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Le origini del penitenziario Capitolo 8.
CONCLUSIONE.


1. Si è tentati di considerare la storia della riforma carceraria come una serie di ironie ricorrenti. Ci si può chiedere, ad esempio, come avrebbe reagito Howard se fosse vissuto abbastanza a lungo da vedere Pentonville, ricordando come egli condannasse i fanatici che si servivano del suo nome per giustificare l'isolamento dei detenuti per settimane e settimane. Cosa avrebbe pensato dell'isolamento inflitto per diciotto mesi e dei recinti circondati da mura dove i prigionieri erano soli, delle maschere, delle esercitazioni, del silenzio? Udendo le grida provenienti dalle celle sotterranee, avrebbe potuto nuovamente pensare di sostituire «le punizioni rivolte al corpo» con «le punizioni rivolte alla mente»?
Ci si chiede inoltre cosa avrebbe detto delle circostanze che portarono al suicidio del quindicenne Edward Andrews, avvenuto nel 1854 nella prigione di distretto di Birmingham. In quel carcere, costruito sul modello di Pentonville e inaugurato nel 1849, il direttore ordinava abitualmente di isolare i delinquenti minori e di costringerli a far girare a mano una manovella, con sforzo pari a quindici chili, diecimila volte ogni dieci ore. Chi non riusciva a mantenere il ritmo o cercava di opporre resistenza, era costretto a indossare una camicia di forza, veniva quindi innaffiato con secchi d'acqua e gettato in una cella sotterranea, dove era nutrito a pane e acqua. Fra coloro che opposero resistenza vi fu Edward Andrews, il quale, avendo rifiutato per due mesi di lavorare, venne sottoposto a queste punizioni finché si impiccò alla finestra della cella. Il maestro della prigione lo vide durante la sua ultima notte di vita,

«mentre saliva i gradini verso la cella; domenica scorsa aveva portato per due ore la camicia di forza. Questa aveva lasciato segni profondi sulle sue braccia e sul suo corpo. Vicino a lui era stato messo un secchio d'acqua, in caso di spossatezza. Egli se ne stava ritto con i piedi freddi e arrossati bagnati d'acqua. Appariva pallido come la morte e distrutto dalla debolezza. Era stato mandato regolarmente alla manovella, eccetto quando portava la camicia di forza... Cibo, in genere pane e acqua... Troppo debole e sfinito perché gli si possa insegnare...».

Una commissione d'inchiesta, riunitasi affrettatamente dopo la morte di Andrews, ricordò nel suo rapporto che l'uso della manovella aveva l'esplicita approvazione del parlamento. Pur censurando il direttore per eccesso di zelo, non raccomandò il suo licenziamento né un alleggerimento del «sistema» di Birmingham; e concluse che la morte di Edward Andrews era stata una disgrazia, non passibile di procedimento penale (1).
Episodi simili sono tanto frequenti nella storia delle prigioni che risulta difficile comprendere quale sia stata la portata storica delle riforme carcerarie. Pur non potendo esserne certi, si può supporre che un delinquente come Andrews nel Settecento non sarebbe mai stato mandato in carcere. Qualora fosse stato catturato e processato, cosa di per sé improbabile considerata la debolezza delle forze di polizia, sarebbe stato frustato o rimproverato e quindi riconsegnato al padrone. Vivendo nell'Ottocento fu invece mandato a scontare pene di nuovo tipo, la camicia di forza, la manovella, le allucinazioni provocate dalla solitudine, che dovette affrontare da solo. Infatti, nella prigione «riformata», la collettività dei detenuti che avrebbe potuto intervenire per proteggerlo almeno in parte dalle vessazioni era stata distrutta e ridotta al silenzio. La folla di estranei la cui presenza nei cortili delle carceri del Settecento esercitava un controllo rudimentale sul personale di custodia era stata allontanata dalla vittoria della riforma carceraria. Gli ispettori, che Howard sperava avrebbero sorvegliato le guardie, e i direttori furono ignorati come accadde a Birmingham oppure preferirono giustificare passivamente la condotta dei carcerieri. Nell'ambito dell'istituzione che la tradizione riformatrice aveva voluto per detenuti come lui, Edward Andrews non poteva trovare nessuno che lo aiutasse, nessuno che potesse sostenerlo nella sua sfida. La sua morte, all'interno della prigione «riformata», non fu quindi un'ironia della sorte ma una conseguenza inevitabile della riforma. Se Howard fosse vissuto abbastanza a lungo da vedere che cosa i suoi sforzi avevano partorito, avrebbe forse negato la paternità dei penitenziari di Birmingham e Pentonville, che pure erano figli suoi.
Se interpretiamo la storia della riforma carceraria come una serie di buone intenzioni snaturate da conseguenze non volute, non possiamo che considerarla un fallimento. La riforma fu invece un successo: nel 1860 la maggior parte dei prigionieri in Europa e nell'America settentrionale viveva secondo norme volute da Howard e sopportava il regime di solitudine scaturito dalle sue visioni.
Fu tuttavia un successo pieno di paradossi. Il movimento avviato da Howard istillò nella mente degli scettici borghesi delle classi medie l'idea che le prigioni avrebbero dovuto rieducare; ma i riformatori non dovettero mai convincere quegli strati sociali che i penitenziari assolvessero veramente a quella funzione e in realtà si accorsero di non dover neppure tentare un'opera di convinzione. E' significativo che pochi di loro si curassero di falsare il tasso di recidività per non mettere in discussione i penitenziari. La fiducia del potenziale riformatore della detenzione dimostrata dalle classi medie sopravvisse a ripetute prove del suo fallimento.
Allo stesso modo, episodi come il suicidio di Edward Andrews continuarono a macchiare la fama «umanitaria» dei penitenziari, ma l'opinione pubblica pareva accettare le dichiarazioni dei riformatori secondo i quali tali abusi alla fine sarebbero stati evitati da un'ispezione attenta e da una maggiore professionalità e responsabilizzazione del personale di custodia. Anche se le strutture direttive sempre più burocratizzate hanno fatto poco per rendere i detenuti meno vulnerabili alle vessazioni, la tradizione riformatrice e l'opinione pubblica in genere hanno continuato a riporre la propria fiducia nella creazione di «cani da guardia» nuovi che controllino quelli vecchi. La fiducia nel valore deterrente dei penitenziari non è del resto diminuita neppure di fronte alle prove che il tasso di criminalità non varia in modo significativo in rapporto al grado di severità nelle prigioni. La generale diminuzione del tasso di criminalità dopo il 1855 in Inghilterra, ad esempio, doveva poco o nulla al rafforzamento del sistema carcerario; molto più importante era stato il generale aumento dei salari reali dei lavoratori. L'incapacità dimostrata dal penitenziario di essere all'altezza delle promesse fatte dai riformatori era evidente già a critici dell'età vittoriana come C. Dickens e Henry Mayhew. Neppure essi riuscivano tuttavia a liberarsi dalla logica delle premesse howardiane. I loro attacchi contro i penitenziari mancavano della coerenza tipica del dissenso radicale. Entrambi criticavano il penitenziario perché da un lato era troppo severo e dall'altro non lo era abbastanza. La loro incapacità a suggerire una valida strategia alternativa di controllo sociale fa pensare che il dibattito pubblico sui penitenziari celasse un consenso a livello inconscio.
La natura di questo consenso era curiosa, poiché esso non si basava sulla dimostrazione dell'efficacia di queste istituzioni come strumenti di repressione o di riforma; gli oppositori avevano rivelato a sufficienza le loro deficienze. Non si può tuttavia concludere che il consenso fosse basato semplicemente sulla mancanza di alternative. Nessuna istituzione può sopravvivere alle numerose critiche che si attirarono i penitenziari solo perché nessuno riesce a pensare a qualcosa di meglio. I penitenziari dovevano giustificare in qualche modo i loro costi enormi, anche se non con l'efficienza del loro funzionamento.
L'appoggio costante ai penitenziari non si spiega se si ritiene che derivasse dalla fiducia nelle sue possibilità di controllare il crimine. In realtà tale appoggio era la conseguenza di un più vasto bisogno sociale. I penitenziari erano graditi perché i riformatori riuscirono a presentarli non solo come una risposta al crimine, ma soprattutto come la via d'uscita alla crisi sociale di un'intera epoca, come parte di una più ampia strategia di riforme politiche, sociali e legali intese a rinsaldare su nuove basi l'ordine sociale. I penitenziari perciò, pur criticati per le inefficienze funzionali, continuarono a trovare appoggi perché erano considerati un elemento di quella più vasta concezione dell'ordine sociale che, a partire dagli anni Quaranta, si accattivò l'assenso consapevole di ricchi e di potenti.
Nell'elaborare questa nuova strategia dell'ordine, i sostenitori della riforma carceraria convinsero le classi sociali cui appartenevano di quanto fosse grave la questione del crimine, rivelandone i rapporti con le più profonde trasformazioni sociali ed economiche del periodo. Questa concezione del condizionamento dei comportamenti da parte dell'ambiente si servì degli strumenti offerti dalla psicologia associativa per spiegare come una carriera criminale potesse essere intrapresa a causa di legami sociali sbagliati o di sventure economiche. In questa prospettiva, i riformatori stabilivano un rapporto fra la crescente marea di crimini contro la proprietà e l'erosione delle economie contadine, familiari e artigianali all'interno delle quali i rapporti sociali erano di tipo «paternalistico». Essi facevano notare come si fossero venuti formando nuclei di popolazioni urbane senza padrone con il conseguente estraneamento fra ricchi e poveri. In questa analisi il crimine rappresentava una forma di invidia, risentimento o disperazione sociale. A sostituzione del concetto tradizionale di crimine come espressione della malvagità umana e come peccato, i riformatori resero popolare un nuovo linguaggio allarmistico che interpretava il crimine come segno di una società in crisi.
Il successo delle idee dei riformatori è stato tale che oggi c'è un pregiudizio automatico a favore della criminologia che fa riferimento alle cause ambientali dei comportamenti delittuosi. Può quindi apparire paradossale che questa concezione sia storicamente servita a legittimare un aumento dell'intolleranza non solo nei confronti del crimine, ma anche verso altre forme di manifestazioni popolari come le sommosse che venivano collegate alla criminalità quale espressione dell'estraneamento di un'intera classe.
L'analisi basata sul condizionamento ambientale implicava che i ricchi dovessero avere qualche responsabilità nel determinare le cause sociali del crimine e questa premessa ha contribuito a generare un'ondata di attivismo filantropico dominato dal senso di colpa, soprattutto fra i liberali, gli scienziati e i commercianti dissidenti. Molti storici sono convinti che questa tradizione sia sorta da un nuovo senso di affinità con i poveri e da una repulsione ad accettare le crudeltà insite nei rapporti di classe dell'epoca. Tuttavia rileggendo le pagine di Howard, Hanway e Colquhoun, ci si trova di fronte a una continua insistenza sull'«ordine pubblico», non che sull'«umanità».
Se la dottrina sociale della nuova filantropia assumeva spesso toni arretrati e paternalistici, in pratica le soluzioni proposte costituivano un attacco all'ordine sociale tradizionale perché questo si basava su di uno stato debole, sulla tolleranza del disordine popolare e su una tacita accettazione delle consuetudini e usanze popolari. I riformatori insistevano sulla fragilità di questo ordine, specialmente sulla sua dipendenza dalle manifestazioni rituali di terrore, che, essi sostenevano, servivano solo a garantire una riottosa acquiescenza da parte dei poveri. In un periodo di rapidi mutamenti economici e sociali ciò non era più sufficiente a garantire l'ordine sociale in quanto occorreva, a questo scopo, qualcosa di più di un paternalismo logoro e falso, sorretto dalle impiccagioni. La stabilità sociale doveva invece fondarsi sul consenso popolare, mantenuto da sensi di colpa al pensiero di commettere azioni antisociali piuttosto che sulla deferenza e sulla paura.
Questa concezione venne elaborata negli scritti dei radicali non conformisti Burgh, Price e Priestley. Le loro critiche a un sistema politico basato sul patronato in patria e sull'arbitrio all'estero facevano eco e ribadivano la denuncia di Howard contro gli abusi nelle carceri. Tutti loro ponevano in rilievo una realtà fatta di paternalismo logoro e corrotto e la fragilità di un ordinamento che su esso si basava. Le probabilità di collasso sociale si profilavano con particolare gravità quando le tumultuose agitazioni di Wilkes durante gli anni Sessanta del Settecento, i disordini delle processioni a Tyburn, i Gordon Riots del 1780 e l'epidemia di crimini del 1783-1785 cominciarono a essere considerati in termini allarmistici. La sospensione delle deportazioni nel 1775 offrì ai riformatori il pretesto di escogitare non solo un'alternativa ad esse, ma di creare un nuovo concetto di pena che implicasse una strategia più rigorosa e razionale per il mantenimento dell'ordine sociale.
Questo approccio, da Bentham articolato nel modo migliore, proponeva un rafforzamento del consenso popolare tramite un allargamento del diritto di voto e dei diritti civili e religiosi e l'attuazione della riforma amministrativa, ma contemporaneamente prevedeva un più severo intervento della legge nei confronti dei trasgressori. Contrariamente alla concezione paternalistica dell'ordine che consentiva solo limitati diritti politici ma tollerava la presenza di un più vasto arco di privilegi popolari consuetudinari, il liberalismo estendeva i diritti politici formali riducendo drasticamente il grado di tolleranza nei confronti dei disordini popolari. Da ciò derivava che le due immagini che Bentham offriva di sé, quella di difensore della riforma parlamentare e quella di sostenitore del Panopticon, non erano contraddittorie, ma complementari. L'estensione dei diritti civili doveva essere compensata dall'abolizione dei privilegi tacitamente riconosciuti ai detenuti durante l'"ancien régime". In una società ineguale e sempre più divisa, questo era il solo modo di ampliare le libertà e rafforzare il consenso popolare senza compromettere la sicurezza dello stato.
Alexis de Tocqueville restò colpito dal carattere bivalente del liberalismo democratico durante la sua visita in America nel 1835. Mentre stava riflettendo sul suo lavoro sulla democrazia americana, egli ispezionò anche le carceri di quel paese. A un certo punto egli e il suo compagno, Gustave de Beaumont, notarono che «Mentre la società negli Stati Uniti dà un esempio della più ampia libertà, le prigioni dello stesso paese offrono lo spettacolo del più totale dispotismo» (2). All'esterno delle carceri vi era un egualitarismo confuso e competitivo, all'interno un totalitarismo senza precedenti. In effetti la creazione di «istituzioni totali», nell'America degli anni Venti dell'ottocento coincise con il fiorire della democrazia di Jackson, il che pare paradossale solo se si presume che l'egualitarismo liberale si sviluppi contemporaneamente alla tolleranza. In realtà, come Tocqueville comprese con molta acutezza, l'avvento della democrazia fu caratterizzato da una crescente intolleranza verso le minoranze «devianti». La tirannia della maggioranza assunse come propri simboli e strumenti il silenzio, le file indiane e il nerbo di bue del penitenziario di Auburn, che erano inoltre espressione di un rinnovato tentativo di modellare e «riformare» la coscienza criminale.
Il successo di Howard nel presentare l'ideale riformatore come una visione della redenzione morale degli uomini ha oscurato la funzione che esso ebbe nel legittimare il rafforzamento del potere carcerario. Gli storici del liberalismo hanno nello stesso modo trascurato di prendere in considerazione il fatto che l'allargamento della sovranità popolare fu accompagnato dall'introduzione di istituzioni e dal dispiegamento di strategie filantropiche intese a trasmettere alle coscienze dei lavoratori quelli che erano ritenuti strumenti di disciplina interiore, il senso di colpa e il rimorso. Secondo il pensiero di Howard e Bentham, i penitenziari erano concepiti come macchine per la produzione sociale del senso di colpa.
Gli stessi presupposti psicologici, che ispiravano la fiducia nella perfettibilità umana in Condorcet e Helvetius, servivano, applicati alla questione della pena, a convalidare l'idea che i criminali fossero meccanismi imperfetti le cui coscienze potevano essere rimodellate grazie all'isolamento in un'istituzione totale. Le classi medie degli anni Novanta del Settecento, con la loro ansietà, diedero per sicuro che questa radicata fiducia nella malleabilità umana trovava una formulazione pratica grazie alla professione medica: nei manicomi nel caso dei malati di mente, nelle Case di Industria nel caso dei poveri, negli ospedali nel caso dei malati e nei penitenziari nel caso dei criminali. In ciascuno di queste istituzioni i poveri avrebbero dovuto essere «curati» da immoralità, malattie, pazzia o propensione al crimine e insieme da altri difetti del corpo e della mente, tramite l'isolamento, le esortazioni e un regime di addestramento all'obbedienza.
Nei penitenziari lo strumento di cura era costituito dal pentimento. Il rimorso, sostenevano i riformatori, poteva essere risvegliato solo in un ambiente la cui intrinseca benevolenza facesse da base all'autorità morale dello stato e costringesse i prigionieri a riconoscere la propria colpa. L'isolamento sembrava offrire questa perfetta unione di umanità e terrore, realizzava l'utopia liberale di una pena tanto razionale da indurre i trasgressori a autopunirsi con il tormento silenzioso della propria mente.
Gli ideali dei riformatori rappresentavano un forte richiamo per le classi medie perché implicavano la possibilità di ricostituire un universo morale comune fra punitori e puniti. Allegoria positiva dei rapporti di classe, questi ideali riuscirono a sopravvivere ai fallimenti ricorrenti perché esprimevano un desiderio profondamente sentito dalle classi medie verso un ordine sociale basato su una riconciliazione rispettosa degli interessi di tutti. Quanto radicato e ardente fosse questo desiderio risulta dalla fiducia espressa da parte delle classi medie in genere e dei cappellani vittoriani in particolare nei confronti di dichiarazioni di pentimento fatte da detenuti e chiaramente artificiose. L'aspirazione a un tale ordine sociale si rifletté successivamente nella disponibilità di molti storici a considerare il progetto dei riformatori una semplice crociata umanitaria per reintegrare i detenuti in seno alla società. In realtà il rifiuto da parte dei riformatori dell'idea di incorreggibilità offriva l'opportunità di riconoscere i criminali come esseri umani aventi diritto alla protezione da estorsioni, brutalità e malattie. La richiesta dei prigionieri di protezione da parte della società fu condizionata alla disponibilità a ravvedersi. I riformatori estesero effettivamente gli obblighi dello stato verso i prigionieri, non però sulla base di un pieno riconoscimento dei loro diritti di esseri umani. Il loro diritto a un trattamento giusto restava condizionato alla disponibilità a rientrare nell'ambito del consesso civile.
Secondo la tradizione filantropica vittoriana i detenuti non erano le sole persone il cui diritto ad essere trattati come esseri umani dipendeva dalla loro sottomissione agli sforzi di miglioramento morale. Ogni tentativo di innalzare il tenore di vita, di migliorare l'educazione o le condizioni di salute dei poveri andava di pari passo con un tentativo di colonizzare la loro mente. In base a questa tradizione l'umanitarismo era inestricabilmente collegato all'esercizio del potere. L'allargamento degli obblighi dello stato verso i propri cittadini era invariabilmente giustificato con l'argomentazione che si intendeva in tal modo modificare la mentalità delle classi inferiori per ridurle entro i confini di quel modello caricaturale di rettitudine ascetica in cui i ricchi si riconoscevano. La severità degli ideali dei riformatori allontanò dapprima i paternalisti abituati per tradizione a ignorare o tollerare la debolezza morale dei poveri. Perfino riformatori come Howard furono respinti dalle implicazioni che la loro visione della disciplina comportavano. Altri riformatori liberali, fra cui Romilly, ritenevano che le teorie di Bentham sulla libertà e sull'ordine sociale avevano insistito troppo sull'importanza dell'ordine. Al di fuori dello schieramento riformatore, ondate successive di prigionieri politici denunciarono non solo l'isolamento e il regime dei penitenziari, ma la stessa disponibilità delle classi dirigenti a sospendere o ignorare i diritti costituzionali dei cittadini in nome dell'ordine e della stabilità, ogni qualvolta si trovassero di fronte all'opposizione radicale. Questa non riuscì a far deviare o a ritardare il consolidamento delle istituzioni totali, ma impedì ai ricchi e ai potenti di legittimarle con successo agli occhi dei poveri, contrabbandandole come strumenti neutrali al di sopra del conflitto sociale.
Nonostante le opposizioni, i penitenziari poco alla volta divennero un dato di fatto. Le fila di celle silenziose, le teste rasate dei prigionieri e una vita scandita come da un metronomo persero progressivamente l'alone di stranezza. Il penitenziario si inserì in una serie di altre istituzioni così integrate per funzione e così simili per disegno e disciplina che la loro compatta presenza nel paesaggio vittoriano inibì ulteriori sfide alla logica della loro esistenza.
Non era casuale che penitenziari, manicomi, case di correzione, scuole sperimentali, dormitori pubblici e riformatori apparissero simili e che i loro sistemi disciplinari avessero molto in comune. Dato che costituivano gli elementi complementari e interdipendenti della stessa struttura di controllo, era essenziale che le loro diete e le loro privazioni fossero calibrate su scala ascendente, dalla scuola alla casa di correzione, al manicomio, al penitenziario, in cui le pene inflitte all'ultimo gradino servivano a rafforzare gli effetti di quelle inflitte al primo.
E neppure era casuale che queste istituzioni statali assomigliassero tanto alle fabbriche. Come si è visto, Wedgwood, Strutt e Boulton, gli ideatori della nuova disciplina di fabbrica, trassero ispirazione dalla concezione d'autorità dei creatori del penitenziario, ascetismo nonconformista, fiducia nella possibilità umana di migliorare attraverso la disciplina, teoria liberale dello stato. L'intensificazione della disciplina del lavoro si attuò in concomitanza a una maggiore libertà del mercato del lavoro, come l'estensione del diritto di voto procedette parallelamente al rafforzamento delle strutture carcerarie.
Data la natura dei rapporti economici, ideologici e sociali fra i riformatori delle carceri e i nuovi industriali, non sorprende che i primi ritenessero che una prigione dovesse essere gestita, nelle parole di Buxton, come una «manifattura ben organizzata». In tal modo la disciplina penale e quella industriale si svilupparono secondo gli stessi criteri di severità.
Fu proprio questa somiglianza con una fabbrica, una casa di correzione o un manicomio ben organizzati a rendere il penitenziario credibile, nonostante la sua evidente incapacità a riformare o prevenire. L'ordine che vi era applicato era quello introdotto nell'industria; la sua «umanità» costituiva la coscienza dell'attivismo filantropico. Dopo il 1850 sfidare la logica del penitenziario significava sfidare non solo una singola istituzione, ma l'intera struttura dell'imperante sistema industriale.

2. E' più semplice spiegare come siano stati ideati i penitenziari che stabilire in quale misura la loro storia continui a influire sul presente e a modellare il futuro. Da un certo punto di vista Pentonville è finito; il suo silenzio è stato rotto e la sua vita quotidiana distrutta. Sotto un altro punto di vista esso sopravvive, un guscio vittoriano di spazi e di mura che continua a ostacolare qualsiasi tentativo di effettuare una nuova riforma.
Allo stesso modo è difficile comprendere il significato storico del vicolo cieco in cui si trova attualmente la questione della pena, del decennio di rivolte, del crescente disinganno dell'opinione pubblica nei confronti delle carceri e del fiorire di proposte di riforma. Le critiche ai penitenziari, come si è visto, sono state un elemento costante della loro storia; le sommosse si erano verificate anche in passato; pure oggi molti credono che si stia compiendo una svolta radicale. Uno storico ha perfino detto che l'ultimo decennio ha segnato l'inizio della fine delle «istituzioni totali» (3). Se ciò fosse vero significherebbe che gli anni Settanta del nostro secolo sono stati testimoni di un radicale allontanamento dalle tradizioni e dagli ideali descritti in questo libro.
Effettivamente vi è stata una tendenza, dalla metà degli anni Cinquanta, a sottrarre i trasgressori alle istituzioni totali, tramite la condizionale, la scarcerazione preventiva e un'ampliamento delle opportunità di trattamenti comunitari. Questo tentativo di trovare un maggior numero di soluzioni alternative al carcere ha provocato un declino della popolazione carceraria che, negli Stati Uniti, è passata da 120,8 prigionieri per ogni 100000 abitanti nel 1961 a 96,7 un decennio più tardi. La «scarcerazione» ha guadagnato terreno nel settore della salute mentale, con la chiusura dei manicomi statali e la loro sostituzione con progetti che prevedono la somministrazione controllata di droghe e il trattamento non ospedaliero. La popolazione residente in manicomi statali e di contea è scesa, negli Stati Uniti, da 504600 nel 1963 a 215600 nel 1974 (4).
L'opinione pubblica è sempre più favorevole alla tesi per cui i penitenziari debbono essere usati solo per rinchiudervi quel 10 o 15% di detenuti «pericolosi» che scontano condanne per violenza personale o contro la proprietà. Inoltre le istituzioni progettate per questi delinquenti dovrebbero applicare una disciplina ancor più rilassata, come già è avvenuto in molte prigioni durante gli ultimi venticinque anni. I detenuti dovrebbero avere la possibilità di scegliersi i vestiti, di regolare il proprio tempo e di decorare a piacere la loro stanza; dovrebbero aumentare i contatti con le famiglie, gli amici e la stampa; cosa ancor più importante, i detenuti dovrebbero essere liberi di scegliere se partecipare ai programmi di riabilitazione. La lunghezza delle sentenze non dovrebbe più essere legata alla disponibilità o meno ad accettare tali programmi (5).
La diminuzione delle detenzioni e la liberalizzazione dei regimi istituzionali sarebbero davvero notevoli se costituissero un passo sostanziale verso la riduzione della distanza sociale fra devianza e norma e allargassero i confini della tolleranza sociale. Tuttavia uno studio ha concluso di recente che la liberalizzazione del sistema carcerario rappresenta un tentativo di sopperire alla crescente «crisi fiscale dello stato», riducendo programmi costosi sostituiti da forme di controllo non istituzionali meno costose. Il numero di persone arrestate per aver commesso crimini continua ad aumentare e una quantità crescente di contrasti interpersonali viene fatta rientrare nella sfera di competenza dei «servizi» psicologici e psichiatrici dello stato. In realtà la percentuale di popolazione mandata in carcere non è diminuita, in quanto l'«arcipelago carcerario» ha aggiunto nuove isole, «carceri aperte», centri per drogati, centri di riabilitazione e cliniche per malati esterni. In molti casi queste alternative al carcere continuano a basarsi sulla minaccia della detenzione per mantenere la disciplina e l'acquiescenza dei loro «clienti». Nel caso di malati di mente rilasciati in seguito alla chiusura dei manicomi di stato, la retorica sulla fiducia nel «trattamento comunitario» cela spesso una crudele ironia. Molti ex pazienti curati in ospedali in cui la degenza non era obbligatoria si sono trovati a vivere nei ghetti urbani un'esistenza crepuscolare fatta di assistenza economica e di somministrazione controllata di droga, molestati e ridotti a vittime dai criminali locali (6). All'interno delle nuove istituzioni costruite per sostituire i penitenziari vittoriani la liberalizzazione della disciplina potrebbe rappresentare un tentativo tardivo, spesso provocato dalle sommosse, di innalzare il livello delle strutture al grado reso possibile dall'espansione economica degli anni Sessanta e dalla diffusione del consumismo a poco prezzo fra le classi lavoratrici. Alcune delle nuove prigioni sembrano collegi universitari, i blocchi di celle dormitori e i prigionieri studenti. Gli sviluppi tecnologici applicati alle misure di sicurezza, come telecamere e rivelatori di calore e di metallo, hanno reso possibile abolire la stretta sorveglianza da parte del personale di custodia che le istituzioni vittoriane e la loro architettura modellata sul Panopticon prevedeva. Anche se in questi ambienti il potere della prigione può essere meno percettibile, è difficile pensare che esso sia divenuto meno totale.
Con ciò non si vuole dire che durante l'ultimo decennio non vi siano stati mutamenti. La scarcerazione, un maggior uso della condizionale, la libertà vigilata e condanne più brevi hanno favorito molti prigionieri e continueranno a farlo finché vi saranno governanti liberali capaci di resistere alla forte opposizione che queste misure hanno sollevato. Per le donne e gli uomini che sono stati salvati da un destino peggiore della morte, costituito da lunghi periodi di detenzione, questi provvedimenti sono certamente validi.
Non è però altrettanto chiaro se il grado in cui l'opinione pubblica può tollerare le «devianze» sia aumentato grazie alle riforme dell'ultimo decennio. La retorica della società «permissiva» ci può indurre a pensarlo, al pari delle recenti vittorie duramente conquistate da omosessuali e femministe contro la discriminazione sessuale e economica. L'accettazione da parte dell'opinione pubblica di una relativa liberalizzazione del comportamento sessuale e delle assunzioni nel campo del lavoro può trarre in inganno, soprattutto per la tanto discussa abilità dei manipolatori dei mezzi di comunicazione di massa a fagocitare forme di «devianza» senza ampliare sostanzialmente i limiti del tollerabile e secondariamente perché l'apparente aumento di tolleranza in un campo può spesso provocare una riduzione in altri campi. Il dibattito in corso sulla violenza sessuale, ad esempio, può far pensare che l'aumento di delitti sessuali contro le donne finirà per provocare un atteggiamento sempre più punitivo e intollerante nei confronti dei violentatori. Nelle società liberali questo è un paradosso della tolleranza. Una mentalità sempre più aperta da parte della pubblica opinione verso la scelta di uno stile di vita sessuale e personale non può essere considerato un segno di trattamento più tollerante per chi viola la legge.
La tolleranza poi non pare crescere con il consolidamento dell'ordine sociale. Nonostante il fatto che lo stato moderno si sia appropriato del potere a un grado che avrebbe terrificato i nostri antenati settecenteschi, il dibattito pubblico sul controllo sociale in occidente dà l'impressione che lo stato sia in realtà appena in condizione di resistere alla criminalità e al terrorismo. Questo allarmismo, che sembra esagerato se visto con gli occhi di un londinese vissuto durante i turbolenti anni Settanta del Settecento, preme per legittimare un uso ancor più vasto e profondo della polizia. Qualunque sia l'origine di questa profonda preoccupazione per il disordine manifestata dalle società moderne, è significativo che il rafforzamento, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, di una struttura di controllo basata sui penitenziari e sulla polizia, non sia bastato a tranquillizzare i timori di disordini, ma li abbia anzi esacerbati. L'ordine, evidentemente, non produce la pace interiore, ma induce a avanzare, con maggior ansia, richieste di ulteriore ordine. E' questo un bisogno che, almeno in questo tipo di società, non può essere soddisfatto.
In questa società l'imperativo di controllare, dominare e sottomettere è iscritto profondamente nel modo di pensare che definiamo «scienze umane». Quando nel Settecento queste scienze si stavano sviluppando, il presupposto su cui si fondano, per cui gli uomini possono essere scientificamente descritti e capiti, venne tradotto immediatamente in pratica nelle istituzioni di controllo e di «riforma». Descrivere l'attività umana come scientificamente conoscibile significava che essa poteva essere sottomessa, modificata e migliorata. Tutto ciò si spiega perché le scienze umane trovavano una giustificazione nelle richieste di nuove tecniche di controllo sociale avanzate dalle classi dirigenti. Più o meno nello stesso modo, l'impulso filantropico venne indirizzato, nel medesimo contesto, verso progetti di a miglioramento tramite la coercizione.
Oggi le scienze umane indirizzano i loro sforzi verso una razionalizzazione dell'attività umana per l'industria e lo stato. Nell'ufficio del personale di fabbrica, nei tribunali, nelle scuole, nell'ufficio per l'assistenza pubblica, psicologi e assistenti sociali si servono di diagnosi, dell'I.Q., del Rorschach, del TAT e dell'intero apparato concettuale delle discipline psicologiche e del comportamento per scegliere, comparare, situare, assumere, migliorare e controllare gli individui. Da un punto di vista teorico quindi queste scienze sono necessariamente coinvolte nello sviluppo di nuovi strumenti di analisi e interpretazione del tipo descritto sopra. Come professioni, la scienza del comportamento, la medicina e la psicologia ricavano gran parte della loro autorevolezza dal servire l'industria e lo stato tanto che risulta difficile comprendere come possano considerare scientificamente un individuo se non come soggetto di cui predire le reazioni, o da controllare e migliorare.
Non si vuole con ciò negare che le scienze mediche, psicologiche e del comportamento siano riuscite a trovare agenti chimici e terapeutici di provata efficacia nel trattamento dell'infelicità e del disorientamento personale né si vuole negare la validità delle terapie psicologiche che tentano di rendere sopportabili o comprensibili i dilemmi personali. L'avvento di una società terapeutica ha prodotto effetti nascosti (7). Lo stesso prestigio di queste scienze della mente pare rendere possibile una serie di nuovi abusi, di cui ancora una volta non sono vittime maschi adulti benestanti e amanti della legge ma bambini, donne, minoranze, persone indigenti e politicamente senza voce. In una società in cui gli adulti rispettosi della legge fanno ricorso alla medicina in tale misura, non sorprende che vi siano direzioni scolastiche che tranquillizzano bambini «iperattivi» o prigioni e manicomi che mantengono il controllo inducendo stati di nausea, spossatezza e farmacodipendenza con l'uso di medicinali. Questi abusi non costituiscono un'ironia della sorte ma le inevitabili conseguenze di una tradizione di fiducia nelle misure escogitate dalla scienza per controllare l'attività umana. Il gusto per terapie verbali o chimiche è più di un entusiasmo passeggero, ha alle spalle duecento anni di tradizione. Gli abusi, che i tentativi di modificare il comportamento e i progetti di economia chiusa realizzati nelle prigioni comportano, non sono frutto solo dello zelo di singoli individui ma di una tradizione di pensiero che risale alle generalizzazioni di Cabanis e Offray de la Mettrie i quali ritenevano che gli uomini fossero oggetti malleabili.
Non si vuole con ciò esprimere una condanna retrograda delle «scienze umane» ma semplicemente rilevare che le possibilità di aumentare il grado di tolleranza della società sono scarse finché si continuerà a considerare la «devianza» con l'ottica di chi vuole sostanzialmente trovare il modo di controllarla e sottometterla. Sarebbe però eccessivo concludere che queste scienze si limitano a definire le modalità con cui l'opinione pubblica percepisce la realtà o che esse ci hanno tolto qualsiasi possibilità di concepire ideali alternativi. Questa parrebbe la conclusione del volume "Sorvegliare e punire", di Michel Foucault, un resoconto sull'introduzione dei penitenziari in Francia; quest'opera è una dimostrazione lampante della falsità del suo stesso fatalismo (8).
Come Foucault e altri hanno provato, la storia, una delle scienze umane, può assumere un ruolo limitato ma importante nella lotta contro il potere carcerario e la mentalità coercitiva che lo sostiene. Essa può spiegare l'origine delle strutture del pensiero scientifico per quanto concerne la natura umana e la devianza e può scoprire i rapporti fra questa struttura e gli imperativi che muovono le classi dirigenti. Soprattutto può servire a superare la retorica che riafferma incessantemente la necessità di un ulteriore consolidamento del potere carcerario, definendo «riforma» tale processo. E' questa una visione che soffoca il passato, legittima gli abusi del presente e cerca di abituare alle crudeltà del futuro.

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