sociali del reato politico in particolare (7).

Il frequente ricorso all'uso della clemenza da parte dell'esecutivo è motivato anche dal vistoso aumento di reati annonari, di violazione al calmiere da parte di negozianti, di condotte criminose che comunque trovano origine nell'eccezionalità della situazione sociale (8). Ma la volontà di rendere più agile il corso della giustizia nel dopoguerra riducendo l'elevato numero di procedimenti penali attraverso le declaratorie di amnistia, è frustrata dall'aumento della litigiosità che si verifica nel periodo in cui si suppone imminente la concessione del beneficio (9). Si registra in questo senso il fenomeno del rilevante aumento di decreti di amnistia emanati dall'esecutivo e la opposta tendenza della magistratura a circoscrivere la sfera di applicazione del beneficio in concreto.

Analoga situazione si verifica nel dopoguerra in Francia: in media viene promulgato un testo di amnistia ogni due anni, al punto che se ne contano dodici tra il 1919 ed il 1937 (10). Per generale ammissione (11) l'emanazione dei provvedimenti è spesso successiva alla commissione di « infractions politiques». Dopo le amnistie emanate nel 1919 «a carattere personale, a vantaggio degli eroi e delle vittime di guerra» (12), altri decreti si riferiscono ai fattori politici e sociali, assunti come criteri selettivi della politicità del reato anche nella legislazione italiana (13). In particolare la Legge 29.4.1921 concede il beneficio ai reati in materia di riunione, elezioni, scioperi, manifestazioni sulle pubbliche vie, e ai reati previsti dalla legge sulla stampa (14). In seguito la Legge 3.1.1925 fa esplicita menzione del "nomen iuris" «delitti di diritto comune e delitti politici» (15), estendendo il beneficio a tutte le infrazioni politiche. Dai lavori preparatori di questa legge risulta che il senato aveva proposto il termine «delitti», per escludere dalla sfera di applicazione della legge i «crimini» politici, distinti per maggiore gravità dai delitti nella tripartizione del codice penale francese (16). Sembra invece prevalere la volontà di estendere il benefizio a tutte le infrazioni politiche a prescindere dalla loro gravità oggettiva.

Dal canto suo la dottrina sembra opporsi alla frequente emanazione dei provvedimenti da parte del potere politico. In particolare si critica l'alterazione dei caratteri dell'amnistia classica (cioè concessa in relazione a reati considerati oggettivamente), causata dall'ampio ricorso del legislatore a provvedimenti che tengono conto prevalentemente del motivo soggettivo dell'agente (17), analogamente ai decreti di amnistia emanati in Italia.

Per quanto riguarda l'atteggiamento della magistratura nella concreta applicazione dei benefici, è generalmente (18) riconosciuto il rigore della giurisprudenza francese proprio in contrapposizione al ricorso frequente alle leggi di amnistia da parte del potere politico dopo periodi particolari di tensioni o disordini. La volontà della magistratura di vanificare gli effetti della clemenza risalta particolarmente in una sentenza della Cassazione che esclude dall'applicazione del beneficio i condannati alla pena della relegazione (19). Quest'ultima pena, ai sensi della Legge 27.5.1885, non poteva avere per oggetto i delitti politici, per i quali la legislazione prevedeva una «scala di pene» distinta dai delitti comuni. In seguito, con le leggi antianarchiche del 1894 (20), veniva stabilita la pena della relegazione anche al delitto politico rappresentato dalle «menées anarchistes».

L'analoga volontà di non consentire un'eccessiva estensione della clemenza è alla base di una sentenza della Cassazione che esclude dall'applicazione del beneficio i condannati a misura di sicurezza. Questa decisione degli anni venti, e i motivi di «défense sociale» che ispirano la negazione del beneficio concesso dalla legge di amnistia, sono ancor oggi richiamati dalle sentenze della Cassazione francese in materia (21).

Numerose leggi di amnistia aventi per oggetto delitti collegati a momenti di grande tensione politica e sociale si susseguono nell'immediato dopoguerra anche in Germania. In questo contesto il particolare cambiamento del quadro politico sembra provocare la sospensione dell'efficacia punitiva di numerose disposizioni penali riguardanti i reati di stato (22).

Durante la repubblica di Weimar si contano circa venticinque provvedimenti di amnistia, ai quali si aggiungono un «numero imprecisabile» (23) di grazie, generalizzate al punto tale da sollevare dubbi di legittimità (24). In molti provvedimenti di amnistia è esplicito il richiamo ai «motivi politici», e risalta chiaramente il ricorso alla clemenza per fini di pacificazione tra i gruppi politici. In questo senso il contenuto dei benefici spesso rispecchia il risultato di un patteggiamento tra i partiti al fine di sottrarre alla espiazione della pena elettori imputati e condannati per delitti politici, come sottolinea il ministro della giustizia Radbruch a proposito della legge di amnistia 21.7.1922 (25).Analogamente all'Italia, il frequente ricorso alla clemenza da parte dei ministeri tedeschi esprime l'esigenza di una riforma penale. In questo senso le amnistie della repubblica di Weimar influenzano il diritto penale politico, non solo perché ne vanificano l'efficacia punitiva. La legge 25.8.1925 rivela in modo esemplare la tendenza delle leggi di amnistia ad anticipare i contenuti del diritto penale, quando la legislazione vigente non si presta ad esaurire la complessità e novità delle condotte delittuose da punire. Questa legge prende per la prima volta in considerazione l'ipotesi di «Landesverrat» - genericamente traducibile come tradimento della nazione commesso col mezzo della stampa - prescrivendone l'amnistia se si è in presenza di un fine politico. Successivamente altre leggi di amnistia accentuano la caratterizzazione del «Landesverrat» ed escludono l'applicabilità del beneficio se il fatto è commesso per fini personali (26).

Analogamente la legge di amnistia 4.6.1932 configura per la prima volta il «Sesetzungshochverrat» - sovversione tendente a colpire l'esercito o la polizia nel compimento del dovere - distinta dall'ipotesi di « Hochverrat» punita dal codice penale del 1870. L'incertezza di questa formulazione di generica condotta sovversiva o di attentato (27), è un esempio dell'impiego da parte del potere politico di una disposizione normativa per conseguire l'incriminazione di fattispecie difficilmente traducibili in previsioni giuridiche per l'indeterminatezza dell'oggetto, ma comunque ritenute pericolose da un punto di vista sintomatico (28).

Ancora una volta al numero elevato di leggi di amnistia corrisponde il rigore della magistratura (29), al punto che taluni (30) giustificano l'ampio ricorso alla clemenza da parte dei ministeri di Weimar proprio come un tentativo esplicito di vanificare la drastica repressione delle forze politiche di sinistra operata dalle corti di giustizia in Germania. L'attività giurisdizionale della repubblica di Weimar sembra caratterizzata dal fenomeno dei giudici che sfuggono ai limiti posti dal legislatore (31). In questo senso l'atteggiamento della magistratura tedesca assume i connotati di un'opposizione preconcetta proprio nei confronti del regime repubblicano, mentre al contrario si registrano numerose scelte giurisdizionali favorevoli alle forze politiche di destra, anche per le caratteristiche strutturali e ideologiche dei giudici, da sempre reclutati in Germania nell'ambito di classi sociali sicuramente ostili al programma di politica giudiziaria dei ministri di Weimar (32).

Un esempio dell'accennata avversione della magistratura tedesca al regime repubblicano e della parzialità a favore delle forze dell'estrema destra, è costituito dalla decisione relativa all'applicazione dell'amnistia nei confronti dei condannati per il putsch di destra di Kapp. In questo caso la magistratura - anche contro le disposizioni della legge di amnistia 4.8.1920 che escludono dall'applicazione del beneficio i promotori o i capi dei complotti politici - dichiara estinta l'azione penale nei confronti di tutti i kappisti, indistintamente capi o gregari, sia per reati politici che per reati comuni (33).

Questi cenni comparativi relativi alla legislazione in tempo di amnistia e alla reazione giurisprudenziale in Francia e in Germania, rivelano diverse analogie con la situazione italiana, analogie che non si limitano solo alla quantità dei provvedimenti emanati, ma attengono anche alle finalità più generali del ricorso alla clemenza in materia penale. In Italia l'impiego dei decreti di amnistia per ricreare le basi del consenso sociale si rivela in particolar modo funzionale alle scelte politiche di annullare gli effetti della legislazione punitiva, nel rischio che nel dopoguerra la repressione possa indebolire, anziché rafforzare, l'ordine dello stato.

L'emanazione dei decreti di amnistia diventa un fenomeno rilevante nel complesso dell'attività legislativa degli ultimi ministeri liberali italiani. Al numero elevato di decreti emanati corrisponde anche un'ampia ripercussione di questi provvedimenti sull'attività giurisdizionale e più in generale sulla vita del paese. Un esempio significativo della rilevanza che i decreti di amnistia rivestono nel complesso della legislazione è il dibattito che essi provocano intorno alla disciplina dell'istituto. Nel dopoguerra si registrano infatti due proposte dei ministri guardasigilli Mortara (34) e Fera (35) tendenti ad attribuire la titolarità del potere di amnistia al Parlamento. Il tentativo di abbandonare il criterio per cui il Re emana il decreto su proposta dell'esecutivo, e di affidare invece ad una legge formale del Parlamento il compito di definire il contenuto dei benefici, viene per così dire travolto dagli avvenimenti politici successivi. Anche se queste proposte risultano ancora minoritarie, meritano comunque di essere ricordate perché configurano una disciplina dell'istituto analoga a quella attuale (36). Il tentativo di attrarre nella sfera del legislatore le scelte di politica criminale sottese all'emanazione dei decreti di amnistia non è importante sul solo piano dottrinale, ma rivela anche la volontà di rendere più democratica la disciplina dell'istituto, affidandone la titolarità ad un organo più rappresentativo del governo, proprio per l'incidenza del ricorso alla clemenza sul complesso della vita del paese. Il tentativo di allargare la titolarità del potere di amnistia - completamente vanificato da un'opposta legge fascista del 1925 - suscita ampie discussioni tra le forze politiche: particolarmente accese sono le critiche del nazionalista Arturo Rocco, per il rischio che l'intervento diretto del Parlamento nell'emanazione delle amnistie comporti un atteggiamento di debolezza nella repressione dei delitti contro la sicurezza dello stato (37). Proprio questa critica della debolezza del governo nella repressione dei delitti politici, ricorre frequentemente sulle pagine di diverse riviste specializzate che si occupano del ricorso ai decreti di amnistia (38). Prescindendo dagli aspetti strettamente giuridici della normativa, l'attenzione di diversi autori si incentra sull'analisi delle scelte politiche sottostanti ai benefici. In questo senso si afferma che le amnistie sembrano minacciare la «difesa sociale» (39), agevolare la criminalit à, soprattutto quella politica e «reiterata» (40), e provocare l'aumento dei reati di «indole antisociale» (41).

Accanto alle critiche motivate dalla convinzione che le amnistie indeboliscono lo stato nei confronti della criminalità, si denunciano anche le interferenze del potere politico nell'attività giurisdizionale consentite dall'uso frequente della clemenza. Un saggio di Calamandrei individua proprio nell'emanazione dei decreti di amnistia una delle forme di condizionamento della magistratura da parte del potere politico. Si afferma infatti che i benefici in pratica vanificano l'indipendenza della magistratura, dal momento che le decisioni di quest'ultima sono annullate dalla volontà dell'esecutivo di obliare determinati reati (42).

Risalta con evidenza che l'analisi della penalistica sulle «amnistie della pacificazione» è sempre critica, soprattutto per le conseguenze che scaturiscono da questi decreti sul piano del rapporto governo-magistratura, e governo-criminalità politica (4). La dottrina sottolinea frequentemente il profondo intreccio tra il ricorso alla clemenza e la situazione politica, tra la legislazione penale e le scelte politiche dell'esecutivo. L'intenzione dell'esecutivo di non limitarsi a risposte univocamente repressive nei confronti della criminalità in genere, e soprattutto di quella politica, risalta particolarmente da un decreto di amnistia e indulto concesso nel 1921 essenzialmente per reati commessi in occasioni di agitazioni agrarie (44).

Da una circolare del ministro della giustizia Rodinò relativa a questo decreto emerge in modo particolare la volontà di fornire alla magistratura criteri interpretativi larghi in modo tale da consentire un'ampia applicazione del beneficio (45). Esplicitamente il ministro vuole escludere canoni restrittivi, suggerendo al contrario la necessità di una larga concessione della «manifestazione dell'indulgenza sovrana». Per quanto concerne i reati oggetto del beneficio, si dichiara elemento essenziale della concessione dell'amnistia o dell'indulto, la relazione con le agitazioni agrarie, come nel caso dell'invasione dei terreni o dei fabbricati rustici. Inoltre si afferma che sono compresi nel beneficio i reati previsti nell'art. 9 R.D. 22.4.1920 n. 515 e negli artt. 422 e 423 del codice penale (invasione del terreno o fabbricato rustico, immissione arbitraria nell'altrui proprietà, violazione dell'altrui pacifico possesso, alterazione o rimozione di termini).

Un'altra indicazione si riferisce al delitto di usurpazione che viene compreso nel beneficio, anche se il decreto di amnistia non richiama esplicitamente la disposizione del codice penale relativa a questo reato. Per esplicito riconoscimento del guardasigilli l'usurpazione è da ritenersi connessa alle agitazioni agrarie - ed è quindi passibile dell'applicazione del beneficio - anche se non è precisamente richiamata dalla normativa del decreto. E' proprio in contrapposizione a questi precisi suggerimenti dell'esecutivo di estendere senza restrizioni l'applicazione del beneficio a tutti i reati connessi ai conflitti sociali nelle campagne, che comincia a farsi strada la tendenza della magistratura a circoscrivere il più possibile gli effetti dell'indulgenza sovrana.





- Decreti di amnistia e orientamenti giurisprudenziali dal 1919 al 1922.



2. L'esame della sola normativa dei decreti di amnistia non è sufficiente a spiegare l'effettivo significato della clemenza nella materia dei reati politici dal momento che la delimitazione concreta dell'ambito del beneficio viene di fatto affidata alla magistratura. In più l'importanza della giurisprudenza è accresciuta nel caso in cui il legislatore in pratica demanda alla discrezionalità della magistratura il compito della qualificazione del carattere politico dei reati. E' questo il caso dei decreti di amnistia accennati, nei quali l'individuazione del carattere delle condotte delittuose non è fatta dipendere da fattori prestabiliti e oggettivi, ma da un'indagine della magistratura su elementi soggettivi, come l'esistenza di una causa politica che determina l'agente. In particolare vengono posti in secondo piano criteri oggettivi di selezione dei reati come l'entità della pena edittale o il "nomen iuris" del reato (46). Per queste considerazioni le conseguenze pratiche dell'uso della clemenza sull'attività giurisdizionale sono legate più ai criteri di selezione adottati dalla magistratura che alle formulazioni legislative.

La tendenza della magistratura a circoscrivere le direttive del potere politico di sottrarre alla pena diversi reati legati a tensioni politiche e sociali - confermata peraltro comparativamente come una costante dell'attività giurisdizionale nel dopoguerra - si sviluppa con l'evolversi della situazione politica della società italiana. Nell'ambito della limitazione dell'applicabilità dei decreti di amnistia assume un particolare significato l'esclusione di reati come il danneggiamento e l'invasione di terre, proprio perché in precisa contrapposizione alle direttive della circolare accennata.

Questo indirizzo rigoristico si afferma con qualche contrasto iniziale: e circa questo contrasto merita di essere ricordata una sentenza della corte d'Appello di Bologna, anche se non si riferisce specificatamente al tema dell'applicazione del beneficio, dal momento che una successiva sentenza della Cassazione ne vanifica il contenuto, negando alla fattispecie l'estensione del decreto di amnistia. La sentenza della corte bolognese nega la sussistenza del reato di estorsione nel fatto dei capi di una lega i quali, espulso un socio della lega medesima per una qualche inadempienza contrattuale commessa, gli impongono come penale per la riammissione il pagamento di una somma di danaro (47). Questa sentenza sembra accogliere nella lunga motivazione la disciplina del diritto sindacale: si riconosce che come le organizzazioni operaie hanno imposto il contratto collettivo di lavoro come garanzia per i singoli organizzati, così nel diritto penale hanno conquistato il diritto allo sciopero, che è il mezzo di valorizzazione delle lotte sindacali. La corte d'Appello di Bologna ammette che i sindacati operai, come organizzazioni che devono reggere e giudicare gli organizzati, devono avere anche «poteri disciplinari» che possono arrivare fino all'espulsione del socio, e trovano la loro legittimità giuridica nella volontà dell'organizzato, e, specificatamente, nell'art. 1029 del codice civile che attribuisce a ciascun contraente il potere di fissare una penale a carico della parte inadempiente. Questa sentenza che sembra innovare i contenuti del codice penale configurando l'ipotesi dello sciopero come diritto e strumento di lotta sindacale, viene smentita dalla Cassazione che nega l'applicazione dell'amnistia al reato di estorsione, configurato dalla suprema corte nella richiesta di una somma di danaro dietro minaccia di boicottaggio da parte di una lega operaia (48).

Anche la giurisprudenza in tema di danneggiamento si presenta abbastanza contraddittoria. Una prima sentenza della Cassazione ammette l'amnistia per il danneggiamento previsto dal l'art. 424 del codice penale, perseguibile a querela di parte (49). Se invece il danneggiamento si realizza attraverso il pascolo abusivo, la suprema corte esclude l'applicabilità del beneficio, in quanto la condotta delittuosa riveste gli estremi di un reato di azione pubblica, perseguibile d'ufficio (50). In conseguenza di questa tecnica in pratica l'amnistia viene applicata al reato di danneggiamento dipendente dall'introduzione e abbandono di animali nel fondo altrui, mentre invece viene esclusa per l'ipotesi meno grave di pascolo abusivo (51).

Altri esempi della tendenza giurisprudenziale di limitare la concessione del beneficio, diverse sentenze affermano che l'amnistia non riguarda tutti i reati aventi movente politico o economico, ma solo i reati commessi « immediatamente dopo un tumulto» (52); analogamente la magistratura ritiene che le cause politiche ed economiche devono risultare «simultanee al reato nel luogo e nel tempo» (53).

E' particolarmente esemplare del tentativo di limitare il beneficio, il significato dell'espressione «tumulto» o «moto popolare» offerto dalla Cassazione per illustrare il termine usato dal legislatore nei decreti di amnistia (54). La suprema corte identifica il tumulto con « l'insorgere della massa determinata da ragioni politiche ed economiche per rivolgere il vivere sociale con pericolo di turbamento dell'ordine pubblico», ed esclude dall'applicazione del beneficio «la violenza teppistica di una massa selvaggia determinata da propaganda bolscevica» (55). L'enfatizzazione del motivo soggettivo dell'agente voluta dal legislatore viene in modo del tutto discrezionale sfruttata dalla magistratura al fine di escludere dal beneficio il «moto popolare» a seconda che la determinante politica sia più o meno invisa ideologicamente ai giudici: in questo caso si nega l'applicazione dell'amnistia alla propaganda e all'azione socialista (56).

In alcuni casi i decreti di amnistia elencano una serie di reati (57) determinati con precisione come per fornire alla magistratura un criterio di selezione il più possibile rigido e oggettivo.

In questo senso dal preciso elenco di reati contenuto nel R.D. 23.10.1921 n. 1419 sembra emergere il disegno del legislatore di porre nell'oblio proprio quelle condotte delittuose comunque collegate con le agitazioni agrarie. Al contrario, le decisioni giurisprudenziali escludono dall'applicazione del beneficio proprio i delitti rilevanti sul piano politico in quanto diffusi strumenti di lotta sociale, come l'invasione di terre a scopo di lavoro e senza violenza (58). Infatti il decreto di amnistia non viene applicato ai lavoratori agricoli condannati per il lavoro abusivo nei terreni invasi, proprio contro la normativa del decreto che prevede la concessione del beneficio per queste e analoghe ipotesi di violenza privata, senza distinguere l'essenza e la realizzazione concreta di questa violenza. Anche in queste sentenze la Cassazione esclude l'applicazione del beneficio, esigendo che tra i commessi reati e le agitazioni agrarie interceda non «un rapporto più o meno lontano di casualità», ma una « contemporaneità e concomitanza»; oltre all'elemento temporale si richiede anche un'imprecisata «suggestione» provocata all'agente dalle agitazioni (59).

Come accennato l'invasione di terre è esclusa dal beneficio anche quando si concretizza nell'impossessamento di terreni di proprietà comunale, senza violenza e rimozione di termini (60). L'esclusione è motivata dalla suprema corte con l'argomentazione che nel reato soggetto ad amnistia perché espressamente indicato nel decreto, è elemento costitutivo il fine di lucro, che non sussiste nell'invasione di terre durante le agitazioni agrarie (61). Anche in questo caso l'indagine sul dolo specifico del «trarre profitto» dalla condotta delittuosa, consente alla magistratura di escludere il beneficio per gli autori di reati contro la proprietà commessi per un fine diverso dal lucro, come appunto il lavoro nella fattispecie accennata dell'invasione di terre comunali (62).

Quando una condotta delittuosa risulta difficilmente inquadrabile nelle previsioni normative dei decreti, data anche la complessità e originalità di determinate fattispecie, la Cassazione stabilisce il più fermo divieto di analogia. In questo senso si afferma che l'elenco dei reati contenuto nel decreto 1419 deve essere ritenuto tassativo (63), e non esemplificativo. L'interpretazione viene inoltre ammessa "secundum leges", non "de legibus" (64), dal momento che il reato al quale elargire il beneficio deve essere espressamente previsto dalla normativa, e non ricavato da una interpretazione estensiva (65).

Un'altra tecnica usata dalla Cassazione per restringere l'applicazione dei decreti di amnistia, è costituita dalla tendenza ad affermare, secondo criteri del tutto discrezionali, che determinati delitti non sono «fatti determinati da competizioni violente dirette a dare un diverso ordinamento al regime della terra», quanto invece «violenze e minacce determinate da rappresaglia e da vendetta sotto il pretesto di torti non arrecati», non passibili del beneficio (66).

In altri casi la negazione del beneficio si basa sulla giustificazione che la condotta delittuosa in esame è «fatto di singolo», anziché il richiesto «fatto collettivo» che consente l'applicazione del decreto; la completa discrezionalità di questa tendenza risalta in modo particolare quando la natura del reato commesso - ancora una volta invasione di terreni - presuppone necessariamente un'azione collettiva (67).

Il tentativo della Cassazione di escludere dal beneficio proprio quei reati che nel dopoguerra destano un maggior allarme sociale, risalta dalla tendenza giurisprudenziale di negare l'amnistia a reati politicamente rilevanti, concedendola peraltro a reati oggettivamente più gravi puniti con pene superiori a quelle previste per le ipotesi di invasioni di terre, ma non caratterizzati dall'attitudine a costituire strumenti di lotta sociale. In questo quadro una sentenza della Cassazione concede amnistia per il reato di violenza privata e la esclude invece per l'uso di violenze e minacce al fine di costringere all'astensione dal lavoro, anche se nel codice queste ipotesi sono punite meno severamente della violenza privata (68).

Analogamente viene esclusa dall'applicazione del beneficio la violenta turbativa di possesso, condotta usata dalla Cassazione per definire alcune manifestazioni di illegalità commesse durante agitazioni agrarie. Il decreto n. 1419 non prevede espressamente la concessione del beneficio per il reato di violenta turbativa in possesso, pur amnistiando altri reati contro la proprietà passibili di pene più severe; questa assenza di normativa in riferimento al reato accennato, previsto dall'art. 423 del codice penale, consente alla suprema corte di escludere dall'amnistia diversi reati commessi durante le agitazioni agrarie, anche quando i fatti materiali sembrano contenere tutti gli estremi necessari per essere compresi nel decreto e amnistiati (69).

Dalle motivazioni delle sentenze relative ai reati connessi alle lotte politiche e sociali del dopoguerra, emerge un approccio alla tematica dei « ;delitti collettivi» (70) caratterizzato dalla logica della difesa sociale che prevale su ogni altro tipo di considerazione. Diverse sentenze insistono in modo particolare sui concetti del «grandissimo allarme sociale», del «profondo turbamento dell'ordine pubblico», e del «danno economico», mostrando a chiara luce l'opposizione della magistratura nei confronti dei reati collettivi frequenti e diffusi nella vita sociale del dopoguerra.

L'indirizzo rigoristico della magistratura in tema di reati collettivi si accentua proprio nel periodo in cui queste condotte assumono proporzioni maggiori e soprattutto connotazioni di strumenti di lotta sociale. In precedenza la giurisprudenza aveva spesso considerato i reati collettivi come una speciale forma di criminalità, e, ispirata in parte dagli studi positivisti sulla «folla delinquente» (71), aveva adottato criteri di valutazione «ponderata» circa la responsabilità dei partecipi ai reati commessi durante tumulti o scontri (72). Il complessivo atteggiamento della magistratura in tema di reati collettivi era stato caratterizzato dalla tendenza ad applicare «cause dirimenti o oscuranti dell'imputabilità ;» (73) alle fattispecie accennate, senza operare quindi drastiche repressioni. Nel quadro di questa tendenza ancora nel 1919 veniva ammessa la «minorante» prevista dall'art. 47 del codice penale (74) al fatto di una folla che saccheggiava negozi durante una sommossa originata dai frequenti moti per il caroviveri (75).

Proprio in relazione all'aggravarsi della crisi sociale e politica, la Cassazione adotta prevalentemente (76) l'indirizzo rigoristico di negare qualsiasi attenuante ai reati collettivi. Mentre in precedenza il criterio soggettivo dell'agente è stato rilevante ai fini di valutare l'incidenza dell'atteggiamento psicologico dell'autore sul complesso del reato, nel dopoguerra la Cassazione sembra invece sfruttare il criterio dell'indagine psicologica sull'agente del reato per ottenere di fatto l'incriminabilità ; delle manifestazioni di massa. Il ricorso a questa tecnica si traduce infatti nella scelta giurisprudenziale di incriminare gli assembramenti per il loro rilievo sintomatico, per il «contegno» della folla «di per sé minaccioso», anche a prescindere dalla commissione di reati (77).

Dalle argomentazioni della magistratura emerge un concetto di ordine pubblico costantemente inteso come l'ordine positivo esistente e risultante dalle norme penali poste a tutela dei rapporti della vita sociale. La logica della difesa dell'ordine "quo talis" dal pericolo rappresentato dai reati collettivi, si traduce nella scelta giurisprudenziale di una decisa repressione delle condotte delittuose originate dalle nuove dinamiche sociali alle quali la magistratura offre una consequenziale risposta in termini di controllo attraverso la normativa penale (78).





- Dottrina e giurisprudenza di fronte ai conflitti politici e sociali.



3. L'evidenza dell'indirizzo rigoristico adottato dalla magistratura risalta in modo ancor più particolare dal confronto con gli atteggiamenti più diversificati e contraddittori dimostrati dalla legislazione e dalla penalistica nei confronti dei reati derivanti dalle tensioni del dopoguerra. Il tono complessivo della dottrina penalistica che prende in esame le forme di insubordinazione sintomatiche della crescente tensione sociale e politica che si manifesta nel dopoguerra in svariati settori, è generalmente caratterizzato da un'incertezza di fondo motivata in parte dalla novità dei fatti e dalla mancanza di apposite statuizioni normative. A questo proposito si riscontrano diversi interventi dottrinali caratterizzati dalla difficoltà di inquadrare entro gli schemi trasmessi dal codice penale Zanardelli le nuove forme di illegalità. Sono esemplari in questo senso le osservazioni relative agli atti di insubordinazione dei ferrovieri che nel 1920 bloccano i convogli che trasportano contingenti di forza pubblica per fronteggiare i numerosi disordini nel paese, dove emerge abbastanza chiaramente il disagio della dottrina di fronte a questo reato (79). La carenza di una normativa adeguata alle nuove forme di illegalità originate dall'evoluzione della criminalità politica e sociale, sembra motivare la richiesta di istituire un nuovo titolo di «delitto politico», volto a reprimere queste forme di «azione rivoluzionaria» (80). In questo senso l'originalità delle condotte delittuose - come ad esempio l'occupazione delle fabbriche da parte delle maestranze, o delle case da parte dei senza tetto - sembra suggerire dubbi sull'attitudine del diritto penale codificato a riguardare le fattispecie collettive originate dalla complessività della vita sociale del dopoguerra; l'analisi della dottrina si sofferma spesso sull'indagine dell'effettiva rispondenza tra strutture penali e reati, esprimendo l'esigenza di un aggiornamento della legislazione che tenga conto in modo particolare dei mutamenti avvenuti nella società.

Un'analisi degli scritti giuridici relativi al problema dei delitti originati dalle tensioni politiche e sociali non mostra l'esistenza di una soluzione dogmatica a questi reati univoca e definitiva nella dottrina; al di là di una ricerca per inquadrare determinate condotte sul piano sanzionatorio, si insiste sulle componenti politiche complesse alla base dei fenomeni sociali che sfuggono ai rimedi predisposti dalle norme giuridiche. Le conclusioni degli operatori del diritto di fronte alle illegalità sembrano incentrate sulla convinzione dell'inutilità degli strumenti giuridici di fronte alla complessità del fenomeno, e comincia a farsi strada la tendenza a spostare il problema dal terreno tecnico a quello della responsabilità del governo, per il suo atteggiamento troppo tollerante, e del legislatore per la incapacità a prevedere adeguate norme sanzionatorie. Soprattutto la forza e l'estensione delle forme di lotta sociale e politica sembrano motivare le affermazioni che spetti al potere esecutivo ricercare la soluzione della crisi generale che investe la società (81).

Un'incertezza di fondo caratterizza anche la legislazione per quanto riguarda la politica penale da adottare nei confronti dei reati politici e sociali. Come accennato, i numerosi provvedimenti di amnistia denotano la volontà del governo di non reprimere i comportamenti delittuosi connessi all'inquieta situazione del primo dopoguerra, ma parallelamente il legislatore interviene con norme sanzionatorie per incriminare proprio i reati derivanti dal contesto sociale accennato. In questo senso, rispetto alle previsioni del codice penale, alcune condotte delittuose vengono trasformate da illeciti civili in reati perseguibili d'ufficio, controbilanciando il ricorso alla clemenza per i reati politici e sociali. Con l'art. 9 del R.D.L. 22.4.1920, n. 515 il legislatore incrimina le occupazioni pacifiche di terre, comminando la pena della reclusione fino a trenta mesi per chiunque si immette arbitrariamente nel possesso altrui, pure senza violenza e senza alterare i termini o trarre profitto dalla condotta. Nello stesso contesto il R.D.L. 4.1.1921, n. 1 statuisce norme speciali per gli atti di violenza contro la proprietà o le persone commessi allo scopo di procurare a sé o ad altri l'abitazione, dal momento che l'occupazione arbitraria di immobili si manifesta con caratteristiche originali rispetto a quelle previste dal diritto penale codificato.

Nelle sentenze esaminate in precedenza i decreti di amnistia intervengono spesso in riferimento proprio ai decreti accennati, a conferma di una coesistenza nella legislazione di una tendenza repressiva e di una tendenza ad annullare l'efficacia della legge ordinaria.

Un altro aspetto dell'incertezza del potere politico nei confronti dei nuovi fatti di reato, è rappresentato dalle direttive rivolte alla magistratura di non reprimere drasticamente gli episodi delittuosi relativi alle occupazioni delle fabbriche (82), proprio per le difficoltà ad inquadrare le fattispecie in disposizioni giuridiche coerenti. Questa assenza di una linea coerente e univoca del governo nel settore dell'amministrazione della giustizia, contribuisce, come accennato, a creare il clima di incertezza e disagio frequentemente manifestato in dottrina (83).

Un altro elemento significativo della complessiva incertezza del potere politico, è rappresentato dall'intervento del sottosegretario alla giustizia che invita la magistratura ad applicare un «diritto nuovo» alle competizioni politiche ed economiche e ai rapporti giuridici che ne derivano (84). Il ricorso da parte del sottosegretario ad un termine generico come il diritto nuovo - qualcosa di diverso dal diritto codificato - è emblematico ancora del fatto che il diritto penale politico esistente non si presta più ad esaurire la complessità dei nuovi fatti di reato. Le indicazioni del potere politico sul «diritto nuovo» da applicare alle competizioni economiche, non escono dal generico, né vengono avanzate proposte precise di aggiornamento delle strutture penali, o chiariti i contenuti programmatici del «diritto nuovo».

Il ricorso alla normativa non codificata nei confronti dei comportamenti collettivi sembra presupporre l'adozione, sul piano giuridico, di criteri valutativi analogici, contro il principio di legalità. Proprio la genericità dei suggerimenti e la mancanza di una normazione certa e oggettiva per inquadrare la complessità delle forme di insubordinazione del dopoguerra, provocano le critiche accese nei riguardi della debolezza del governo e dell'inanità del legislatore (85). Il disagio per l'invito ad adottare un diritto non esistente è accresciuto per le caratteristiche strutturali e ideologiche della penalistica e della magistratura, che da sempre si attengono al dato positivo, avversando il ricorso a considerazioni metagiuridiche anche in presenza di manifestazioni di illegalità in gran parte originali.

In contrapposizione alla tendenza del potere politico ad alternare soluzioni repressive e tentativi di mediazione tramite le amnistie per i reati collettivi, emerge una risposta più decisa da parte della magistratura alla crisi che nel dopoguerra investe la società italiana.

Le sentenze della Cassazione, per lo più di conferma a precedenti sentenze di merito, non si prestano a fornire un quadro esauriente e totale del complessivo atteggiamento della magistratura nei riguardi dei reati connessi alle lotte sociali e politiche del dopoguerra. Comunque la scelta delle sentenze edite nelle riviste, operata con criteri non statistici ma dottrinari, sembra poter fare ipotizzare che la rappresentatività della giurisprudenza di Cassazione si fondi sulla sua funzione di orientamento per i giudici di merito. In questo senso l'esame delle sentenze in tema di amnistia consente di trarre qualche indicazione di tendenza sulle scelte ideologiche della magistratura.

Il tema specifico dell'applicazione, o dell'esclusione, dei decreti di amnistia è significativo dell'atteggiamento della magistratura nei confronti dei contrasti sociali. La giurisprudenza può infatti rivelare un contributo della magistratura alla mediazione fra le classi (86) esercitata variando la configurazione dei fatti come reati, a seconda delle esigenze politiche e della situazione economica del momento.

Nel dopoguerra la magistratura sembra offrire un contributo diverso dalla mediazione, mostrando al contrario un atteggiamento di ferma opposizione nei confronti dei movimenti e delle concezioni politiche e sociali che entrano in conflitto col sistema liberale e con la sua ideologia.

La magistratura si pone a difesa della struttura politico-sociale dell'ultimo periodo della monarchia costituzionale in misura maggiore dello stesso potere politico. Proprio nel momento in cui le nuove forme di reati collettivi fanno emergere una contraddizione tra i principi dello stato di diritto e le esigenze di difesa sociale, la magistratura sembra risolvere questo contrasto nel senso del controllo.

La mancata applicazione dei decreti di amnistia proprio a quei fatti di reato rilevanti come forme di lotta sociale, esprime una chiara ed inequivocabile scelta della magistratura in termini di repressione politica, prima ancora che questo metodo sia esteso e diventi il fondamento della politica criminale dello stato fascista. Non può negarsi in questo caso la precisa influenza sul ceto dei magistrati di un'ideologia che sembra avviare la trasformazione del diritto penale politico da «protezione penalistica della politica», voluta dal legislatore liberale con la previsione di norme poste a tutela della comunità (87), a «politica con lo strumento del diritto penale» (88), anche se questo iter si compirà soltanto in seguito con la legislazione fascista. Nel momento di profonda crisi sociale e politica che investe la società italiana dopo la fine del conflitto, nel settore della politica penale la magistratura tende a presentarsi come l'istituzione posta più saldamente a tutela dell'esistente, contro le incertezze e la latitanza del legislatore. Questo fatto traspare dal tono complessivo dell'indirizzo rigoristico della magistratura, incentrato sulla logica della difesa dell'ordine statale tutelato dalle norme penali, contro le vaghe aperture relative al «diritto nuovo» e il tentativo di pacificazione perseguito con l'emanazione dei decreti di amnistia.

L'avversione dimostrata in particolar modo dalla Cassazione nei confronti delle lotte sociali sembra nascere dalla propensione degli alti magistrati a riflettere le preoccupazioni di certi settori della società italiana nei confronti delle nuove dinamiche sociali. L'origine di classe (89) e più in generale lo status dei magistrati ne confermano l'appartenenza anche culturale e ideologica alla classe dominante, tradizionalmente portata a considerare qualsiasi forma di protesta sociale pericolosa per l'ordine statuale (90).

Una conferma del fatto che per la magistratura anche la semplice diffusione di idee in conflitto con il sistema liberale è causa di per se stessa di violazione dell'ordine pubblico, è rappresentata dall'elevato numero di condanne per reati d'opinione nei confronti di militanti anarchici e socialisti per tutto l'arco di tempo del periodo liberale (91).

Per quanto riguarda l'atteggiamento della magistratura di merito bisogna sottolineare che le possibilità offerte al singolo giudice di formarsi opinioni autonome rispetto ai condizionamenti ideologici dell'alta magistratura sono minate dalla struttura gerarchica dell'ordine giudiziario. Nel periodo liberale infatti il pubblico ministero è ancora alle dirette dipendenze dell'esecutivo, in particolare del ministro di grazia e giustizia. Alla mancanza di «indipendenza esterna» (92) corrisponde una rigida organizzazione gararchica all'interno degli uffici del pubblico ministero. Per quanto inoltre riguarda lo stato della magistratura giudicante, bisogna sottolineare che l'importante materia delle promozioni, dei trasferimenti e delle azioni disciplinari è sostanzialmente soggetta alla discrezionalità dell'esecutivo (93).

Pur nell'impossibilità istituzionale di operare scelte politiche diverse da quelle del potere politico, si è registrato che in determinati periodi sul piano della repressione dello sciopero la magistratura ha anticipato la volontà del governo, con scelte giurisprudenziali più rigide delle direttive dell'esecutivo (94). In fondo si tratta di un atteggiamento analogo alla ricordata tendenza della magistratura a restringere al massimo l'applicazione dei decreti di amnistia: un particolare zelo nella difesa della società dai reati collettivi che suona anticipazione di normative repressive.

Un ulteriore elemento sembra spiegare la tendenza della magistratura ad assumere un deciso ruolo di difesa dei rapporti sociali esistenti, e in particolare della proprietà, col ricorso alla repressione delle usurpazioni, del pascolo abusivo e delle invasioni di terre. Nello svolgere l'attività giurisdizionale la magistratura, anche in presenza di fattispecie originali, applica rigorosamente il diritto penale vigente, senza il minimo ricorso a criteri interpretativi evolutivi rispetto alla legislazione positiva. Questa tendenza «tecnica» della magistratura, se è un dato costante della complessiva attività giurisdizionale nell'Italia postunitaria (95), si manifesta in modo particolare nel secondo decennio del Novecento. In questo periodo infatti il tecnicismo giuridico, nell'ossequio al dato positivo vigente come unico diritto penale esistente ed applicabile, esercita un ruolo culturale rilevantissimo nel complesso della cultura giuridica, penetrando anche nella magistratura. I postulati dell'indirizzo tecnico-giuridico sembrano sgombrare il campo del diritto penale dalle indagini sulle cause sociali del reato, per ribadire unicamente la necessità dell'applicazione del diritto positivo vigente da parte dell'interprete. Questo criterio traspare sia nell'attività della magistratura rivolta ad applicare il diritto codificato, sia nell'attività diretta a limitare l'incidenza dei decreti di amnistia; la scelta «tecnica» dell'ordine giudiziario di far prevalere il diritto codificato sui decreti di amnistia nella logica della difesa dal reato senza altre considerazioni, sembra di fatto vanificare la politica penale espressa dal legislatore con il ricorso alla clemenza.

Il risultato complessivo dell'attività giurisdizionale sembra proprio quello di rafforzare le strutture punitive dello stato come soluzione ai contrasti sociali. La magistratura, pur anticipando questi criteri, non rimane isolata, dal momento che anche gran parte della dottrina afferma la necessità di un rafforzamento dell'esecutivo per risolvere la crisi sociale acuita dalla radicalizzazione dello scontro politico, che nel 1921 assume proporzioni particolarmente allarmanti registrate anche dalla scienza penalistica.

Mentre in precedenza si erano espresse incertezze nel definire la natura giuridica dei reati collettivi, e si erano denunciate carenze del diritto penale in relazione a diverse fattispecie, con il precipitare della situazione del paese l'analisi sui reati politici si concretizza in un'accusa radicale al governo incapace di sedare i disordini e garantire il funzionamento della giustizia (96). Anche nella penalistica comincia a prevalere il criterio di dichiarare che la soluzione ai problemi posti dai reati originati dalla nuova dinamica sociale non deve essere ricercata sul piano tecnico dell'aggiornamento delle strutture penali, ma sul piano del controllo e della repressione. Il concetto della difesa sociale serve a risolvere tutti i problemi giuridici, e l'esigenza della protezione statuale prevale sulle considerazioni circa il rinnovamento del diritto penale.

In questo periodo il tono complessivo della penalistica - riviste specializzate che pubblicano studi sul diritto penale politico durante l'aggravarsi della crisi che ne condiziona le argomentazioni, ma anche manuali pubblicati in questi anni, tradizionalmente più «neutri» e asettici (97) - risente dell'influenza esercitata dalle considerazioni ideologiche sull'analisi dottrinale e scientifica. Sono esemplari dei contenuti ideologici della penalistica di tendenza gli scritti che identificano nella propaganda socialista il delitto comune, mentre peraltro l'azione del fascismo viene interpretata come la restaurazione dell'ordine (98).

Anche le valutazioni relative agli episodi sanguinosi tra fascisti e socialisti risentono dell'accennata impostazione ideologica pregiudizialmente avversa alla parte «sovversiva». Il rafforzamento dello stato e della sua autorità sono definiti condizioni essenziali per il ritorno alla normalità, e si auspica in generale un intervento drastico di repressione dei comportamenti che minacciano la società, a prescindere dalle ideologie e dalle responsabilità delle diverse forze politiche (99).

La responsabilità della situazione viene addossata in primo luogo all'incapacità del governo di imporre l'autorità dello stato, e in questo contesto l'intervento del fascismo è visto come un mezzo per ripristinare l'efficacia della legge venuta meno per l'inerzia dello stato (100).

La brusca radicalizzazione dei termini della polemica contro il governo caratterizza le analisi condotte dalla dottrina sugli scontri tra fazioni opposte: in questo senso alcune considerazioni di parte sembrano anticipare i contenuti del decreto di amnistia emanato dopo la marcia su Roma che cancella le responsabilità penali dei fascisti imputati o condannati per delitti politici. Ad esempio si fa rientrare l'attività degli arditi del popolo nel delitto di banda armata, previsto dall'art. 131 del codice penale; mentre la formazione di squadre fasciste rivestirebbe gli estremi della fattispecie prevista invece dall'art. 244 (costituzione di corpi armati non aventi scopi delittuosi). Praticamente si sostiene esser giusta e perseguibile la disparità di trattamento a seconda dell'ideologia per gli autori di violenze oggettivamente previste dallo stesso articolo del codice penale. L'adesione al fascismo costituisce la base per il trattamento più favorevole, in considerazione del fatto che la violenza della squadra fascista, «nella genesi e nella finalità» si pone lo scopo di ripristinare l'ordine, in questo autorizzata, «pur tacitamente», dal governo (101).





- I provvedimenti di clemenza dopo l'ottobre del 1922.



4. Con il mutamento del quadro politico dopo l'ottobre del 1922, secondo le stesse indicazioni della dottrina, si registra l'effettivo ricorso a criteri di parte per la valutazione delle responsabilità dei delitti politici commessi nel periodo immediatamente precedente. Il R.D. 22.12.1922 n. 1641, che concede amnistia per i reati commessi in occasione di movimenti politici per un «fine nazionale», è generalmente indicato (102) come un esempio significativo della tendenza del partito al potere a premiare coloro i quali hanno commesso illegalità durante un periodo di lotte politiche per assicurare il successo del partito di appartenenza. La presenza del fine nazionale come condizione essenziale per usufruire del beneficio rende subito chiaro il carattere discriminatorio del decreto, ispirato dalla volontà politica di annullare le conseguenze penali dell'illegalismo fascista degli anni tra il 1920 e il 1922.

L'eccezionalità della situazione successiva alla marcia su Roma e un'esigenza di opportunità politica sono alla base di norme così parziali a favore dei militanti fascisti. Nell'intento di limitare gli effetti di questa discriminazione, già nell'anno successivo verrà emanato un decreto di amnistia per tutti i reati politici senza distinzione di finalità nazionale o antinazionale: si vorrà correggere in tal modo l'eccezionale violazione del principio dell'uguaglianza davanti alla legge penale, introdotta nell'ordinamento dalla richiesta del fine nazionale per l'applicazione del beneficio ai reati.

Il criterio dell'appartenenza dell'agente ad un gruppo politico ai fini della concessione del beneficio, rappresenta il vero elemento di novità del decreto n. 1641 rispetto ai precedenti.

L'adesione ideologica dell'agente alle finalità nazionali e la militanza volta al successo del governo nazionale, sono le caratteristiche che definiscono la politicità della condotta. All'elemento soggettivo del reato viene attribuita una preminenza assoluta: è qui l'originalità rispetto ai decreti di amnistia precedenti, che avevano preso in considerazione le «cause politiche ed economiche», e quindi l'ambiente che aveva generato il delitto. Il decreto n. 1641 indaga più specificatamente sulle componenti psicologiche dell'agente, e i « motivi» non entrano nella legislazione in «modo accessorio» (103), ma diventano determinanti per la classificazione delle condotte delittuose.

L'attribuzione di valore decisivo come strumento di selezione dei reati al criterio soggettivo dell'agente consente una maggiore discrezionalità dell'interprete, che può concedere il beneficio in base a criteri personali di indagine sul fine richiesto. Questa valorizzazione del criterio soggettivo del reato introdotta dal decreto di amnistia è sottolineata con particolare enfasi da diversi esponenti dell'indirizzo positivista (104). In precedenza l'istituto dell'amnistia era stato oggetto di critiche sostanziali da parte della scuola positiva (105), in quanto sembrava prescindere dalla personalità dell'autore del reato, e interveniva come un elemento estraneo ad annullare gli effetti della sanzione penale, che per i positivisti avevano un'importanza fondamentale (106). Invece, in relazione a questo decreto, si assiste al tentativo di alcuni (107) penalisti di evidenziare quanto dei principi teorici della scuola positiva è stato trasfuso nella legislazione.

Anche il concetto della difesa sociale appare legato al ricorso alla clemenza nei confronti dei delitti politici. In particolare si individua il fondamento politico dell'amnistia proprio nell'interesse dello stato alla «non punizione», dal momento che in certi casi la clemenza sembra poter difendere la società offesa più della «repressione» (108), e si sottolinea che ragioni di opportunità politica sono alla base dell'emanazione dei decreti di amnistia da parte del governo.

Una sorta di interpretazione autentica dell'espressione «fine nazionale» è offerta dalla relazione del ministro guardasigilli Oviglio. Si parla di «fine nazionale» come di un'ideologia «non contraria all'attuale ordinamento politico, o, per meglio dire... manifestazioni solo in apparenza ostili all'assetto statale, ma in sostanza ispirate a fini coincidenti con quelli dello stato». Inoltre si specifica che vengono escluse dal beneficio «le azioni sovvertitrici delle istituzioni vigenti, rivolte ad instaurare un nuovo ordine o a tradurre nella realtà principi e teorie contrarie all'attuale concezione -statale e sociale» (109). Dal contenuto della relazione ministeriale emerge chiaramente la volontà governativa di attuare una discriminazione politica a favore dei fascisti nell'attività giurisdizionale, dal momento che i delitti commessi per un «fine nazionale» sono valutati dal legislatore come fatti solo apparentemente «ostili» all'assetto politico successivo alla marcia su Roma.

L'enfatizzazione del concetto del fine nazionale risalta anche dalle disposizioni che escludono dal beneficio, i reati commessi per un fine personale, mentre nel caso di concorso tra fine personale e fine nazionale si ritiene applicabile il decreto. Questa norma in pratica consente l'estinzione dell'azione penale anche nei confronti di reati comuni (110).

Non tengono conto del fine nazionale le norme che si riferiscono ai reati commessi dagli agenti della forza pubblica nell'esercizio delle loro funzioni, a prescindere appunto dalla componente «nazionale» come causa del reato. Analogamente, un'altra norma esclude dal beneficio lo sciopero nei pubblici servizi, per qualsiasi fine sia stato commesso, a dimostrazione della gravità che il potere politico ammette ad azioni di tale natura. Come altri decreti precedenti, il decreto n. 1641 esclude dal beneficio i sottoposti a vigilanza speciale, gli ammoniti, e i condannati per reati contro la proprietà.

Di particolare rilievo si presenta un'altra disposizione del decreto che attiene all'indagine sulla sussistenza del fine nazionale, perché contraddice il principio di irretroattività della legge penale. Si prevede infatti che possano godere del beneficio anche coloro che hanno riportato più condanne in tempi anche molto precedenti l'emanazione del decreto, purché le condotte delittuose siano state originate da un « ;fine nazionale». Il criterio dell'indagine viene dunque esteso a periodi lontani dall'affermazione del partito fascista. L'arbitrarietà del decreto viene evidenziata, oltre che dalla famosa denuncia di Matteotti a proposito della faziosità di una normativa che estende il beneficio solo a favore dei militanti fascisti (111), anche da penalisti come Paoli e Florian, che individuano in molte disposizioni la sostanziale violazione del principio dell'uguaglianza di fronte alla legge penale. In particolare le critiche si appuntano proprio sulla disposizione del decreto che consente la ricerca del «fine nazionale» in fatti estranei ideologicamente, oltre che temporalmente, alle finalità che erano richieste dal decreto n. 1641 (112). La «svolta» introdotta dal decreto emanato all'indomani della marcia su Roma è costantemente rilevata in dottrina, e la novità di questi contenuti normativi rispetto ai precedenti provvedimenti è confermata anche dal numero dei commenti della penalistica a questa amnistia, dal momento che a proposito del decreto n. 1641 si registrano pubblicazioni più numerose rispetto al passato (anche i successivi decreti di amnistia emanati dal governo non desteranno un analogo interesse teorico).

Per quanto riguarda l'atteggiamento della magistratura, le sentenze relative all'applicazione del decreto sembrano rappresentare la traduzione giurisprudenziale e l'applicazione concreto dei criteri discriminatori espressi in teoria dalla normativa del decreto e dalla relazione ministeriale. Già nella definizione del termine «fine nazionale» si nota l'adesione ideologica della giurisprudenza ai contenuti politici del decreto. Si ammette il beneficio «non solo a quei fatti che risultano ispirati al supremo fine della difesa nazionale, ma anche alle azioni delittuose rivolte a combattere attività sovvertitrici delle istituzioni vigenti e favorevoli all'instaurazione di un nuovo ordine, sebbene tali azioni fossero nella contingenza da considerarsi inopportune ed eccessive» (113). Questa decisione mostra una singolare uniformità di accenti tra la magistratura e il potere politico per quanto riguarda la parzialità a favore dei fascisti, anche se in seguito alla «normalizzazione» della situazione sociale la giurisprudenza attenuerà i criteri discriminatori ai fini della concessione del beneficio.

Inizialmente si registra comunque una puntuale applicazione del decreto a favore dei militanti del partito nazionale, in contrapposizione all'esclusione per le attività sovversive. In quest'ottica si dichiara inapplicabile il beneficio ai reati commessi «in occasione dell'agitazione demagogica nella fine del 1920», per il difetto del fine nazionale (114). In riferimento alle occupazioni di fabbriche, sempre in tema di applicazione del decreto n. 1641, si ritiene che i delitti commessi in questa occasione, pur essendo determinati da movente politico - nella specie dall'odio degli operai contro coloro che sono ritenuti rappresentanti e difensori della classe borghese che si voleva sopprimere - non rientrano nell'amnistia. Si afferma infatti che questo movente politico ha «fini diametralmente opposti» a quelli nazionali previsti dal provvedimento di clemenza, non trattandosi neppure di conflitto economico o sociale (115). In definitiva si escludono dal beneficio le illegalità commesse dai «sovversivi», includendo in questa categoria tutti i partiti avversi al fascismo (116). Al contrario il beneficio viene concesso se il reato è ispirato dal fine di «far trionfare le liste dell'ordine, invece di quella del partito socialista, coincidendo nella specie il movente politico e il fine nazionale con quello di difendere le nostre istituzioni contro un partito decisamente antinazionale» (117).

Le scelte di politica criminale sottese al decreto sono seguite nel complesso dell'orientamento giurisprudenziale, che nell'applicazione del beneficio manifesta sostanzialmente un'adesione convinta all'ideologia espressa dal legislatore. La rilevanza del ruolo della magistratura sul piano della delimitazione concreta dell'ambito del decreto di amnistia è accresciuta dalla disposizione del decreto n. 1641 che consente al giudice un'indagine del tutto personale sulla sussistenza del requisito del fine nazionale, invece di comminare il beneficio in presenza di condizioni fisse e prestabilite. In questo contesto di decisioni giurisprudenziali, si registra che in genere le riviste pubblicano prevalentemente sentenze di Cassazione relative a decisioni della magistratura di merito che ha negato l'applicazione del decreto di amnistia a determinati delitti politici. Il ruolo rilevante di orientamento giurisprudenziale della Cassazione nei confronti delle magistrature inferiori, è fra l'altro enfatizzato dalla decisione della suprema corte di ritenersi anche giudice di fatto in tema di amnistia. L'intervento della Cassazione non si limita più ad un controllo formale, ma, in seguito alla sentenza accennata, la suprema corte può dichiarare estinta l'azione penale dopo un esame discrezionale anche nel merito della sentenza sottoposta (118).

La larga discrezionalità di giudizio, anche nel fatto della decisione impugnata, ispira alla Cassazione diverse sentenze che escludono dal beneficio gli oppositori del «partito dell'ordine». Viene dichiarato inapplicabile il decreto ai reati commessi dai «cavalieri della morte» ;, dal momento che la Cassazione ritiene che facciano parte di questa associazione gli espulsi dal Fascio e i disoccupati ex-comunisti (119).

Anche il vasto settore dei conflitti di lavoro nell'agricoltura, e in questo caso alcune violenze commesse durante episodi di lotta mezzadrile (120), vengono sottratti all'operatività del decreto di clemenza. L'atteggiamento decisamente ostile manifestato dalla magistratura nei riguardi delle tensioni e delle contese sociali nelle campagne non sembra comunque originato dal cambiamento del quadro politico dopo la marcia su Roma. Infatti, come accennato, anche negli anni precedenti, mentre il governo aveva manifestato la volontà di rinunciare alla punizione di molti fatti originati dai conflitti sociali nelle campagne, l'ordine giudiziario si era arroccato su posizioni rigide, escludendo dal beneficio molti reati commessi durante le agitazioni agrarie. Soprattutto a partire dal 1921 si è registrato per così dire lo scarto tra la volontà politica dell'esecutivo, espressa con la concessione dell'amnistia, e l'atteggiamento della magistratura. L'ordine giudiziario ha assunto una propria linea rigoristica, più severa e repressiva di quella adottata dal potere politico, anche contro gli stessi suggerimenti del governo.

Nell'ottica di escludere l'applicazione del decreto di amnistia nei confronti degli oppositori del fascismo, si dichiara inapplicabile il beneficio ai reati anarchici, seguendo peraltro un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato (121). In contrapposizione al rigore nei confronti delle illegalità commesse dagli oppositori del partito nazionale, la magistratura mostra la tendenza a concedere il beneficio nei casi in cui sia rintracciabile il « fine nazionale», applicando quindi il decreto per le devastazioni di case del popolo, di sedi di partiti politici avversari, di camere del lavoro, e per gli scontri tra fascisti e forza pubblica (122).

L'esistenza del fine nazionale consente l'applicazione del beneficio anche a reati puniti severamente, con l'esclusione del solo omicidio volontario consumato. Si concede infatti l'indulto per il reato di tentato omicidio, purché il movente risulti quello gradito al potere politico (123), e per il «ferimento seguito da morte», quando l'agente viene costretto al reato per contrastare i partiti sovversivi (124).

In contrasto con l'ammissione del beneficio per i gravi reati accennati, risalta l'esclusione del reato di abbandono arbitrario di pubblico ufficio durante uno sciopero ferroviario. Sebbene questa condotta venga punita meno severamente dal codice penale, rivestendo una minore gravità oggettiva del tentato omicidio preterintenzionale, viene esclusa dall'applicazione del beneficio in considerazione del legame di questo reato con le lotte sociali del dopoguerra (125).

La disponibilità della magistratura a concedere il beneficio anche a gravi delitti comuni purché commessi con finalità nazionali è agevolata dalla disposizione del decreto che concede amnistia per i reati commessi con il concorso di un fine personale con quello nazionale. In caso di coincidenza di fini personali con fini politici, l'indirizzo giurisprudenziale in precedenza aveva escluso l'applicabilità del beneficio, considerando questi reati comuni (126). Invece in relazione al decreto n. 1641 (127) viene concessa amnistia per il reato caratterizzato solo in parte dal fine politico (128), innovando la tendenza precedente. Si tratta di un altro espediente normativo per consentire la sottrazione alla pena al numero più largo possibile di reati commessi dai militanti fascisti negli anni precedenti. Anche la giurisprudenza sembra adattarsi alle disposizioni del decreto concedendo il beneficio a reati comuni, legati solo molto occasionalmente a moventi politici.

Successivamente, proprio a limitare gli aspetti più discriminatori nell'applicazione del decreto di amnistia, una circolare del ministro alla giustizia Oviglio invita la magistratura ad una generalizzata clemenza nei riguardi dell'istruzione delle domande di grazia avanzate da tutti i condannati per delitti politici, a prescindere dal fine nazionale. Dalla circolare emerge esplicitamente la volontà dell'esecutivo di estinguere l'azione penale anche nei riguardi dei reati commessi per finalità diverse da quella di contribuire alla vittoria del partito fascista. La circolare prende infatti in esame la possibilità di «porre nell'oblio i delitti di indole economica e sociale quando ne fosse affievolita la memoria o fosse stato ristabilito l'ordine nelle regioni ove i fatti si svolsero» (129).

La proposta di Oviglio di far cadere la discriminazione nel trattamento dei reati commessi per un fine nazionale e dei reati commessi senza tale requisito, sembra motivata dalla volontà di ristabilire nel settore penale la «normalità» turbata con le eccezionali parzialità a favore dei fascisti introdotte nell'ordinamento con il decreto n. 1641.

La qualificazione di delitto politico offerta dal decreto di amnistia emanato all'indomani della marcia su Roma appariva condizionata in modo particolare dall'eccezionalità della situazione politica; il ricorso alla clemenza delineava un reato politico solo in relazione alle illegalità commesse dai fascisti, ottenendo sul piano pratico la concessione dell'impunità per queste condotte. Già dalla circolare di Oviglio ai Procuratori Generali emerge la volontà di ridimensionare le parzialità a favore dei fascisti che pure erano state motivate dalla necessità di sottrarre alla pena i delitti commessi per un «fine nazionale». Il superamento della congiuntura politica immediatamente successiva all'affermazione del fascismo e la definitiva sconfitta del movimento operaio, sembrano suggerire al governo una politica penale meno discriminatoria, anche per la personale tendenza moderata (130) del ministro guardasigilli Oviglio. Lo sbocco normativo della linea legalitaria orientata verso il superamento delle discriminazioni contro gli oppositori politici, si traduce nell'emanazione del R.D. 31.10.1923 n. 2278, che concede amnistia per i reati comunque determinati da movente politico o commessi in occasione di movimenti politici, agitazioni, competizioni e conflitti dovuti a cause economiche o sociali (131).Già l'oggetto del decreto mette in luce le contraddizioni della nuova normativa con il contenuto del provvedimento di amnistia emanato l'anno precedente, politicizzato al punto di con cedere il beneficio solo ai reati commessi dai fascisti. La correzione di rotta da parte del governo nel settore della politica penale attraverso il ricorso alla clemenza emerge anche dalla Relazione al Re contenuta nel decreto (132). La raggiunta «saldezza dello stato» e il «felice inizio della resurrezione politica ed economica» sono i motivi che sembrano giustificare l'abbandono dei criteri discriminatori introdotti nell'ordinamento con le indagini sul fine nazionale; la congiuntura politica in generale favorevole al fascismo suggerisce una linea di politica penale che corregge le eccezionali parzialità a favore dei militanti fascisti: la rilevante novità del decreto n. 2278 rispetto al provvedimento emanato nell'anno precedente è rappresentata dalla disposizione che concede il beneficio al reato politico a prescindere dalla motivazione ideologica dell'agente.

Sul piano normativo il decreto n. 2278 configura un profilo di reato politico non condizionato da particolari connotazioni nazionali o antinazionali: in questo il provvedimento sembra costituire un ritorno ai criteri tradizionali delle amnistie precedenti l'ottobre del 1922, emanate in relazione a reati determinati genericamente da movente politico, o commessi in occasione di movimenti politici.

L'abbandono del criterio del «fine nazionale» per qualificare la politicità dei reati, condiziona i criteri cui fare ricorso per l'applicazione concreta del beneficio. A questo proposto il legislatore suggerisce di spostare l'attenzione sull'occasione che ha determinato il reato, ai fini di stabilire dei criteri per la concessione dell'amnistia. Si dichiara esplicitamente che questa scelta tecnica serve a «supplire al difetto e alla difficoltà della prova del fine», per cui l'applicabilità del beneficio «discende dalla presunzione derivante dalle condizioni di fatto e di ambiente in cui il reato si è verificato». Anche l'adozione di un criterio tecnico che non dia adito ad indagini arbitrarie e discriminatorie sulla sussistenza di determinate finalità ideologiche, rappresenta un mutamento di rotta rispetto al decreto emanato l'anno precedente. In questo senso il provvedimento di amnistia è uno strumento di politica penale più equilibrata e meno discriminatoria: si avvale infatti di una tecnica giuridica e di criteri che consentono di individuare il carattere del reato in base a fattori prestabiliti, evitando il ricorso a criteri discrezionali passibili di interpretazioni arbitrarie, come quello esemplare dell'accertamento del fine nazionale.

Nell'ottica di ridimensionare le modificazioni introdotte nell'ordinamento dal decreto del «fine nazionale», il provvedimento di amnistia n. 2278 non si limita a prescindere dall'accertamento della finalità accennata, ma esclude anche l'applicabilità del beneficio ai reati determinati da motivi esclusivamente personali, separando nettamente la categoria dei delitti politici e quella dei delitti comuni. L'esclusione del beneficio riguarda anche i reati commessi da pubblici ufficiali o addetti a pubblici servizi in relazione alle mansioni loro conferite e i reati contro la sicurezza dello stato. A differenza del precedente decreto, il provvedimento n. 2278 concede l'amnistia anche ai vigilati e ammoniti per fatti dipendenti da movente politico (133).

La magistratura sembra recepire questa nuova linea politica ispirata a criteri di normalizzazione e pacificazione sociale e politica. E infatti, la giurisprudenza relativa all'ultimo decreto sembra complessivamente coerente con le direttive espresse dal testo del provvedimento e illustrate dalla relazione ministeriale al Re. L'orientamento prevalente a concedere l'applicazione del beneficio a tutte le fattispecie prese in esame è quindi una novità rispetto alle resistenze del passato, e contrasta con l'atteggiamento giurisprudenziale restrittivo, di cui si è dato conto soprattutto a proposito dei reati legati alle tensioni sociali avvenute prima del cambiamento del quadro politico.

Probabilmente proprio la definitiva affermazione del fascismo sulle altre forze politiche si ripercuote anche sull'attività giurisprudenziale, inducendo la magistratura ad intervenire meno duramente nei confronti delle manifestazioni di illegalismo connesse all'attività del movimento operaio, proprio perché questi comportamenti sono già stati sconfitti e repressi in altra sede.

Un esempio abbastanza significativo del fatto che la magistratura sia disposta ad ammettere il beneficio più largamente che in passato, è rappresentato dalle decisioni giurisprudenziali conformi alle tesi difensive dei ricorrenti. In questo senso si registra la concessione del beneficio al reato di oltraggio (134), al reato di istigazione contro lo stato nei confronti di alcune reclute (135), al reato commesso in occasione delle elezioni, per la presenza del «sostrato politico» (136). Accogliendo le tesi della «memoria difensiva» (137), una sentenza dà un'interpretazione estensiva del decreto n. 2278, dichiarando che l'esclusione del beneficio non riguarda tutti i reati commessi dai pubblici ufficiali, ma solo quelli nei quali la qualità di pubblico ufficiale dell'agente entri come elemento costitutivo dei reati stessi.

Sempre su questa linea, altre sentenze ammettono l'applicazione del beneficio al reato di oltraggio a pubblico ufficiale (138), ed al reato di istigazione a mezzo stampa rivolta ai militari al fine di istituire nelle caserme i consigli dei soldati e di formare sulle navi i consigli dei marinai «per trasportare i sistemi soviettisti nell'esercito e nella marina» (139).

Una rilevante eccezione agli orientamenti moderati di clemenza è rappresentato della discriminazione del reato anarchico, anche contro le previsioni del decreto n. 2278. In questo caso l'esclusione del beneficio si deve alla «mancanza del fine politico», che si ammette invece nel reato tendente a «favorire o realizzare idealità di partito o combattere partiti avversi nell'interesse della società» (140).





- Amnistie e delitto politico nella legislazione eccezionale.



5. I criteri di pacificazione sociale e politica, che erano stati alla base della politica penale perseguita da Oviglio, sono ripresi dal legislatore per giustificare l'emanazione di decreti di amnistia nel periodo successivo al 1923. Proprio con il consolidamento al potere da parte del regime, la volontà dell'esecutivo di eliminare le conseguenze penali dei reati politici assume la connotazione di una politica criminale atta a celebrare l'immagine di un governo forte al punto di poter magnanimamente elargire il beneficio agli oppositori politici ormai definitivamente vinti. E' esemplare di questa tendenza legislativa l'emanazione del R.D. 1.7.1925, che concede amnistia ai reati che hanno avuto per movente, diretto o indiretto, la « passione politica» (141). Il carattere di opportunità politica del decreto emerge dalla relazione del ministro guardasigilli Rocco, che esplicitamente motiva la volontà di contribuire alla «pacificazione di tutte le classi del popolo italiano» con la definitiva affermazione del fascismo sugli oppositori (142).

L'individuazione del reato politico offerta sul piano tecnico dal legislatore, è incentrata sul criterio del «fine», ritenuto più «razionale» del criterio obbiettivo. L'accentuazione soggettivistica - che sembra riproporre il criterio seguito in modo particolare dal decreto relativo alla ricerca del fine nazionale - nel decreto n. 1277 non consente una simile discriminazione, dal momento che l'art. 1 si riferisce a tutti i reati senza distinzione di fini politici, con la sola esclusione dei delitti contro l'unità e integrità dello stato, con la significativa limitazione di non consentire l'applicabilità del beneficio ai reati determinati da fini personali, e all'omicidio, anche preterintenzionale (143). Espressamente il legislatore definisce «largo» il contenuto del decreto, e afferma che la clemenza deve riferirsi, per essere efficace, a tutte quelle azioni criminose che siano state determinate da movente politico, con «criteri di relatività» in rapporto al periodo cui queste azioni si riferiscono.

Ancora una volta la magistratura sembra allinearsi alle direttive dell'esecutivo, l'indirizzo giurisprudenziale relativo al decreto risente dei criteri politici che hanno dettato il ricorso alla clemenza, ed esprime una sostanziale adesione al criterio del governo di concedere il beneficio per i reati comunque determinati da movente politico, con «criteri di relatività» in rapporto al periodo cui queste azioni si riferiscono.

Consapevole anch'essa che l'ordine è ormai ristabilito, la magistratura sembra addirittura accedere alla tendenza di amnistiare i reati politici esclusi dal beneficio negli anni precedenti. Un singolare riscontro alle direttive dell'esecutivo nell'attività giurisprudenziale è rappresentato dalla sentenza che dichiara possibile la concessione del beneficio per il fine richiesto dal decreto n. 1641, anche se una precedente sentenza della Cassazione ne avesse escluso l'applicabilità per mancanza del fine nazionale, requisito essenziale dello stesso decreto (144).

Analogamente si ammette che il beneficio deve essere concesso non solo agli autori di illegalità motivate dal «fine di far trionfare idee e programmi utili e necessari al risanamento politico della nazione, ma anche a coloro che abbiano offeso il diritto penale nel fuoco delle passioni politiche in genere» (145). Come si vede, siamo di fronte ad un ulteriore mutamento di tendenza rispetto alle decisioni che avevano ritenuto la militanza fascista condizione essenziale per la concessione del beneficio. La magistratura, pur esprimendo una netta condanna delle ideologie sovversive degli anni precedenti, consente l'applicazione del decreto di amnistia ai reati politici senza le discriminazioni a favore di fascisti attuate dall'ordine giudiziario limitando il beneficio ai delitti commessi per «fine nazionale».

Il nuovo criterio di applicazione del beneficio agli stessi reati esclusi in precedenza da una giurisprudenza costante si estende anche all'applicazione del decreto n. 1227 agli scioperi ferroviari (146) e alle invasioni di terre (147). Vengono amnistiati anche reati commessi per «passione partigiana», come l'interesse privato in atto dell'amministrazione comunale, e come il peculato e il falso commessi da sindaci e assessori per procurarsi fondi per la battaglia elettorale a favore delle leghe contadine (148).

Analogamente, non sembrano tenere conto di criteri di parzialità a favore dei fascisti né la sentenza che dichiara ammissibile il beneficio per il reato di oltraggio alla milizia (149), né quella che invece stabilisce l'inapplicabilità dell'amnistia per il reato di omessa denuncia di fucile da parte del milite della M.V.S.N., per l'assenza del fine politico (150). Vengono esclusi dal beneficio anche il reato connesso all'espulsione dal partito fascista (151), e il reato del militante fascista contro altri fascisti, se «determinato da un fine di personale ambizione» (152). Tuttavia i criteri di pacificazione e l'estensione della clemenza non giungono mai ad eliminare una particolare durezza della magistratura nei confronti dei reati connessi all'attività comunista e anarchica, sempre in coerenza con le direttive espresse dall'esecutivo attraverso circolari che invitano le autorità giudiziarie a svolgere un accurato controllo nei riguardi di tali «insidiose» condotte (153). E' esemplare di questo rigore della magistratura una sentenza che esclude il beneficio per il reato di diffamazione di un periodico comunista (154), mentre un'altra sentenza concede il beneficio per lo stesso reato commesso dal gerente di un periodico del quale la decisione non chiarisce l'orientamento ideologico o politico (155). Il movente personale di «non farsi arrestare» giustifica per la magistratura l'esclusione del beneficio al fatto dell'edicolante che espone giornali sovversivi (156), e ai reati anarchici, variamente definiti «delitti comuni» (157), «fatti vandalici o teppisti» (158), «attentati terroristici» (159).

Pur con la significativa esclusione del beneficio per i reati commessi dagli oppositori del governo comunisti e anarchici, con il consolidarsi del fascismo al potere la magistratura sembra complessivamente adeguarsi alle direttive dell'esecutivo senza disattendere gli inviti alla clemenza, come invece era avvenuto a proposito del decreto di amnistia emanato nel 1921. In precedenza infatti si è registrato nell'attività giurisdizionale un generale rigore anche oltre la lettera e lo spirito dei decreti di amnistia, per la tendenza dei giudici a farsi interpreti attenti e conseguenti del disagio provocato dalle lotte sociali in larghi settori della società italiana. La conseguita «normalizzazione» del quadro politico e sociale si ripercuote anche nell'attività giurisdizionale e la magistratura adotta un indirizzo generalmente favorevole all'estensione dei provvedimenti di amnistia, dal momento che il rafforzamento generale dell'esecutivo non impone più alla magistratura il ruolo di «argine» al sovversivismo dilagante assunto invece con fermezza negli anni precedenti (160).

Anche se il senso generale del R.D. 1.7.1925 non si discosta sul piano normativo e giurisprudenziale dal precedente decreto del 1923, ricollegandosi alla tendenza a vanificare le conseguenze dei reati commessi anche dagli oppositori politici, molti fattori per così dire esterni al ricorso alla clemenza modificano la portata dei provvedimenti di amnistia nel complesso della legislazione penale.

L'importanza dei decreti di amnistia ai fini della configurazione del carattere dei reati politici è stata rilevante durante l'arco di tempo del periodo considerato. Nell'immediato dopoguerra, come già accennato, le «amnistie della pacificazione» sono state lo sblocco normativo del tentativo di ricomposizione sociale portato avanti in sede politica dagli ultimi ministeri liberali. Del resto il ricorso alla clemenza si presenta sempre al governo come lo strumento normativo più immediato per regolare la materia dei reati politici e condizionare l'attività giurisdizionale relativa a queste condotte. I decreti di amnistia riguardanti delitti politici risultano in questo senso come i provvedimenti più condizionati dalla volontà dell'esecutivo, e in essi sono facilmente riscontrabili le direttive governative di politica penale. Date queste premesse, la configurazione del profilo dogmatico del reato politico appare di fatto contingentata dalle congiunture politiche: la necessità di vanificare gli effetti penali dei reati connessi alla crisi sociale dell'immediato dopoguerra si traduce sul piano giuridico nella scelta di definire oggetti del beneficio quei reati commessi in occasione di tumulti, moti popolari, e decreti del 1921, durante le agitazioni agrarie. Il ricorso alla clemenza da parte degli ultimi ministeri liberali riveste una notevole importanza nel complesso della legislazione fino ad assumere i connotati di una politica penale che nei confronti dei reati politici privilegia il momento della ricomposizione sociale anziché la repressione, anche se poi in pratica la magistratura di fatto vanifica queste direttive.

L'elargizione del beneficio ai reati politici in relazione alle cause che hanno determinato l'agente, sembra fra l'altro anticipare i contenuti di una legislazione penale che tenga conto delle nuove dinamiche sociali e configuri fattispecie come l'invasione di immobili o terreni pressoché inedite rispetto al codice Zanardelli. Nei decreti di amnistia del dopoguerra viene offerto dal legislatore un criterio di selezione dei reati sostanzialmente soggettivistico, incentrato sulle cause che hanno determinato l'agente e sul fine politico; anche sul terreno normativo questi provvedimenti rappresentano un'innovazione rispetto ai contenuti del codice che definisce i delitti politici da un punto di vista pressoché esclusivamente oggettivo.

L'accentuazione soggettivistica, che si presenta peraltro come un dato costante della legislazione e della scienza penalistica, viene poi enfatizzata dal decreto che indaga sulla sussistenza del «fine nazionale» dell'agente ai fini della concessione del beneficio. Lo spostamento dell'attenzione sul momento soggettivo del reato rappresenta l'innovazione introdotta nell'ordinamento dai decreti di amnistia che in misura più o meno maggiore affidano al movente dell'autore della condotta il criterio della selezione della politicità del reato. Il criterio soggettivo valorizzato dal ricorso alla clemenza viene accolto in seguito anche nella legislazione ordinaria; la nozione di delitto politico contenuta nel codice Rocco accoglierà i criteri soggettivi configurati dai decreti di amnistia, considerando politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici.

L'accennata politicità dei decreti di amnistia, intesa nel senso che questi provvedimenti risentono in modo particolare dei condizionamenti delle congiunture politiche, caratterizza in generale il ricorso alla clemenza; il fenomeno diventa però particolarmente vistoso con il decreto emanato immediatamente dopo la marcia su Roma. Con questo testo è infatti avanzata una politica diretta a cancellare le conseguenze penali delle illegalità fasciste, con l'esclusione significativa del beneficio per i reati commessi invece dagli oppositori del partito «nazionale».

Nei decreti di amnistia del 1923 e del 1925 si registra per così dire un ritorno alla normalità, con la tendenza a limitare gli aspetti più discriminatori che avevano caratterizzato il provvedimento emanato nel dicembre del 1922. La disponibilità a concedere il beneficio a prescindere dalle motivazioni ideologiche dell'agente, rappresenta il superamento dell'eccezionale discrimininazione contenuta nelle disposizioni normative che definiscono politico solo il delitto commesso per un «fine nazionale». Il cambiamento di politica criminale introdotto con i decreti di amnistia del 1923 e del 1925 appare ispirato dalla volontà del legislatore di chiudere una fase di contrasti politici, quando però è ormai superato il pericolo rappresentato dalle illegalità degli anni precedenti per la definitiva sconfitta del movimento operaio. Anche la configurazione dogmatica del profilo dei reati politici espressa da questi decreti sembra rappresentare un ritorno ai criteri tradizionali delle amnistie per le quali il delitto politico è quello commesso in occasione di conflitti politici, o quello determinato più soggettivisticamente da un fine politico, come precede il decreto di amnistia del 1925. Anche sul piano dogmatico appare evidente l'inversione di rotta operata da questi provvedimenti rispetto all'amnistia concessa nel 1922. Il profilo teorico del reato politico non è più caratterizzato dalla pregnante condizione della finalità ideologica nazionale - come invece esigeva il decreto n. 1641 - e con gli ultimi provvedimenti di amnistia il rilievo dogmatico del delitto politico viene ulteriormente specificato in senso soggettivistico, pur senza previsioni di parzialità a favore di un movente specifico rispetto ad altri.

I decreti di amnistia non assumono rilevanza in rapporto alla materia dei delitti politici sul solo piano teorico e non si limitano a contribuire alla costruzione dogmatica di questi reati, anche se, come accennato, l'accentuazione soggettivistica della condotta trova un notevole riconoscimento, poi accolto anche nel codice, proprio in questi provvedimenti.

Il ricorso alla clemenza assume fra l'altro le caratteristiche di una forma tutta particolare di interferenza dell'esecutivo nell'attività giurisdizionale relativa ai reati politici, suggerendo alla magistratura criteri di comportamento verso questi reati incentrati sulla sospensione dell'efficacia punitiva della legge. In questo senso le «amnistie politiche» rivestono le caratteristiche di una politica penale in relazione a queste forme di illegalità connesse alla crisi sociale e politica del dopoguerra, anche se, come accennato, l'atteggiamento della magistratura non sempre traduce le direttive dell'esecutivo in scelte giurisprudenziali puntuali e coerenti. L'indirizzo giurisprudenziale relativo all'applicazione dei decreti di amnistia si presenta infatti tutt'altro che uniforme, dal momento che la magistratura sembra disposta ad offrire dei criteri estesi di concessione del beneficio ai reati politici solo dopo il cambiamento della situazione successivo all'ottobre del 1922. Nonostante le resistenze della magistratura ad applicare i decreti, il ricorso alla clemenza riveste anche una notevole importanza pratica in riferimento ai delitti politici, dal momento che sospende l'efficacia della legge per alcuni di questi reati.

La rilevanza delle amnistie nel complesso della legislazione e nella pratica giurisprudenziale sembra subire una grossa modificazione in seguito al rigore con il quale il regime regola la materia dei reati politici dopo la « svolta» del 1925. Sono infatti introdotte nell'ordinamento penale delle disposizioni che sembrano segnare una vera e propria rottura con la normativa precedente relativa al delitto politico. Nell'ambito delle leggi eccezionali, dette anche «leggi fascistissime» per la pregnante caratterizzazione autoritaria, vengono emanati provvedimenti severissimi contro gli oppositori all'estero e comminate sanzioni come il bando o la confisca dei beni. Lo stesso T.U. delle leggi di pubblica sicurezza (approvato con R.D. 6.11.1926 n. 1848), con l'estensione formale del confino di polizia anche agli autori di reati politici, introduce in tal modo una novità nella disciplina di questi reati. La rottura più vistosa con la legislazione precedente in tema di delitti politici è comunque rappresentata dalla legge per la difesa dello stato (161), che introduce la pena di morte per gli attentati contro il Re e il Capo del governo, e per i più gravi delitti contro la sicurezza dello stato. Essa configura, fra l'altro, come reato, la ricostituzione di organizzazioni disciolte e la propaganda delle dottrine da esse propugnate, e istituisce per questi reati un tribunale speciale formato da ufficiali dell'esercito, della marina, e soprattutto, nella pratica, della milizia.

Il ricorso ad una risposta eccezionalmente dura nei confronti dei delitti politici condiziona fortemente anche la funzione delle amnistie, che in questo quadro diventano l'eccezione alla regola. Il rigore contro i reati politici assegna alla clemenza il ruolo poco rilevante di manifestazione esteriore della magnanimità del regime verso gli oppositori, le amnistie si limitano ad enfatizzare i criteri di pacificazione nella consapevolezza dell'avvenuto consolidamento al potere, già espressi da Rocco nella relazione al decreto di amnistia del 1925. La forza del governo appare accresciuta dal ricorso alla clemenza che rimane in realtà priva di conseguenze effettive, dal momento che la legislazione e la giurisprudenza del tribunale speciale incidono relativamente sulla materia dei delitti politici. Altri elementi confermano le caratteristiche del ricorso alla clemenza come strumento adatto a dimostrare la forza e la serenità del governo nei confronti degli oppositori politici, mentre le conseguenze reali della drastica repressione perseguita con le leggi eccezionali nei confronti delle opposizioni poco hanno a che vedere con la clemenza. Innanzitutto l'equanimità del governo nei confronti dei delitti politici a prescindere dal movente ideologico - che pure risulta sottesa alle disposizioni del decreto di amnistia del 1925 - viene contraddetta dalle disposizioni del R.D. 27.10.1927, n. 1893 (162), che consentono la omissione del certificato penale del casellario giudiziale delle condanne per reati commessi per un fine nazionale; non si considera conciliabile il «nobile fine» che ispirò l'illegalismo fascista con la «grave menomazione morale» rappresentata dall'iscrizione nel casellario (163).

Il carattere di mera esteriorità del ricorso alla clemenza, priva di conseguenze effettive sul piano della prassi giurisdizionale relativa ai delitti politici, è confermato anche dall'effettiva titolarità del potere di amnistia nella fase politica successiva al 1925. Come accennato, nel 1920 erano state avanzate delle proposte per democratizzare la titolarità dell'istituto, affidando ad una legge formale del Parlamento, organo più rappresentativo del governo, il compito di definire i contenuti della clemenza. Il radicale cambiamento della situazione politica condiziona pesantemente la materia, e in seguito alla legge del 1925 sulle prerogative del Capo del Governo, la preminenza gerarchica di quest'organo si afferma anche per gli atti di amnistia: viene infatti affidato al capo del governo il potere di proporre l'amnistia, che in precedenza veniva invece emanata dal Re su proposta del guardasigilli con il consenso degli altri ministeri (164).

Il mutamento della titolarità del potere di amnistia non è interessante solo sul piano della disciplina teorica dell'istituto, ma contribuisce anche ad accentuare la natura discrezionale e l'origine arbitraria e dispotica del ricorso alla clemenza. In seguito alle disposizioni relative alle attribuzioni del Capo del Governo, l'istituto dell'amnistia subisce un'ulteriore politicizzazione, dal momento che la titolarità della clemenza viene ancora più accentrata.

Questi elementi, ma soprattutto la portata e la ripercussione delle leggi eccezionali precedentemente schematizzate e riassunte, condizionano pesantemente la natura della clemenza nei confronti dei delitti politici, e accentuano i caratteri delle amnistie come strumento di stabilità della politica penale del regime, privo del. tutto però di incidenza pratica e di significato normativo. Questa caratteristica è presente in particolar modo anche nella «amnistia del decennale» (165) che appare motivata dai criteri accennati della serenità «olimpica» del regime nei confronti degli oppositori politici. Contemporaneamente al rafforzamento della repressione esercitata dal tribunale speciale, e, in sede extragiudiziale, dall'O.V.R.A. - un organo creato nel 1927 per la repressione delle attività antifasciste e affiancato alla questura - e dalle commissioni per il confino, la ricorrenza del decimo anniversario della marcia su Roma sembra offrire al regime l'occasione di dare prova di forza e stabilità sottraendo alla pena il dissenso politico. Risente di questa impostazione di offrire un segno esteriore di magnanimità, la disposizione del decreto che prevede come criterio selettivo dei reati da amnistiare la pena edittale di cinque anni. In questa previsione l'amnistia del decennale si presenta come il decreto più ampio tra quelli emanati in precedenza in relazione ai delitti politici, dal momento che il beneficio può essere applicato anche al reato di offese al Capo del Governo.

L'ampiezza del beneficio concesso a tutti i delitti politici puniti con una pena non superiore a cinque anni, non sembra comunque condizionare la normativa o il profilo dogmatico del reato politico, restando nel complesso della legislazione un elemento per così dire «di facciata» e marginale.

Anche se i decreti di amnistia sono sempre stati caratterizzati dalla vistosa connotazione di strumenti discrezionali del potere politico, con la svolta operata con l'introduzione delle leggi eccezionali nell'ordinamento questa caratteristica sembra accentuarsi. In precedenza il ricorso alla clemenza in riferimento ai reati politici era apparso come uno strumento di politica penale in qualche modo in grado di incidere sulla legislazione e sull'attività giurisdizionale relative alla materia. In questo senso i decreti di amnistia avevano contribuito alla costruzione dogmatica del delitto politico accentuandone le connotazioni soggettivistiche, e, sul piano della politica criminale, avevano tentato di definire la politicità di alcune condotte inedite rispetto agli schemi penali trasmessi dal codice Zanardelli. In particolare l'aver incentrato il criterio di selezione della politicità del reato sulle cause all'origine della condotta delittuosa e sul fine dell'agente, aveva rappresentato una anticipazione di una normativa orientata nel tener conto di questi criteri.

La «svolta» operata con l'introduzione delle leggi eccezionali nel biennio 1925-26 - importante nel complesso dell'edificazione del «regime di polizia» (166) - muta radicalmente le caratteristiche del ricorso alla clemenza, che in questo quadro non suggerisce più criteri e orientamenti di politica criminale in grado di incidere realmente nella materia dei reati politici. E' esemplare di questa funzione meramente esteriore delle amnistie, il fatto che i decreti vengono emanati dal governo in occasione di determinati avvenimenti da celebrare con l'elargizione della clemenza sovrana, come le nozze del principe ereditario alla base del decreto del 1930 o la ricorrenza del decimo anniversario della marcia su Roma per l'amnistia del decennale emanata nel 1932.

La «svolta» operata con l'introduzione delle leggi eccezionali nei confronti degli oppositori del fascismo rimane comunque una dichiarazione puramente teorica, motivata dalla volontà di offrire una dimostrazione di forza concedendo un ampio beneficio a favore degli avversari politici. La clemenza rimane però priva di conseguenze reali, dal momento che la legislazione ordinaria è destinata a svolgere un ruolo essenziale nella repressione dei delitti politici senza che i decreti di amnistia possano costituire un ostacolo a questa funzione.

E' particolarmente significativo del ruolo di preminenza della legislazione e della mera esteriorità del ricorso alla clemenza, il fatto che l'amnistia del decennale venga emanata poco dopo il codice Rocco. Infatti in questo testo - destinato a sopravvivere al legislatore fascista - vengono espressi dei criteri e dei contenuti penali in tema di delitti politici che poco hanno a che vedere con la clemenza. La nozione di reato politico offerta dal codice appare innanzitutto vistosamente estesa, con il riferimento al delitto politico configurato oggettivamente e soggettivamente. Il codice attribuisce infatti la caratteristica di delitto politico anche al delitto comune determinato, in tutto o anche solo in parte, da movente politico. Alla base dell'allargamento della nozione traspare con evidenza la volontà del governo di estendere al massimo l'operatività della sanzione, per conseguire l'incriminazione delle più svariate condotte delittuose (167).

Anche la parte speciale del codice che si riferisce ai delitti politici si inserisce in un'ottica diametralmente opposta a quella sottesa al ricorso alla clemenza, dal momento che la durezza delle sanzioni comminate per i delitti politici, che per il legislatore assumono una gravità eccezionale, non sembra poter ammettere eventuali rinunce alla tutela penale della « personalità dello stato» (168).

All'amnistia del decennale seguono altri provvedimenti di clemenza; fra questi il R.D. 25 settembre 1934, n. 151 ha per oggetto anche i reati di espatrio clandestino e i reati in «materia di emigrazione» (fattispecie politiche create dal regime con leggi speciali del 1926) ma esclude i delitti di spionaggio, anche colposo, l'associazione per delinquere e altri comuni.

Si registra poi un R.D. 5.12.1935, n. 2147 che concede amnistia per i reati commessi in occasione o a causa degli incidenti religiosi occorsi nell'isola di Calino (169).

Appartiene alla classe dei decreti di amnistia emanati in occasione di eventi particolarmente «fausti» - in questo caso la nascita di un principe della famiglia reale - il R.D. 15.2.1937, n. 77. Il beneficio viene esteso a tutti i reati puniti con pene non superiori nel massimo a tre anni, con la significativa esclusione dei delitti politici; tra i reati contro la personalità dello stato esclusi dal decreto il procacciamento di notizie e lo spionaggio (170).

Ancora la nascita di un principe ispira il R.D. 24.2.1940, n. 50 che significativamente esclude dal beneficio i sottoposti alla libertà vigilata, all'ammonizione e al confino di polizia, gli autori di delitti contro la personalità dello stato. Alle soglie del conflitto mondiale al regime non sembra opportuna una specifica «clemenza politica», una rinunzia alla potestà punitiva proprio nei confronti dei reati contro lo stato; infatti altri decreti hanno per oggetto i reati finanziari. I provvedimenti che indirettamente estendono la clemenza penale anche ad alcuni meno gravi reati politici, sono comunque «pensati» in modo da escludere l'applicabilità del beneficio a tutte le manifestazioni di opposizioni al regime fascista.

Anche il R.D. 17.10.1942, n. 1156, enfaticamente battezzato «amnistia del ventennale» (171), e ispirato «dalla clemenza che rafforza la fede e i propositi del popolo combattente», esclude ancora i delitti contro la personalità dello stato; infatti, il legislatore ritiene che « nessun perdono è ammissibile per chi svolge comunque un'attività delittuosa suscettibile di recare nocumento alla resistenza economica e morale della Nazione in armi» (172).

Una decisione relativa all'«amnistia del ventennale» sembra accogliere le direttive del legislatore ed esclude dal beneficio anche il « ;vilipendio della Nazione italiana», inteso come delitto contro la personalità dello stato (173).





NOTE.



1) "Amnistie, condoni e indulti. Raccolta cronologica completa dalla proclamazione del Regno d'Italia", Santa Maria C.V. 1950; "Codice delle amnistie, degli indulti e delle grazie", a cura di A. Jannitti Piromallo, Firenze 1940; vedi in questo libro il cap. 2.



2) "Amnistie, condoni", cit., p. 5. Il R.D. 7.7.1905 n. 437 (amnistie e indulto per reati commessi in occasione di sedizioni e tumulti), all'art. 1 concede amnistia per i reati di azione pubblica preveduti dalla legge sulla stampa; per i reati contro la libertà del lavoro; per i delitti previsti dagli artt. 125, 126, 140, 246, 249, 251. Gli stessi reati vengono amnistiati se commessi «in occasione di moti popolari, pubbliche dimostrazioni o tumulti».



3) "Amnistie, condoni", cit., p. 39. Il R.L. 21.2.1919 n. 157 concede il beneficio per reati militari; il R.D. 21.2.1919 n. 158, all'art. 5 (reati politici e di stampa concede amnistia per reati previsti dagli artt. 115, 118, 122, 123, 125, 126 c.p.; in relazione a questi, per i reati previsti dagli artt. 134 e 137; per i reati previsti dagli artt. 246, 247, 251 c.p.; per tutti i reati commessi in occasione di moti popolari, pubbliche dimostrazioni o tumulti, determinati da cause politiche o economiche.



4) "Amnistie, condoni", cit., p. 43. L'art. 7 del decreto concede amnistie per i reati commessi in occasione di moti popolari, pubbliche dimostrazioni o tumulti; l'art. 8 concede il beneficio ai reati contro la libertà del lavoro, all'abbandono indebito del proprio ufficio, al reato di violenza e resistenza all'autorità, all'oltraggio contro persone rivestite di pubblica autorità, ai reati di istigazione a delinquere e ai reati contro la proprietà. Con il R.D. 5.10.1920 n. 1414 l'operatività di questo precedente decreto di amnistia viene estesa, per i delitti contro la libertà del lavoro, fino al febbraio 1920.



5) Il criterio di selezione dei reati si presenta fondato, più che sulla definizione giuridica del fatto, sulle cause originarie del delitto. Il beneficio non sembra quindi esteso a tutti i reati aventi movente politico o economico, ma solo a quei reati commessi durante moti o tumulti. Su queste specificazioni insiste T. Brasiello, "nota sentenza", in « Giustizia Penale», 1919, col. 361. Sul contenuto dei provvedimenti di amnistia relativi alle contese sociali del 1919, G. Nappi, "L'amnistia della pacificazione", in «Scuola Positiva», 1919, p. 20.



6) Il R.D. 14.9.1919 n. 1743 «Per la riforma delle leggi penali», in "Dizionario Penale", 1920, p. 3, istituisce la commissione presieduta da Ferri, e comprendente Garofalo, Florian, De Nicola, Ottolenghi, De Notaristefani, e i commissari non positivisti, Carnevale e Stoppato. L'orientamento scientifico totalmente positivista della commissione induce Carnevale e Stoppato alle dimissioni. Su queste vicende, E. Carnevale, "Le basi del progetto di codice penale elaborato dalla commissione istituita con R. D. 14.9.1919", in «Rivista Penale», 1923, p. 305.



7) Così W. Valsecchi, "Note e commenti alla recente amnistia", in «Scuola Positiva», 1919, p. 20.



8) Presso l'archivio di stato di Firenze sono reperibili le sentenze emesse dal tribunale per reati annonari e violazioni al calmiere da parte dei commercianti, i quali, subito dopo l'ammenda comminata dal tribunale, commettono lo stesso reato. Circa l'elevato numero dei reati annonari oggetto delle «amnistie della pacificazione», confer Tribunale di Firenze, "Atti Penali 1876-1923", particolarmente, 1919, sentenza n. 655, 9.7.1919, e sentenza n. 657, 10.7.1919.



9) Circa il fatto che l'effetto dei provvedimenti di amnistia è quello di aumentare la «litigiosità intensiva», nel senso che tutti o almeno tutti quelli che possono pagarsi l'avvocato cassazionista «vanno in Cassazione» (e se non hanno i motivi se li inventa no), nella speranza che l'amnistia intervenga prima che la Cassazione abbia deciso sul ricorso, confer G. Moech, "La giustizia in Italia", Milano 1970, p. 101.



10) Sulle leggi di amnistia per i reati politici del l.10.1919, 29.4.1921, 3.1.1925, 26.12.1931, 13.7.1933, confer R. Merle-A. Vitu, "Traité de droit criminel", Paris 1967, p. 1297.



11) Tra i trattatisti, confer H. Donnedieu De Vabres, "Traité de droit criminel et de législation pénale", Paris 1947, p. 550.



12) «Amnistie», in "Dictionnaire de droit", Paris 1966.



13) Circa il decreto 21.2.1919, n. 158, confer "Amnistie, condoni", cit. p. 39.



14) Per il testo completo della legge, confer, "Journal du Palais. Lois, décrets, reglements et instructions d'intert géneral" , 1921, p. 302.



15) "Journal", cit., 1925, p. 1999.



16) Confer H. Donnedieu De Vabres, "Traité", cit., p. 120.



17) «Amnistie», in Dalloz, "Repertoire de droit pé nal", 1967.



18) P.A. Papadatos, "Le délit politique. Contribution à l'étude des crimes contro l'tat", Genève 1940, p. 40 ; H. Donnedieu De Vabres, "Traité", cit., p. 582.



19) Cass. Crim., 5.11.1921, in "Journal", cit., 1921, p. 2.



20) S. Strachounsky, "De la détermination des délits à ; caractère politique", Montpellier 1926.



21) Cass. Crim. 12.2.1925, in "Journal", cit., 1925, p. 2000. Sul valore di questa sentenza nella giurisprudenza successiva, costante nell'escludere dall'applicazione delle amnistie i sottoposti a misure di sicurezza, confer G. Levassur-P. Doucet, "Le droit pénal appliqué", Paris 1969, p. 377.



22) F.C. Schroeder, "Der Schutz von Staat and Verfassung im Strafrecht", Mnchen, 1970, p. 112.



23) H. Schmidt, "Begnadigung and Amnestie in Handbuch des Deutschen Staatsrecht", Tbingen 1932, p. 564. Circa i «politischen motiven» delle leggi di amnistia del 4.8.1920 e 21.7.1922, confer " Worterbuch des Vlkerrechtes", Mnchen 1960, p. 41.



24) Von Hippel, "Lehrbuch des Strafrechts", Berlin 1932, p. 184, n. 7.



25) F.C. Schroeder, "Der Schutz", cit., p. 112.



26) Ibid., p. 113.



27) "Annuario di diritto comparato e di studi legislativi", Roma 1920, p. 819, e 1931, p. 402, accenna al contenuto delle leggi tedesche di amnistia.



28) E. Gallo, "Il delitto di attentato nella teoria generale del reato", Milano 1966, illustra il percorso della legislazione e della scienza penalistica dalla tendenza sintomatica tipica dell'ancien régime alla moderna dogmatica del reato.



29) F. Neuman, "Behemot. Struttura e pratica del nazionalsocialismo", Milano 1967, p. 41, insiste sul ruolo della magistratura tedesca come « centro di controrivoluzione» per le parzialità a favore della destra estrema.



30) H. Sinzheimer - E. Frankel, "Die Justiz in der Weimarer Republik, Eine Chronik", Berlin 1968; ibid, introduzione di O. Kircheimer.



31) Così P. Calamandrei, "La crisi della giustizia penale secondo un recente libro", in «Scuola Positiva», 1923, I, p. 118. La recensione di Calamandreai al libro di Kupper, "Warum versagt die Justiz?" si presenta particolarmente interessante per l'analisi del condizionamento esercitato sull'attività giurisdizionale dal potere politico. Inoltre l'autore illustra le analogie tra l'Italia e la Germania nel settore dell'amministrazione della giustizia, svolgendo anche un profilo parallelo del ruolo esercitato dalla magistratura nei due paesi.



32) P. Calamandrei, "Il programma di politica giudiziaria dei socialisti tedeschi", in «Rivista di diritto commerciale», 1922, p. 115, accenna all'origine sociologica di classe e alla cultura della magistratura tedesca in netta contrapposizione ideologica con i capisaldi del programma di Weimar per la riforma della giustizia.



33) F. Neuman, "Behemot", cit., p. 44; F.C. Schroeder, "Der Schutz, cit, p. 112, illustra la «politica dei due pesi» adottata dalla magistratura nei confronti degli imputati per delitti politici, la repressione dei moti spartachisti, e le impunità garantite ai militanti della destra.



34) A.A. P.P., Camera dei Deputati, Leg. XIXV, sess. 1919-20, doc. n. 285. Sulla proposta di Mortara, avanzata da tempo, di concedere amnistia con legge formale del parlamento, L. Mortara, "Il diritto di amnistia e il Parlamento", in «La riforma sociale», 1895, 111, 391 e 576.



35) A.A. P.P., Camera dei Deputati, Leg. XXVI, sess. 1921, doc. n. 495.



36) G. Zagrebelsky, "Amnistie, indulto e grazia. Profili costituzionali", Milano 1974.



37) A. Rocco, "L'amnistia e il Parlamento", in «L'idea nazionale», 2.2.1920, insiste sulla demagogia insita nella proposta governativa di spogliare il Re della sua prerogativa.



38) G. Escobedo, "Bolscevismo amnistiaiolo", in «Giustizia Penale», 1920, p. 661, polemizza contro il governo che proprio di fronte al dilagare dei comportamenti che minacciano la società, ricorre alla clemenza.



39) In relazione al R.D. 24.10.1921 n. 1419, il direttore di «Rivista Penale» parla di «un beneficio del quale esultano i malfattori e i loro amici politici, massime popolari (vulgo clericali), che primi furono a invocarlo per le loro pecorelle rurali per incoraggiare nuove violenze», cronaca in «Rivista Penale», 1921, p. 488.40) M. Torre, "Punti oscuri e incongruenze nei quattro decreti di amnistia", in «Rivista Penale», 1919, p. 312.



41) F. Garofalo, "Grazie, amnistie e indulti. Relazione per la Commissione di Statistica e Legislazione", in Dizionario Penale, 1921, p. 4.



42) Calamandrei, "Governo e magistratura", Siena 1922.



43) Oltre agli altri G. Cuomo, "A proposito della recente amnistia", in «Rivista Penale», 1919, p. 232, sottolinea il criterio di opportunità politica alla base del ricorso alla clemenza. Confer la "nota di redazione", in «Rivista Penale», 1919, p. 245, sul merito dell'articolo di Cuomo giudicato troppo «benevolo» nei confronti dei delitti politici.44) R.D. 23.10.1921 n. 1419, che all'art. 2 concedeva amnistia per l'invasione di terreni o fabbricati rustici, per l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, per le ipotesi di violenza privata, per il danneggiamento, per l'appropriazione indebita e per l'estorsione, commessi in occasione delle agitazioni agrarie. Confer " Amnistie", cit., p. 59.



45) La circolare Rodinò in «Giustizia Penale», 1921, col. 1504.



46) Il criterio di indagare sull'occasione della causa generatrice del reato sembra prevalere sui criteri oggettivi di individuazione del reato. Questo per quanto in particolare attiene al R.D. n. 1419.



47) Appello Bologna 28.1.1921, in «Scuola Positiva», 1921, II, p. 332.



48) Cass. Roma 25.11.1921, in «Scuola Positiva», 1921, II, p. 439.



49) Cass. Roma 19.3.1920, «Procedura Penale Italiana», 1920, p. 271.



50) Cass. Roma 9.5.1920, in «Giustizia Penale», 1920, col 682.



51) "Nota critica a sentenza", Ibid, «E così l'amnistia negata pel fatto men grave è concessa per il più grave».



52) Cass. Roma 27.10.1919, in «Rivista di diritto e Procedura Penale Italiana», 1920, p. 32. «La locuzione "in occasione" usata dall'art. 5 si riferisce non già a tutti i fatti che possano avere un qualsiasi legame di dipendenza causale con la dimostrazione o il tumulto, ma a quelli soltanto che siansi verificati in essi o durante o poco dopo, allorché la eccitazione degli animi, mentre spingeva i partecipanti ad atti incoscienti, toglieva loro la riflessione». Questa sentenza che limitava gli effetti del beneficio aveva diversi precedenti, confer, Cass. Roma, «L'art. 1 lettera B del decreto 28.12.1914 che concede il beneficio ai reati che hanno solo un rapporto di limitata relazione con essa, essendo posteriori e non contemporanei» sentenza di conferma Trib. Ravenna, in «Giustizia Penale», 1916. Analogamente Cass. Roma 11.6.1919, « Procedura Penale Italiana», 1919, col. 444.



53) Assise Firenze 9.12.1921, "Massimario Giurisprudenza", in « Giustizia Penale», 1922, col. 274. Analogamente Cass. Roma 10. 12.1920, in «Procedura Penale Italiana», 1921, col. 91.



54) Confer art. 7 R.D. 2.9.1919 n. 1501; in "Amnistie", cit., p. 43.



55) Cass. Roma 19.1.1921, in «Scuola Positiva», 1921, p. 17.

56) Confer "nota critica a sentenza Cass. Roma 19.1.1921", « Proc. Pen. It.», 1921, col. 1. «Purtroppo la propaganda ha un proprio contenuto, destabile quanto si vuole, ma chiaro e preciso. Piuttosto non sarebbe il caso di largheggiare nelle amnistie per i reati commessi durante tumulti». Un precedente nel quadro della discriminazione politica da parte della magistratura, è rappresentato dall'esclusione netta del delitto anarchico dall'applicazione dei decreti di amnistia. Sul punto confer E. Florian, "Introduzione di delitti in ispecie", Torino 1915, p. 162.



57) Confer R.D. n. 1419, "Amnistie", cit., p. 59.



58) Cass. Roma 19.3.1920, in «Giustizia Penale», 1920, col. 272.



59) Assise Firenze, confermata Cass. Roma 9.12.1921, «Giustizia Penale», 1921, col. 274.



60) Cass. Roma 9.12.1921, «Giustizia Penale», 1921, col. 249, conferma sentenza Trib. Viterbo.



61) Cass. Roma, 28.12.1921, «Giust. Pen», 1922, col. 245.



62) Su questi rilievi, confer Ibid., G. Escobedo, "Se l'amnistia sia applicabile al reato di invasione di terre", col. 255.



63) Cass. 17.12.1922, ancora in relazione al reato di invasione di terre. Sulla sentenza confer F. Martini, "Un caso di amnistia", in «Rivista Penale», 1922, p. 367.



64) App. Bologna, confermata Cass. Roma 9.11.1921, in «Giustizia Penale», 1922, col. 524.



65) Cass. Roma 17.2.1922, in «Rivista Penale», 1922, p. 367.



66) Cass. Roma 28.11.1921, in «Giustizia Penale», 1922, col. 411.



67) Trib. Sassari, confermato Cass. Roma 5.2.1921, in «Giustizia Penale», 1922, col. 275.



68) Cass. Roma 28.11.1921, in «Giustizia Penale», 1922, col. 411; confer nota critica di Escobedo: «Le ultime amnistie spesso pongono l'imputato nella condizione di dover dimostrare che egli ha commesso un reato più grave per poter godere dell'amnistia».



69) Cass. Roma 5.5.1922, in «Giustizia Penale», 1922, col. 1021.



70) A. De Marsico, "La difesa sociale contro le nuove forme di delitto collettivo", in «Rivista Penale», 1920, p. 201 segg., fra l'altro afferma una sorta di responsabilità penale collettiva per le organizzazioni sindacali.



71) Per gli studi più famosi sulla «folla delinquente», confer S. Sighele, "Il delitto politico", in «Archivio Giuridico» , 1891, p. 555 s.; Ib., "I delitti della folla studiati secondo la psicologia, il diritto, la giurisprudenza", Torino 1910; A. Santoro, " ;I fatti di Romagna e la teoria positivista della folla", in «Scuola Positiva», 1915.



72) Trib. Bari, 25.4.1922, in E. Ferri, "Principi di diritto criminale", Torino 1928, p. 180 segg.



73) Così V. Di Francia, "Occupazione arbitraria di immobili", in «Scuola Positiva», 1922, p. 102.



74) Trib. Siena 23.7.1919, in «Scuola Positiva», 1919, p. 319.



75) W. Valsecchi, "I moti per il caroviveri"; in «Scuola Positiva», 1919, p. 30.



76) E. Ferri, "Principi", cit., p. 187.



77) E. Florian, "La minaccia della folla", in «Giustizia Penale», 1920, p. 1540, critica questa interpretazione pretestuosa del contegno psicologico della folla durante gli assembramenti, e l'incriminazione da parte della magistratura delle manifestazioni di massa, anche a prescindere dalla commissione di reati.



78) App. Roma 27.1.1921, «Foro Italiano», 1922, II, 94. Cass. 23.2.1921, «Foro Italiano», 1922, II, 52; Trib. Milano, 29.6.1921, «Foro Italiano», 1922, II, 260, si riferiscono alle occupazioni abusive di case da parte dei senza tetto. Da queste sentenze emergono i motivi della difesa dell'ordine pubblico minacciato da questo tipo di condotte, e dell'avversione nei confronti delle nuove dinamiche sociali.



79) Per tutti G. Escobado, "Quale reato commetta il macchinista, il quale si rifiuta di far partire il treno se prima da esso non discendano i carabinieri che viaggiano per ragioni di servizio", in «Giustizia Penale», 1922, col. 786, conclude che l'evoluzione della criminalità ; politica e sociale fa sì che non sempre le leggi vigenti si adattino alle nuove fattispecie.



80) U. Conti, "Sul delitto politico (brevi note in margine)", in «Rivista Penale», 1924, p.p. 19-20.



81) Soprattutto E. Massari, "Politica e giustizia penale", in Dizionario Penale, 1921, p. 150.



82) G. Neppi Modona, "Sciopero, potere politico e magistratura 1870-1922", Bari 1969, p. 236, sull'«assenteismo della magistratura» nei confronti dell'occupazione delle fabbriche, coerentemente con le direttive di Giolitti.



83) G. Marasco, "L'occupazione delle fabbriche da parte della maestranze" in «Rivista Penale», 1921, p. 75, sostiene che l'inerzia della magistratura è da addossarsi alla mancanza di sanzioni opportune nella legislazione. Analogamente, L. Severino, "nota a sentenza", «Foro Italiano», 1921, II, 260, afferma che il potere giudiziario non può agire se non viene «stimolato» dall'esecutivo.



84) G. Arrivabene, "Il diritto nuovo", in "Dizionario Penale", 1921, p. 1.



85) A questo proposito, sotto il titolo "Politica Criminale", è ; pubblicato un violento attacco contro l'arrendevolezza del governo di fronte al dilagare dei reati politici e sociali, confer la rubrica "Cronaca" in «Rivista Penale», 1921, p. 544.86) N. Tranfaglia, " Magistratura e classi sociali nell'età giolittiana: ipotesi di lavoro", in «Politica del diritto», 1972, n. 3-4, p. 523, evidenzia il ruolo di mediazione fra le classi svolto dalla magistratura in epoca giolittiana, e il contributo offerto dall'ordine giudiziario alla realizzazione del programma politico di Giolitti.



87) Come esempi della dottrina penalistica liberale, critica degli eccessi repressivi della magistratura nei riguardi dell'opposizione politica, e sul tentativo di ritagliare all'interno del sistema penale spazi di libertà per i cittadini (borghesia), sono opere significative, V. Wautrain-Cavagnari, "Delitti contro l'ordine pubblico", in "Trattato teorico e pratico del diritto penale del Cogliolo", II, parte I, Milano 1888; R. De Rubeis, "Dei delitti contro l'ordine pubblico" in "Enciclopedia del diritto penale", a cura di E. Pessina, VII, Milano 1907.



88) Così C. Fiore, "I reati d'opinione", Padova 1972, p. 161.



89) Un'analisi sociologica sull'origine dei magistrati, soprattutto di Cassazione, in P. Saraceno, "Alta magistratura e classe politica dalla integrazione alla separazione", Roma 1979.



90) N. Tranfaglia, "Dallo stato liberale al regime fascista, Problemi e ricerche", Milano 1967, p. 168, ricerca l'«autonoma vocazione conservatrice della magistratura» nella composizione sociologica dei suoi membri, nella loro estrazione borghese, e nei criteri selettivi per la formazione dei quadri. Sugli stessi temi insiste anche G. Neppi Modona, " Sciopero", cit., p. 145 segg.



91) Il panorama completo delle sentenze della magistratura, soprattutto della Cassazione, indirizzate a reprimere il dissenso politico per tutto l'arco di tempo dello stato unitario, è offerto da G. Tringali, voce " Istigazione a delinquere", in "Dizionario Politico", Milano 1903, p. 463, Un'«antologia» delle sentenze contro socialisti e anarchici in V. Fazio-C. Viazzi, "Istigazione a delinquere e apologia di reato nella giurisprudenza dall'unità ad oggi", in «Politica del diritto», 1972, n. 3-4, p. 533. Sul «socialismo illecito» che istiga a disobbedire alle leggi, il recente R. Canosa-A. Santosuosso, " ;Magistrati, anarchici e socialisti alla fine dell'ottocento in Italia", Milano 1981.



92) Sulla legislazione che regola l'ordinamento giudiziario in età liberale e sulle riforme introdotte dal fascismo, A. Pignatelli, "I controlli politici sul giudice dallo stato liberale al regime fascista", in «Politica del diritto», 1975, n. 1, p. 103.



93) G. Neppi Modona, "La magistratura e il fascismo", in « Politica del diritto», 1972, n. 3-4, p. 568, mette in rilievo le ripercussioni nel complesso della funzione giudiziaria di un sistema che istituzionalmente lega la magistratura alle volontà del potere politico.



94) G. Neppi Modona, "Sciopero", cit., p. 250, dimostra che in occasione della svolto liberale dall'inizio del secolo, in contrapposizione all'indirizzo conciliante del governo in tema di conflitti di lavoro, la magistratura elabora un autonomo indirizzo rigoristico sottraendo lo sciopero politico alla materia relativa ai delitti contro la libertà del lavoro, e inquadrandolo nella ipotesi di violenza privata punita più severamente dal codice penale.



95) Nell'ambito della letteratura relativa al tema dell'ideologia della magistratura, U. Scarpelli, "Cos'è il positivismo giuridico", Milano 1965, accenna alla necessità che i giudici respingano le proprie valutazioni personali a favore di quelle che si presumono essere del legislatore, riproponendo il principio della «fedeltà alla legge». Il grande rilievo avuto dall'ideologia dell'applicazione della legge positiva "quo talis" - ispirata dal tradizionale positivismo giuridico, ed entrata in crisi con le prese di posizione dei «magistrati alternativi» - è sottolineato anche da R. Treves, "Giustizia e giudici nella società italiana", Bari 1972. Per quanto riguarda la conseguenza pratica del positivismo giuridico nell'attività giurisdizionale, R. Canosa - P. Federico, "La magistratura in Italia dal 1945 ad oggi", Bologna 1974, p.p. 26-7, evidenziano il fatto che il positivismo giuridico crea una situazione tale per cui il rapporto tra il giudice e la norma è quanto di più «meccanico» possa esistere, e l'interprete è condizionato unicamente ad applicare le norme, quali esse siano. Per un'analisi delle componenti ideologiche e politiche della magistratura italiana, sempre sui temi relativi ai processi di interpretazione ed applicazione del diritto, particolarmente completo G. Tarello, "Orientamenti della magistratura del giurista interprete e della dottrina sulla funzione politica", in «Politica del diritto», 1972, n. 3-4, p. 459.



96) La vivace rubrica "Cronaca", in «Rivista Penale», 1921, p. 185, con un'impostazione ideologica apertamente fiancheggiatrice nei confronti del fascismo, illustra la situazione politica e sociale del paese; nel 1921 le analisi dei pubblicisti della rivista prendono spesso in esame la posizione dei fascisti e dei socialisti davanti alla legge, e l'inerzia del governo in tema di ordine pubblico, particolarmente, "Bolscevismo di piazza e di governo", p. 185, 387, 488.



97) Ad esempio, V. Manzini, "Trattato di diritto penale italiano", Torino 1921, V. p. 672, accenna agli scontri tra fascisti e socialisti, e alle violenze che assumono quasi le proporzioni della guerra civile.



98) Per una concezione del socialismo come della «causa di tutti i mali che affliggono l'Italia», L. Lucchini, "Il socialismo militante in Italia è un delitto comune", in «Rivista Penale», 1922, p. 25; Id., "Delitti politici e delitti comuni", in «Rivista Penale», 1922, p. 277. Questi attacchi agli «atti di brutalità barbara» del proletariato, e l'adesione al fascismo in termini poco consueti per un periodico giuridico, sono emblematici della radicalizzazione della polemica contro il governo.



99) P. Giudice, "Squadre d'azione fasciste e arditi del popolo, di fronte al diritto penale", in «Scuola Positiva», 1922, p. 118; analogamente V. Manzini, "Trattato", cit., V, p. 63.



100) G. Marasco, "Socialisti e fascisti nel diritto penale", in « ;Rivista Penale», 1921, p. 278, sostiene che i fascisti che ricorrono alla violenza sono spinti da un motivo politico, e non possono essere trattati alla stregua delle norme comuni. Inoltre si dichiara che la vera reponsabilità della crisi va ricercata nell'inerzia del governo.



101) E. Vulterrini, "Arditi e comunisti e squadre d'azione fasciste", Bologna 1922-3; da notare che l'opuscolo ha un carattere smaccamente apologetico nei confronti del fascismo.



102) N. Mazzacuva, "L'uso della clemenza in materia criminale: le contraddizioni del D.P.R. 4-8-1978", in "La questione criminale" , 1978, p. 484.



103) Così E. Ferri, "L'ultimo decreto di amnistia", in « Ius», 1922.



104) Oltre a Ferri, "L'ultimo decreto", cit., analogamente G. Gregoraci, "Sul decreto di amnistia", in «Ius», 1922; N. Rende, nota a sentenza, in «Foro Italiano», 1923, II, p. 70; in riferimento ai delitti politici, A. Santoro, "Il delitto politico nella recente amnistia", in «Il diritto italico», 1923.



105) Per tutti, R. Garofolo, "Criminologia", 1891, p. 455 segg.



106) Per i positivisti la funzione della sanzione penale è importante ai fini della difesa della società, che viene assicurata in modo più ; razionale individuando una sanzione adatta al tipo di autore del reato. In riferimento ai delinquenti politici si individuano misure speciali come l'esilio generale o la detenzione diversificata rispetto ai delinquenti comuni.



107) Artefice di questa operazione sembra soprattutto Ferri, che del resto nella sua tarda opera del 1928 celebra quanto il regime fascista abbia valorizzato con la legislazione i principi teorici più pregnanti dell'indirizzo positivista, confer "Principi", cit., in riferimento al decreto di amnistia, particolarmente p. 324.



108) Così P. Marsich, "L'obbiettività giuridica dell'amnistia", in «Scuola Positiva», 1923, p. 360. Questo saggio è citato anche da N. Mazzacuva, "L'uso della clemenza", cit., p. 484.



109) La circolare del ministro Oviglio è riportata interamente da G. Paoli, "L'indulgenza sovrana del dicembre 1922", Firenze 1923, p. 3 segg.



110) Così G. Paoli, "L'indulgenza", cit., p. 72.



111) G. Matteotti, "Dopo un anno di dominazione fascista", in « Critica Sociale», 1924, p. 5 scrive: «Con il decreto 22.12.1922, n. 1641, si amnistiarono completamente e per tutti i reati, nessuno escluso, neppure quelli importanti la pena dell'ergastolo (per es. l'omicidio premeditato) tutti coloro che avevano delinquito per un fine nazionale (?!) anche se il nesso di causalità era indiretto, anche se non era esclusivo, ammettendosi il concorso, purché non prevalente, di motivi personali (art. 1). Per la prima volta nella concessione del beneficio al delitto commesso si ebbero cittadini amnistiati del tutto (i fascisti) e cittadini cui non si concesse alcun beneficio, oppure solo il beneficio di un anno (i non fascisti)».



112) G. Paoli, "L'indulgenza", cit., p. 137; evidenziano il carattere di opportunità politica del decreto anche E. Florian, "Trattato di diritto penale", 1926, p. 389; G. Colesanti, "Il fine nazionale nella recente amnistia", in «Scuola Positiva», 1923; p. 207; G. Ratiglia, "L'ultimo decreto di amnistia; sue condizioni e sue integrazioni procedurali", in «Dizionario Penale», 1923, p. 7.



113) Confer Cass. 15.10.1923, in "Dizionario Penale", 1924, p. 195. L'estensore di questa sentenza è Longhi, magistrato e penalista, la cui adesione al fascismo è celebrata nel numero di «Rivista Penale» ;, 1935, dedicato in suo onore.



114) Cass. 26.6.1923, in «Giustizia Penale», 1923, col. 482.



115) Cass. 23.7.1923, in «Giustizia Penale», 1923, col. 439.



116) Cass. 27.8.1923, conferma sent. Appello Modena, in «Giustizia Penale», col. 846, nella. fattispecie si tratta di una requisizione violenta di automobili, accompagnata da grida sovverse (W la rivoluzione, W Lenin). La Cassazione esclude l'amnistia perché non ritiene che si tratti di agitazione politica o sociale, ma di agitazione con scopo spiccatamente rivoluzionario, originata da sciopero avente contenuto esclusivamente politico a fine antinazionale tale da rendere inapplicabile il beneficio di cui all'art. 1 del decreto n. 1641.



117) Trib. Matera 4.3.1923, "Massimario Giurisprudenza", in « Giustizia Penale», 1923, col. 1033; l'amnistia viene concessa per imputazioni elevate contro un commissario prefettizio, in riferimento ad azioni da lui compiute durante le competizioni elettorali politiche per far vincere il partito nazionale.



118) Cass. 25.6.1923, in «Giustizia Penale», 1923, col. 482. Sempre ai sensi di valorizzazione del ruolo della magistratura nella classificazione della politicità dei reati, confer Cass. 4.4.1923, in «Giustizia Penale», 1923, col. 433, che ritiene legale l'applicazione dell'amnistia da parte del presidente della giuria, senza sottoporre la questione ai giurati, a proposito delle condizioni per la validità delle sentenze che dichiarano estinta l'azione penale.



119) Cass. 21.3.1923, conferma Appello Venezia, in «Giustizia Penale» , 1923, col. 846.



120) Cass. 1.12.1922, in «Giustizia Penale», 1923, col. 544.



121) Cass. 22.1.1923, in «Giustizia Penale», 1923, col. 663.



122) Cass. 21.3.1923, in «Procedura Penale Italiana»,, 1923, col. 3, 63, motiva la concessione del beneficio alle illegalità fasciste con l'agevolazione prestata da questi reati alla vittoria del partito dell'ordine. Per quanto attiene i reati commessi durante scontri tra fascisti e arditi del popolo, esclude il beneficio. Cass. 21.1.1923, «Foro Italiano», 1923, II, 121.



123) Cass. 13.9.1924, «Procedura Penale Italiana» 1924, col. 101, concede indulto al delitto di tentato omicidio per «fine nazionale», analogamente, Cass. 25.5.1923, ibid., col. 462.



124) Cass. 13.9.1924, «Procedura Penale Italiana», 1924, col. 516, afferma che il fascista condannato per «ferimento seguito da morte fu indotto al reato dal canto dell'inno sovversivo "Bandiera Rossa", costituente affermazione dei partiti sovversivi».



125) Appello Venezia, 7.5.1924, in «Procedura Penale Italiana», 1924, col. 194.



126) Sull'applicabilità dell'amnistia ai reati in parte determinati da «fini privati», Cass. 1.12.1922, a conferma Appello di Milano, in «Giustizia Penale», 1923, col. 544.



127) Il decreto n. 1641, come accennato, nel caso di concorso tra fine personale e fine nazionale, concedeva l'amnistia, che di fatto veniva così anche a riguardare i delitti comuni.



128) Cass. 30.10.1923, in «Giustizia Penale», 1923, col. 59.



129) Circolare 10.1.1923 ai Procuratori Generali, in G. Paoli, " L'indulgenza", cit., p.p. 24-5.



130) Oviglio apparteneva all'ala più moderata del fascismo. Il ministro della giustizia si dimise dopo il discorso di Mussolini del 3.1.1925, e venne sostituito da Rocco. In seguito Oviglio fu addirittura espulso dal partito fascista nel giugno del 1925 per la sua opposizione alle norme sulla dispensa dal servizio dei magistrati in condizioni di incompatibilità con le direttive del governo (L. 12.1925 n. 2300), Confer A. Aquarone, " L'organizzazione dello stato totalitario", Torino 1965, p.p. 11-2, 50, 73; A. Raimondi, "Mezzo secolo di magistratura. Trent'anni di vita giudiziaria milanese", Bergamo 1951, p.p. 315-6.



131) Confer R.D. 31.10.1923, in «Giustizia Penale», 1924, col. 78.



132) Il testo completo della Relazione al Re contenuta nel decreto 31.10.1923 n. 2278, in "Amnistie", cit., p. 70.



133) Riassumendo gli artt. 1 e 2, in "Amnistie", cit., p.p. 11-2.



134) Precisamente si trattava del reato di oltraggio in persona di un guardasala ferroviario commesso da un fascista, Cass. 5.6.1925, in « Giustizia Penale», 1925, col. 1012.



135) Cass. 8.2.1924, in «Procedura Penale Italiana», 1924, col. 198.



136) Appello Napoli, 16.3.1924, in «Giustizia Penale», 1924, col. 1754. Giurisprudenza conforme: Appello Messina, 14.4.1924. Ibid., col. 382; Appello Firenze, 28.4.1924, Ibid. col. 382.



137) Nella fattispecie si trattava del fatto di consiglieri comunali socialisti che avevano costretto il sindaco a far proseguire la riunione comunale per forza: Cass. 28.4.1924, in «Giustizia Penale», 1924, col. 853.



138) Cass. 5.6.1925, in «Giustizia Penale», 1925, col. 1012, confer nota 134.



139) Cass. 8.11.1924 concecde amnistia al reato previsto all'art. 2 Legge 29.7.1894 n. 315, in «Giustizia Penale», 1924, col. 48.



140) Cass. 17.3.1924, in «Procedura Penale Italiana», 1924, col. 374.



141) II testo R.D. 1.7.1925 n. 1277 e della Relazione al Re in «Giustizia Penale», 1925, col. 688.



142) Su questo punto confer A. Iannitti-Piromallo, "Codice delle amnistie", II, 1940, p. 7.



143) Ai sensi dell'art. 7 del decreto il beneficio non si applicava per i reati previsti dalle leggi penali militari (spionaggio, tradimento, diserzione), e per i delitti contro la patria previsti dal capo 1, titolo 2, libro 2 del codice penale, confer «Giustizia Penale», 1925, col. 670



144) Cass. 17.5.1926, in «Procedura Penale Italiana», 1926, col. 355. Da confrontare con la precedente Cass. 25.4.1924, Ibid., 1924, col. 363, relativa allo stesso fatto, che esclude l'applicazione del decreto di amnistia per insussistenza del fine nazionale.



145) Cass. 24.1.1927, in «Giustizia Penale», 1927, col. 636.



146) Appello Catanzaro, 19.10.1925; Appello Bari, 25.6.1926; in A. Iannitti - Piromallo, "Codice delle amnistie", cit., p. 60 segg.; ibid, numerose sentenze della magistratura di merito in tema di amnistia.



147) Cass. 25.11.1925, in «Giustizia Penale», 1925, col. 11. Da sottolineare che nella fattispecie si trattava di invasione di terre ad opera di un gruppo di coloni iscritti ad un sindacato rurale fascista. Per la giurisprudenza costante nell'escludere l'applicazione dell'amnistia al reato di invasione di terre negli anni tra il 1920 e il 1922, confer nota precedente n. 63.



148) 7.5.1926, in «Procedura Penale Italiana», 1926, col. 385; analogamente Cass. 9.5.1926, Ibid. 1926, col. 246; Cass. 17.2.1926, Ibid. 1926; col. 248, concedono l'amnistia per i reati elettorali.



149) Tribunale Bergamo, 14.3.1926, in «Procedura Penale Italiana», 1926, col. 242.



150) Tribunale Reggio Calabria, 22.1.1926, in «Procedura Penale Italiana», 1926, col. 336.



151) Appello Venezia, 20.10.1926, in «Giustizia Penale», 1926, col. 72.



152) Cass. 1.5.1925, in «Giustizia Penale», 1926, col. 365.



153) G. Neppi Modona, "Sciopero", cit., p. 319, nota 272, mostra una circolare del guardasigilli, del 1926, che invita le autorità giudiziarie locali a svolgere un'intensa attività di controllo «sui patronati comunisti pro detenuti politici». Sullo stesso punto ci sono altre circolari tra il 1926 e il 1927.



154) Cass. 25.10.1925, «Foro Italiano», 1926, Il, 63, conferma trib. Venezia 5.2.1925, escludeva l'applicabilità del beneficio al comunista Gennari, gerente responsabile de «Il lavoratore», organo del partito comunista d'Italia. Sulla sentenza è critico B. Cassinelli, "Il gerente e il fine politico", in «Scuola Positiva», 1925, II, p. 501. Sempre per il reato di diffamazione a mezzo stampa la Cass. 9.7.1926, in «Procedura Penale Italiana», 1926, col. 364, escludeva l'applicabilità del beneficio al gerente de «Il nuovo paese», che aveva diffamato un funzionario che aveva ricoperto alti incarichi vicino al ministro De Stefani.



155) Cass. 25.2.1924, in «Giustizia Penale», 1924, prima della sentenza Gennari aveva applicato il beneficio del reato di diffamazione per motivo politico. Dalla sentenza non è comunque possibile rilevare che tipo di movente politico consenta l'applicazione dell'amnistia.



156) Cass. 21.10.1925, in «Procedura Penale Italiana», 1926, col. 12.



157) Cass. 2.12.1925, in «Giurisprudenza Italiana», 1926, 25, per cui «la violenza terroristica dell'anarchismo, tendente al disordine e alla negazione di ogni regime o istituto, è l'antitesi patente del delitto a contenuto politico».



158) Appello Firenze, 20.1.1926, in «Procedura Penale Italiana», 1926, col. 268, per cui i delitti anarchici sono determinati «da bassi istinti egoistici».



159) Cass. 16.11.1925, in «Procedura Penale Italiana», 1926, col. 126.



160) Pressoché tutti gli storici che si sono occupati della nascita del fascismo attribuiscono questo ruolo alla magistratura, fra gli altri confer L. Salvatorelli - G. Mira, "Storia d'Italia nel regime fascista", Torino 1959, p. 206; G. Salvemini, "Scritti sul fascismo", Milano 1961, p. 40; E. Santarelli, "Storia del movimento e del regime fascista", Roma, 1, p. 231 segg.



161) Il testo della legge 25.11.1926, n. 2008, concernente provvedimenti per la difesa dello stato in «Giustizia Penale», 1927, col. 125.



162) II testo del decreto-legge in «Giustizia Penale», 1927, col. 1081.



163) Così la relazione al Re sulle finalità del decreto, in « ;Giustizia Penale», 1927, col. 1081.



164) Confer Legge 24.12.1925 n. 2263, concernente le attribuzioni e prerogative del Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato. In riferimento all'art. 6 di questa legge nessun oggetto poteva essere messo all'ordine del giorno di una delle due camere senza l'approvazione del Capo del Governo; su questi rilievi, confer N. Coco, "La legge sul Primo Ministro nei lavori preparatori", in «Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione» 1926, p. 125.



165) Dopo un indulto di due anni concesso per i delitti commessi per un fine nazionale, emanato nel 1930, nel 1932 viene emanata l'amnistia del decennale. Per il testo del decreto e il commento, confer S. Longhi, "L'amnistia del decennale", in «Rivista Penale», 1932, p. 1081.



166) Sulle leggi eccezionali che segnano un'involuzione verso un «regime di polizia» di cui esistevano numerose premesse nell'Italia Liberale in crisi, in un'ottica «continuista», confer G. Amato, "Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale", Milano 1967, p.p. 262-3; N. Tranfaglia, "Dallo stato liberale", cit., p. 137. Insistono su una graduale trasformazione delle istituzioni dello stato in senso autoritario A. Aquarone, "L'organizzazione", cit. p. 5; R. D. Felice, "L'organizzazione dello stato fascista", Torino 1968, p. 301.



167) Sulla tendenza ad estendere al massimo l'operatività della sanzione contro il delitto politico, confer R. Pannain, "Il delitto politico" , in «Rivista italiana di diritto penale», 1933, p. 715.



168) Sui delitti politici nella parte speciale del codice, confer U. Conti, "I delitti contro la personalità dello stato nel nuovo codice penale", in «Rivista Penale», 1931, p. 608.



169) "Codice delle Amnistie", cit. p. 114 segg.



170) Ibid. p. 117.



171) G. Bernieri, "L'amnistia del ventennale", in «Rivista di diritto penitenziario», 1942, p. 758.



172) Testo e Relazione al decreto, in «Giustizia Penale», 1942, col. 606.



173) Tribunale Speciale territoriale di Guerra di Roma, 28.4.1943, in « Giustizia Penale», 1943, col. 343.





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