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Le origini del penitenziario Capitolo 3.
VINCOLI D'AMORE, CATENE DI FERRO: LE ORIGINI IDEOLOGICHE DEL PENITENZIARIO.


1. Il sistema carcerario aveva cominciato a rivelarsi inadeguato durante l'ondata di criminalità che seguì la guerra di Successione Austriaca. Lo sceriffo di Londra, Stephen Janssen, nel 1750 attribuì l'aumento dei crimini in città alle migliaia di giovani smobilitati e costretti a ricorrere al furto non appena si ritrovavano con le tasche vuote (1). Le prigioni londinesi si riempirono ben presto di una calca di poveri e di straccioni in attesa di essere processati per furti minori contro la proprietà. Il tifo cominciò a diffondersi nei reparti di Newgate e nell'aprile del 1750 due prigionieri sparsero l'epidemia nel tribunale dell'Old Bailey dove venivano processati. I «putridi miasmi dal banco degli imputati» colpirono almeno cinquanta persone fra cui il giudice, la giuria, i legali e molti spettatori (2). Questo disastro convinse la Corporazione di Londra ad avviare trattative per ottenere da Whitehall l'assistenza finanziaria necessaria alla ricostruzione di quella che lo sceriffo Janssen aveva definito «abominevole sentina di bestialità e corruzione». Le trattative si trascinarono sino ai primi anni Sessanta e la prigione venne inaugurata solo nel 1770 (3). Frattanto due medici londinesi, John Pringle e Stephen Hales, avevano inventato alcuni ventilatori da installare a Newgate in modo da aspirare «i miasmi viziati, rinchiusi» nella prigione, contribuendo a ridurre il tasso di mortalità (4). Anche se la crisi a Newgate era passata grazie al minor affollamento, la "Black Assize" del 1750 non fu dimenticata, anzi contribuì ad attirare l'attenzione dei medici sui problemi igienici che assillavano qualsiasi tipo di istituzione pubblica. I ventilatori di Hales furono ben presto introdotti negli ospedali e negli ospizi e Pringle sfruttò l'esperienza fatta a Newgate nella stesura del suo trattato sull'igiene nell'esercito (5). La campagna intrapresa da Jonas Hanway per ridurre la mortalità infantile negli ospizi di Londra durante gli anni Cinquanta si basava sulle lezioni d'igiene che aveva dato la "Black Assize" (6). Anche il medico della marina James Lind, principale sostenitore dell'uso del cedro e di altri agrumi per prevenire lo scorbuto, ne restò influenzato. Egli si era occupato della febbre delle prigioni che aveva decimato gli equipaggi delle navi da trasporto che facevano rotta verso i Caraibi durante la guerra rendendosi conto che la malattia era stata portata a bordo da alcuni prigionieri costretti a prestare servizio come marinai. Facendo spazzare ponti e boccaporti, costringendo gli uomini a lavarsi, spidocchiarsi e portare un'uniforme, Lind riuscì a ridurre la mortalità fra di loro. Negli anni Settanta, quando stava sviluppando le sue idee sull'igiene carceraria, John Howard riconobbe l'apporto di Lind (7).
Oltre a contribuire, con migliorie, alla situazione igienica delle istituzioni pubbliche, la crisi del 1750 fece pure sorgere dubbi a proposito dell'efficacia della pena di morte per delitti minori e di conseguenza la Camera dei Comuni approvò una legge che sostituiva alla pena capitale, per vari reati minori, i lavori forzati nei cantieri regi (8). Sebbene la proposta fosse respinta dai lord, la sua presentazione fa pensare che alcuni giudici e parlamentari cominciassero a comprendere la necessità di introdurre pene intermedie fra la deportazione e l'impiccagione.
Contemporaneamente alcuni pubblici ministeri rinunciavano con sempre maggior frequenza a perseguire casi minori poiché ritenevano eccessiva la pena di morte che una sentenza di colpevolezza avrebbe comportato. Per gli stessi motivi Henry Fielding, allora magistrato del Middlesex, sollevò dubbi sulla giustezza di condannare alla deportazione per piccoli furti. Tale pena, egli sostenne, rivestiva «un aspetto di così estrema severità» che i giudici ordinavano invece di far fustigare i colpevoli (9). Ma la fustigazione, a suo parere, danneggiava soltanto la reputazione del delinquente, indurendone l'animo di fronte alla censura della società. Era necessario escogitare una pena intermedia che unisse «la correzione del corpo» alla «correzione della mente». Egli suggeriva l'isolamento in nuove case di correzione costruite in modo da contenere apposite celle:

«Non vi può essere mezzo più efficace di ridurre alla ragione e alla disciplina i dissoluti più incalliti dell'isolamento e del digiuno; quest'ultimo è spesso altrettanto giovevole a una mente malata quanto a un corpo sregolato» (10).

Fielding propose che, per mettere in pratica questo nuovo tipo di disciplina, si costruisse una nuova casa di correzione per il Middlesex. Secondo le sue concezioni, i prigionieri si sarebbero dovuti alzare al suono di una campana e lavorare dalle sei di mattina alle sette di sera; le loro fatiche sarebbero state accompagnate da «una breve lettura o esortazione morale». Quantunque dall'idea di Fielding non sortisse nulla di concreto, le sue parole, in particolare l'espressione «correzione della mente», anticiparono il linguaggio con cui, una generazione più tardi, si sarebbe espresso Howard. Fielding fu uno dei pochi a comprendere che la crisi del 1750 aveva rappresentato qualcosa di più di uno spauracchio passeggero che sarebbe svanito quando l'economia fosse tornata agli equilibri del tempo di pace e fu il solo a domandarsi, più in generale, se il «potere civile» della magistratura e le istituzioni carcerarie avessero tenuto il passo con la crescita urbana di Londra.
Nel 1770 gli interrogativi che Fielding aveva anticipato vennero riproposti da suo fratello John, anch'egli magistrato a Bow Street. La smobilitazione, questa volta in seguito alla guerra dei Sette Anni, insieme all'incremento demografico, aveva provocato un aumento nelle incriminazioni all'Old Bailey, maggiori del 25% nei cinque anni successivi alla pace rispetto agli anni di guerra. Nel 1770 John Fielding spiegò a un comitato della Camera dei Comuni come egli attribuisse tale fenomeno alla scarsa vigilanza e al grande numero di «figli di gente sventurata senza lavoro» che non trovava occupazione a Londra ed era costretta a ricorrere ai furti (11). Ancora una volta l'aumento dei processi celebrati all'Old Bailey provocò un sovraffollamento a Newgate (12). Nel 1774 venne approvata una legge che ordinava di far spogliare i prigionieri dei loro abiti civili e rivestirli di bluse da carrettiere prima di condurli in tribunale, a testimonianza della rinnovata preoccupazione che si ripetesse l'episodio della "Black Assize" del 1750 (13).
Anche in altre zone dell'area londinese i magistrati si videro costretti ad affrontare il problema delle tensioni che la crescente pressione demografica e l'aumento del tasso di criminalità stavano esercitando sulle strutture carcerarie. Le case di correzione del Middlesex, di Westminster e del Surrey furono tutte ricostruite ed ampliate fra il 1766 e il 1776 (14).
La situazione caotica in cui versava l'ordine pubblico a Londra sollevò nuovamente dubbi anche a proposito dell'utilità della deportazione. Nel 1773 il Lord Chief Justice fece notare al conte di Suffolk come l'esilio in una colonia permanente e prospera avesse ormai perso qualsiasi potere deterrente sui poveri e ribadì la richiesta di Henry Fielding di pene intermedie idonee a delitti minori: «E' da rimpiangere che la legislazione attuale non contempli una maggiore diversificazione delle pene a seconda della varia natura dei crimini e delle circostanze in cui furono commessi» (15). Il trattato estremamente influente che William Eden pubblicò nel 1771, "Principles of Penal Law", ribadiva i dubbi sul valore deterrente della deportazione e chiedeva l'introduzione di pene intermedie. Eden tuttavia rigettava la possibilità di ricorrere alla detenzione, sostenendo che sarebbe servita solo a rendere ancor più depravati i condannati (16).
Solo otto anni dopo lo stesso William Eden, divenuto lord Auckland, aiutava Blackstone nella stesura del Penitentiary Act che autorizzava il governo a costruire due penitenziari a Londra in cui sperimentare l'isolamento e i lavori forzati in sostituzione delle deportazioni. Il fatto che entrambi si fossero convertiti all'idea che la detenzione costituisse una soluzione ottimale era dovuto in gran parte a John Howard, allora un oscuro proprietario del Bedforshire la cui esauriente indagine sugli abusi nelle prigioni, "The State of the Prisons", apparve per la prima volta nel 1777. Howard, che divenne il padre del penitenziario, fornì loro quelle indicazioni dettagliate sulla vita carceraria che essi esposero nell'Act.

2. John Howard non ritenne mai necessario spiegare perché nel 1773, all'età di 47 anni, avesse rinunciato alla quiete delle sue terre nel Bedfordshire per intraprendere una strada di riforme carcerarie e ospedaliere che lo avrebbe condotto a visitare ogni istituzione per poveri esistente in Europa, costandogli la sua fortuna e alla fine la vita in un reparto per malati di tifo dell'esercito russo a Cherson nel 1791. Anche se egli non si soffermò mai a indagare i motivi della sua scelta, i suoi diari e la sua corrispondenza consentono di ripercorrere i passi della ricerca di una vocazione spirituale da lui finalmente trovata durante una visita al carcere di Bedford nel 1773. Howard era figlio di un facoltoso e pio commerciante nonconformista di Smithfield che, dopo aver accumulato una «bella fortuna» negli affari,
si era ritirato in una ricca dimora a Hackney, centro della dissidenza londinese. Della madre si hanno scarse notizie; si sa che morì poco dopo la sua nascita, cosicché, come scrisse uno dei suoi biografi, egli fu privato della «forza della tenerezza materna» (17). Il padre, noto come fervente seguace della disciplina e come un intransigente zelante, lo mandò, quale apprendista, presso un droghiere all'ingrosso per abituarlo a essere metodico e laborioso. Howard odiava la sua posizione di apprendista e alla morte del padre riscattò il proprio contratto. Sposatosi poco dopo, si stabilì in una proprietà di campagna, prima nello Hampshire e quindi a Cardington nel Bedfordshire, presso suoi parenti, la famiglia di birrai Whitbread. Howard aveva sempre manifestato un'inclinazione verso la filantropia. A Cardington costruì un villaggio modello per i propri affittuari, con una scuola, nuove abitazioni e orti, esercitando su di loro quella che il suo amico e biografo John Aikin definì «sorveglianza combinata di padrone e padre». Oltre a garantire loro l'impiego e a provvederli di scuole e di assistenza medica gratuita, Howard esercitava una sorveglianza sulla moralità, facendosi forte della sua autorità di proprietario. Egli inseriva nei contratti d'affitto una clausola che prevedeva l'obbligo di frequentare regolarmente la chiesa, di tenersi lontani dalle taverne e di evitare «quei divertimenti che egli riteneva dannosi», specialmente i combattimenti di galli.
Howard restò vedovo due volte e la seconda moglie morì nel 1765 dando alla luce un figlio che egli dovette allevare da solo, dimostrandosi un padre rigido anche secondo le concezioni dell'epoca. Aikin riferì l'idea che l'amico aveva dell'autorità paterna:
«Considerando i bambini creature in preda a passioni e desideri violenti, senza ragione ed esperienza con cui controllarli, egli riteneva che la natura, di conseguenza, volesse destinarli a essere soggetti dell'autorità assoluta e che il primo e fondamentale principio da inculcare loro fosse quello dell'obbedienza cieca e senza limiti. Ciò non si può ottenere con un processo logico prima che si sia sviluppata la capacità di ragionare e quindi deve essere il risultato di una coercizione... La coercizione da lui praticata era calma e gentile, ma nello stesso tempo salda e risoluta» (18).
Come rileva Aikin, la coercizione esercitata da Howard era di «tipo razionale»: quando il bambino piangeva, Howard sedeva in silenzio in attesa che smettesse, riluttante a dare conforto al fanciullo per timore che imparasse a soddisfare i propri bisogni con proteste e lamenti. In un'altra occasione Aikin riferisce che il bambino, di quattro o cinque anni, fu rinchiuso per un breve periodo in una capanna in fondo al giardino. Howard preferiva questo tipo di punizione alle percosse. In seguito Howard prescrisse al figlio la stessa dieta vegetariana da lui seguita. Quando il bambino aveva cinque anni, Howard lo mandò in un collegio e da allora lo vide raramente, avendo già iniziato i suoi viaggi quasi continui sul continente. Aikin ammette che i rapporti tra padre e figlio erano solo formali; un genitore «la cui presenza era associata a... ritegno e repulsione» ispirava «più timore che affetto».
Nel 1786 il figlio impazzì mentre Howard si trovava lontano sul continente e dovette essere trasferito a forza dalla sua casa al manicomio del dottor Arnold a Leicester. La reazione di Howard nel ricevere la notizia fu un insieme di dolore e distacco. In una lettera a Samuel Whitbread, che fungeva da tutore del ragazzo mentre egli era assente, Howard esclamava: «Oh figlio mio Assalonne! Figlio mio! Figlio mio!». In un'altra osservava freddamente: «Scriverò a mio figlio, ma egli è troppo malato per venire all'estero. Null'altro che calma e solitudine possono guarirlo» (19). Così il padre dell'isolamento nelle carceri prescriveva il trattamento come cura per il figlio. Per un solo biografo la pazzia del figlio era diretta conseguenza della «severità prematura ed eccessiva» del padre, ma anche gli amici più stretti erano intimoriti e turbati dalla sua concezione intransigente del ruolo paterno (20).
La severità paterna di Howard rappresentò forse un modo di superare il dolore per la morte della moglie nel dare alla luce il figlio, ma è probabilmente dovuta in maggior misura alla sua formazione influenzata dalla tradizione ascetica del Nonconformismo. I gruppi piccoli e divisi e le sette che costituivano il Nonconformismo settecentesco erano i resti indeboliti della rivoluzione puritana del secolo precedente. Alcune di queste sette, la maggior parte dei quaccheri ad esempio, avevano perduto l'ardore settario e nel loro comportamento sociale si differenziavano poco dai membri della chiesa ufficiale. Altri restavano strenui difensori delle dottrine calviniste sulla predestinazione. Altri gruppi ancora, gli unitari e i «dissidenti razionali», sostenevano un credo fortemente razionalista ponendo l'enfasi sull'intelligibilità e regolarità del comportamento divino. In ogni caso, qualunque fossero le loro divergenze dottrinali, tutti i nonconformisti dichiarati avevano in comune l'esclusione da cariche pubbliche a meno che fossero disposti a giurare fedeltà al credo della chiesa anglicana.
Secondo Aikin, Howard era un indipendente, «un calvinista moderato», anche se frequentava una congregazione battista a Londra. Pur avendo poco in comune con i «dissidenti razionali», a causa della sua religiosità fervente ed emotiva, uno dei suoi più stretti amici era il radicale unitario Richard Price, che sarebbe successivamente divenuto famoso perché Edmund Burke nei suoi "Thoughts on the Revolution in France" ne avrebbe fatto il bersaglio della propria indignazione. L'ascetismo personale di Howard derivava dalla sua religione. Per tutta la vita egli si alzò all'alba, facendo un bagno freddo ogni mattina e, dopo le preghiere, vestendosi «alla maniera di un qualunque quacchero». Nel corso dell'intera giornata si cibava solo di «panini da due pence con un poco di burro o dolci, una pinta di latte e cinque o sei tazze di tè con una mela arrostita prima di andare a letto». Era «amante dell'ordine e della regolarità» in tutti i suoi affari ed era noto particolarmente per la sua rigorosa puntualità e per «la ripartizione esatta e metodica del proprio tempo».
Tale era il volto austero e composto che Howard presentava al mondo. Pur essendo eccezionale per un gentiluomo di campagna, la sua austerità era però tipica dell'ambiente in cui Howard trovò i propri amici, i professionisti e gli uomini d'affari quaccheri e battisti di Bedford, Warrington e Londra. Richard Price, il teologo e filosofo unitario, John Aikin, medico, scrittore e insegnante all'accademia dei dissidenti di Warrington, Samuel Whitbread, il birraio di Bedford e John Fothergill, medico quacchero e filantropo londinese non avrebbero trovato eccentrico il proprio amico. Alcuni di loro seguivano la stessa vita ascetica. Fothergill, ad esempio, pare abbia confessato sul suo letto di morte, con un orgoglio che lo faceva tremare, di morire vergine (21).
Occorre spiegare che cosa abbia indotto un tale ascetismo personale a proiettarsi verso l'esterno e in che misura abbia influito sulla decisione di mettere ordine nella vita dei poveri e, nel caso di Howard, di dare regole per la rieducazione dei criminali. Prima di tentare di risolvere questo problema che riguarda un'intera classe sociale, sarà necessario prendere in considerazione più da vicino gli impulsi che indussero Howard a darsi alla riforma carceraria.
La morte della moglie nel 1765 dovette precipitarlo in una profonda crisi spirituale. Cercando distrazioni con cui lenire il proprio dolore, Howard intraprese il primo di una serie di viaggi senza sosta per l'Europa. Durante questi viaggi solitari, i suoi pensieri ritornavano con insistenza al problema della vocazione spirituale: cosa doveva fare della propria vita? La sua educazione gli suggeriva che solo attraverso l'esercizio di una professione si sarebbe assicurato la salvezza, ma i successi del padre lo avevano liberato della necessità di lavorare. Primo membro della famiglia ad abbandonare gli affari e a rifiutare di percorrere il cammino indicatogli dal padre, Howard si ritrovò a condurre un'esistenza vuota che la vita di gentiluomo di campagna non riusciva a colmare. Cosa aveva fatto dei propri talenti? Si era dilettato nel tentativo di «migliorare» i propri affittuari e aveva bighellonato attraverso l'Europa in viaggi inconcludenti, ma simili attività potevano andar bene per un qualunque gentiluomo di antica discendenza, non per il
figlio nobilitato di una famiglia piccolo borghese di dissidenti, il quale da viaggi turistici ricavava solo un maggior disgusto di sé. In Italia, la terra del cattolicesimo e delle feste dei santi, la sua coscienza nonconformista lo morse a fondo e gli fece sentire con maggior intensità quanto fosse frivola la sua vita:

«Perché vanità e follia, dipinti e bazzecole, chiese dorate e pietre scintillanti, o perfino le stupende montagne, le belle colline o le fertili vallate che fra non molto saranno tutti consumati, debbono occupare i pensieri di un candidato a un regno eterno, perenne, un verme quale mai strisciò sulla terra?» (22).

I diari stesi durante i viaggi in Europa rivelano una complessa, ma velata, lotta interiore che spesso esplode in lampi di autolacerazione. In questi diari egli si descrive come «un vile verme», una «creatura sterile, nuda, fredda, morta, vile» e «un verme quale mai strisciò sulla terra» (23). Un passo, scritto in Olanda nel 1770, è tipico di questo suo atteggiamento:

«Quando rifletto e guardo dentro il mio cuore, sono preso dai dubbi, tremo! Una tale vile creatura, peccato, follia e imperfezione in ogni azione! Oh, pensiero terribile di un corpo di peccato e di morte che mi trascino dietro, sempre pronto ad abbandonare Dio e con tutta la spaventosa lista di peccati commessi il mio cuore vien meno e quasi dispera, ma pure, oh anima mia perché ti abbatti, perché sei inquieta? Spera in Dio! Nella sua libera grazia in Gesù Cristo! Signore io credo, aiutami nella mia incredulità dovessi io ostacolare la grazia di Dio! Potrò mai penetrare la sua bontà? Qui nel suo giorno santo io una volta ancora nella polvere davanti all'eterno Dio confesso i miei peccati odiosi e gravi, di fronte a lui avrò il massimo pentimento e contrizione del cuore e presenterò la mia anima colpevole e macchiata alla misericordia sovrana del redentore» (24).
Questo linguaggio è ovviamente difficile da comprendere per noi, poiché i canoni odierni di introspezione sono quelli fissati da Sigmund Freud più che quelli di John Bunyan. Perfino i biografi ottocenteschi ancora imbevuti della tradizione di Bunyan giudicavano alcuni passi del diario di Howard «simili ai deliri di un pazzo». Risulta quindi particolarmente arduo tradurre l'ansia religiosa di Howard in termini sociali a noi comprensibili. I diari rivelano la sua intensità, celandone l'origine e perciò ogni giudizio deve essere espresso con cautela.
Tuttavia brani simili possono essere letti in termini sociali quali espressioni di senso di colpa per la rapida ascesa al di sopra dei ranghi di coloro che devono faticare per vivere e di senso d'inutilità nel non riuscire a trovare un'accettabile vocazione quale alternativa. Questo senso di colpa raggiunse l'apice in Italia, provocando una decisione improvvisa. Dopo aver fatto con se stesso il «patto» di cambiar vita, Howard abbreviò il viaggio e fece ritorno alla propria casa nel Bedfordshire (25), gettandosi nella vita politica locale, riuscendo a farsi scegliere quale sceriffo e quindi presentandosi senza successo alle elezioni parlamentari del 1772 per i whig.
Come sceriffo Howard scoprì finalmente la propria vocazione. Al contrario di molti altri colleghi, egli prese molto seriamente l'obbligo di ispezionare le prigioni. Notando che i detenuti prosciolti restavano in carcere perché non potevano pagare le spese di scarcerazione, egli intraprese un giro delle prigioni vicine per investigare sulla diffusione di questa pratica. Nel 1774 comparve insieme all'amico Fothergill davanti a un comitato della Camera dei Comuni per testimoniare contro quest'usanza e per sostenere un progetto di legge che prevedeva l'uso di un'uniforme per i detenuti portati al processo. Respinto, ma nello stesso tempo affascinato dall'inferno che aveva scoperto nelle carceri, Howard intraprese allora un giro di tutte le prigioni inglesi e del Galles per documentarsi sui mali che aveva osservato per la prima volta a Bedford.
La sua denuncia non era cosa nuova. Nel Settecento era divenuto quasi proverbiale dire che le prigioni erano «seminari di vizio e sentine di sporcizia e malattie», per usare la significativa espressione di Henry Fielding (26). Tutti sapevano, ancor prima che lo facesse notare Howard, che i prigionieri erano depredati con esazioni, imbrogliati sui viveri, caricati di catene, esposti alle malattie e passibili di detenzione anche dopo essere stati prosciolti o aver scontato la pena. Howard poi non espresse la propria denuncia in termini insoliti per le orecchie dei contemporanei. L'originalità delle sue accuse sta nel suo carattere «scientifico», non nel suo significato morale. Eletto membro della Royal Society nel 1756 e autore di diversi scritti scientifici sulle variazioni climatiche nel Bedfordshire, Howard fu uno dei primi filantropi a tentare di stendere una statistica sistematica relativa a un problema sociale.
"The State of the Prisons", pubblicato nel 1777, impressionò l'opinione pubblica per la dimensione imponente della ricerca e per il fervore morale che la pervadeva. Howard aveva diligentemente annotato per ciascun carcere le dimensioni dell'edificio, la dieta, il costo del cibo, la popolazione carceraria nel giorno della sua visita, i lasciti caritativi disponibili per l'assistenza ai prigionieri, il peso delle catene usate e qualunque altro dettaglio lo avesse colpito. Non c'è quindi da meravigliarsi se gli «statisti sociali» della Royal Statistical Society negli anni Settanta lo acclamassero padre della scienza sociale (27).
"The State of the Prisons" si conquistò una fama anche grazie alla sua concretezza e alle dettagliate proposte di riforma che conteneva e che Howard dovette ricavare soprattutto dai suoi viaggi in Europa. Le Rasp House di Amsterdam e Rotterdam, vecchie di quasi due secoli quando le visitò, mostrarono ad Howard come avrebbero dovuto essere le case di correzione. Queste prigioni erano «tanto tranquille e... pulite», osservò meravigliato, «che un visitatore può a stento credere di essere in carcere» (28). Queste istituzioni suggerirono a Howard la maggior parte del programma di disciplina contenuto nel Penitentiary Act del 1779: «ore fisse per il risveglio, per la lettura di un capitolo della Bibbia, per la preghiera, per i pasti, per il lavoro eccetera», come pure l'idea di imporre uniformi, di rinchiudere i prigionieri in celle, di istituire una vigilanza costante. Il sobrio motto tratto da Seneca e scolpito nella pietra sopra l'ingresso della Rasp House di Amsterdam offrì a Howard una definizione concisa della concezione d'autorità che egli stava sviluppando: «La mia mano è severa, ma i miei intenti sono benevoli».
Nella vicina Gand Howard scoprì un altro modello suggestivo, la Maison de Force costruita sotto l'egida del magistrato e riformatore locale J. P. Vilain. Combinazione di ospizio e casa di correzione, la Maison de Force venne inaugurata nel 1771 come parte di una nuova offensiva dei coltivatori e dei gentiluomini delle Fiandre contro il vagabondaggio e i furti dei soldati e delle persone al seguito delle armate sbandati dopo la guerra dei Sette Anni e abbandonati a se stessi (29). Howard riprodusse la pianta della Maison de Force nel suo "The State of the Prisons" (30).
Vilain a sua volta aveva ricavato l'idea dell'isolamento dalla prigione di Clemente Dodicesimo, San Michele, costruita nel 1703 come riformatorio per giovani delinquenti nello stato pontificio. Il carcere, chiamato "Silentium", applicava l'esperienza cattolica della disciplina monastica al sistema punitivo (31). L'isolamento e l'obbligo del silenzio erano ancora in vigore quando Howard visitò Roma nel 1775. Questi riconobbe di essere stato influenzato da questo modello, tanto che un'iscrizione in uno dei cortili divenne uno dei suoi motti preferiti: «Serve a poco correggere il malvagio con le punizioni se non lo si rende buono con la disciplina» (32).
Howard ammise l'influenza anche di proposte e idee più vicine a lui. L'idea dell'isolamento non era una novità nell'Inghilterra del 1775. Nel 1701 l'autore anonimo di un piacevole opuscolo, "Hanging not Punishment Enough", oltre a chiedere che i condannati fossero impiccati in catene o venissero frustati a morte, dato che le esecuzioni ordinarie avevano perso ogni potere terrificante, suggeriva che i prigionieri attendessero il processo «murati in un cubicolo o cella da soli in modo da non potersi incitare fra loro a commettere malvagità» (33). Un anno dopo Thomas Bray, della Society for the Promotion of Christian Knowledge, raccomandò l'introduzione dell'isolamento a Newgate per persone in attesa di processo.
Nel 1725 l'idea di Bray venne ripresa da Bernard Mandeville (34) il quale, convinto che la libera associazione di delinquenti incalliti e di coloro che erano alle prime armi avesse trasformato Newgate in una «scuola del crimine», propose l'isolamento dei detenuti in attesa di processo in «cento piccole stanze, di circa dieci metri quadri», solidamente sbarrate e fornite di servizi igienici. In queste celle, aggiunse, sarebbe stato possibile «custodire i prigionieri senza tormentarli con le catene prima di avere la certezza che meritino di essere puniti» (35). Durante gli anni Quaranta e Cinquanta personaggi come Henry Fielding, Jacob Ilive, un editore che scontò un periodo di carcere per aver pubblicato un libello di argomento religioso, e il vescovo filosofo Joseph Butler suggerirono tutti l'idea di isolare i detenuti in attesa di giudizio (36). Due anni prima della pubblicazione di "The State of the Prisons", Jonas Hanway, un filantropo londinese eccentrico ma influente, propose la costruzione di una prigione a Londra in cui rinchiudere in isolamento circa duecento criminali altrimenti destinati alla deportazione o all'esecuzione. Era la prima volta che qualcuno suggeriva l'idea dell'isolamento per criminali già condannati. Hanway, membro del consiglio che dirigeva l'Ospizio dei trovatelli, l'ospedale Magdalen e la Marine Society e promotore della campagna per ridurre la mortalità negli ospizi londinesi, si era fatta una vasta esperienza in materia di disciplina e amministrazione di istituzioni pubbliche (37). Il carattere della proposta con cui egli anticipò il sistema disciplinare dei penitenziari risulta dalla descrizione della cappella nel suo modello di carcere:

«La cappella dovrebbe contenere tanti scompartimenti quante sono le celle e ciascuno dovrebbe essere in comunicazione con la cella per mezzo di uno stretto passaggio sotto il corridoio. Gli scompartimenti devono avere una doppia grata in modo che il prigioniero possa udire e vedere il ministro del culto ma non riesca a distinguere il viso di altri prigionieri» (38).

Da tutte queste fonti - la filantropia londinese, la tradizione monastica cattolica e l'ascetismo protestante olandese - Howard ricavò la propria concezione del penitenziario. Gli elementi di questa visione erano storicamente presenti, in attesa che un uomo autorevole con la necessaria attitudine alla riflessione sulla disciplina desse loro espressione.
Howard tuttavia era molto di più che un semplice tecnico della repressione scientifica. Il suo paziente pragmatismo procedeva insieme a un senso della ricerca tipico di un pellegrino. Egli amava paragonare i propri viaggi all'ingresso di Daniele, solo, nella tana del leone e, in una lettera all'amico Richard Price, scrisse che scopo delle sue attività era quello di portare «la torcia della filantropia» nell'inferno delle prigioni (39). Egli non guardava al carcere solo con l'occhio dell'amministratore che lo considerava un insieme di inefficienze e di abusi in attesa di riforme, ma vedeva in esso l'arena in cui egli avrebbe potuto lottare contro il male, dimostrando il proprio valore a Dio. Nella struttura simbolica dei suoi riferimenti, la prigione rappresentava un luogo di colpa, sofferenza e rimorso. Le celle erano per lui l'inferno sulla terra, l'incarnazione terrestre della dannazione eterna, come il giorno del processo corrispondeva al giudizio universale.
L'uomo che più fece per imprimere questa concezione simbolica della macchina della giustizia nella mente di uomini e donne del Settecento fu il leader metodista John Wesley, egli stesso un assiduo predicatore per persone sotto processo, incarcerate o condannate al patibolo. E' possibile, anche se non probabile, che lo stesso Howard fosse presente in tribunale il 10 marzo 1758 quando Wesley pronunciò il sermone con cui abitualmente erano inaugurate le assise a Bedford davanti a giudici, giurati, prigionieri e gentiluomini della contea seduti sui banchi degli spettatori. Wesley costruì un crescendo di paragoni fra il processo che stava per essere celebrato e il giudizio universale, invitando quindi i suoi spettatori a volgere gli occhi verso i prigionieri:

«Alcuni saranno giudicati oggi delle accuse loro rivolte ed essi sono ora rinchiusi in carcere, forse in catene, finché non saranno processati e condannati. Ma noi tutti, io che vi parlo e voi che ascoltate, dovremo "presentarci al trono del giudizio di Cristo". E noi siamo ora confinati su questa terra che non è nostra dimora, in questa prigione di carne e sangue, forse molti di noi anche in catene di oscurità, finché non riceveremo l'ordine di essere consegnati. Qui si interroga un uomo riguardo a una o due azioni; là dovremo rendere conto di tutto ciò che abbiamo fatto, dalla culla alla tomba, di tutte le nostre parole, di tutte le nostre attività, di tutti i nostri desideri e umori, di tutti i nostri pensieri e delle intenzioni del nostro cuore» (40).

Secondo questo sistema simbolico il fardello comune era rappresentato dal fatto che la colpa trascendeva le classi e univa ricchi e poveri, giudice e imputato, nelle stesse catene. Il ministero svolto da Welsey fra i condannati di Newgate testimonia questo suo senso di fratellanza con i detenuti. Nello stesso modo, per Howard i miserabili incatenati in fondo ai sotterranei delle carceri apparivano come un simbolo dei propri peccati. Non aveva forse egli in un momento di amarezza e abbattimento definito se stesso «un prigioniero del Signore» e in un'altra occasione «una creatura degna del male, meritevole dell'inferno»? (41). Egli trovò la propria vocazione nelle prigioni perché era stimolato da un sentimento di fratellanza verso i reclusi. Questa affinità rendeva instancabile il suo operato nel campo della riforma carceraria. Egli vi si dedicò totalmente, sacrificando anche la vita, con una devozione che si riserva solo a un progetto che sgorga dal profondo. La convinzione che ricchi e poveri, giudici e imputati fossero uniti dalla comune condanna del peccato costituiva poi la forza emotiva che lo induceva a insistere perché lo stato si facesse carico dei propri obblighi morali verso i detenuti.
«Un criminale» diceva «è un uomo e da uomo dovrebbe essere trattato dai suoi simili» (42). Egli insisteva perché i magistrati si preoccupassero di migliorare le condizioni delle prigioni se volevano evitare che, in conseguenza degli «inevitabili rivolgimenti delle umane sorti», si venissero a trovare essi stessi reclusi (43). A causa dei suoi conflitti intimi egli sapeva quanto fosse labile la linea che separava chi stava da un lato e chi dall'altro della legge morale. Le sue proposte per l'abolizione di esazioni e catene, l'imposizione di una dieta regolare, l'introduzione dell'istruzione religiosa e la prevenzione delle malattie erano originate dalla convinzione che tutto ciò fosse dovuto ad ogni peccatore, criminale o giudice che fosse. Howard accettava la dottrina dell'universalità del peccato e questo spiega in gran parte la sua fiducia nella capacità dei criminali di emendarsi. La scoperta di una vocazione spirituale nel servizio ai criminali gli aveva dato la prova che Dio poteva entrare in una vita sprecata, dandole un significato, provava che nessuno - non importa quanto fosse un «vile verme» - era perduto per la misericordia divina. Ed egli esclamava perciò:

«Oh, come dovrei benedire Dio io, un simile verme fatto strumento di sollievo dalle miserie dei miei simili e di maggior coesione del vincolo sociale grazie a sforzi reciproci di assisterci mutuamente» (44).

L'esperienza della sua stessa conversione gli dava la sicurezza della conversione dei detenuti. Se Dio poteva salvare un peccatore come lui, non poteva forse salvare i peccatori nelle carceri?
Wesley aveva avvertito la stessa forte affinità con i detenuti, ma aveva limitato per lo più la propria predicazione ai condannati alla pena capitale, convinto che solo chi era in punto di morte poteva con successo essere esortato al pentimento. Howard era più ottimista e credeva che fosse possibile convertire non solo quei peccatori che erano prossimi a morire.
«Una regolare, rigida disciplina in un penitenziario» avrebbe avuto il potere di trasformare in «membri utili alla società» anche «i miserevoli infelici» tristemente mandati al patibolo (45). La salvezza non era solo opera di Dio, riguardava anche lo stato ed ora per la prima volta, insisteva Howard, si possedeva una tecnica della salvezza utilizzabile per usi terreni.

3. Howard fu uno dei pochi uomini i cui stimoli personali siano riusciti ad accendere l'immaginazione della propria classe sociale. Il tentativo di erigere una statua in suo onore nel 1786, insieme alle agiografie e alle elegie pubblicate dopo la sua morte, sta a indicare quanto profondamente la sua ricerca individuale interessasse i contemporanei. In strofe pesanti ma sentite, il poeta Walter Lisle Bowles diede espressione all'immagine pubblica di Howard quale emissario della misericordia divina nelle regioni infernali:

«Chi mai per te, O CARITA', sopporterà
Fatiche e affronterà pericoli e affanni?
Chi, per tuo amore, rinuncerà ai piaceri sociali
Per scene di malattia e per la visione del dolore?
Chi, per tuo amore, cercherà le tenebre della prigione
Dove la colpa spettrale implora una rovina che tarda;
Dove risiede, non compianto e pallido, il pentimento,
Che mai disse a orecchie umane la sua storia;
Dove l'agonia mezza affamata piange invano;
Dove il cupo sconforto mormora sulle proprie catene;
Dove un profondo malanno è consunto fino alle ossa,
E una disperazione dagli occhi incavati dimentica di gemere.
La Misericordia, approvando, firma il casto progetto
E grida con orgoglio - HOWARD - il compito sia tuo!» (46).

La venerazione con cui era considerata la sua figura umana aiuta a spiegare il seguito che Howard ebbe come riformatore. Egli divenne il simbolo della vocazione filantropica, santificato dalle classi medie che cercavano l'incarnazione delle proprie migliori virtù. La reputazione di Howard è carica di ironia poiché egli fu lodato dagli stessi gentiluomini di cui condannava la negligenza nelle pagine di "The State of the Prisons". Dopo aver dimostrato quanto fosse immeritata la fama di sollecitudine di cui godeva la magistratura, egli vide la propria crociata trasformata in una rivendicazione di quella stessa fama. L'ironia è tuttavia superficiale, poiché Howard non aveva intenzione di mettere in imbarazzo la classe cui apparteneva e se la sua censura irritava singoli magistrati, non se li inimicava nel loro complesso; egli, infatti, lanciava la propria campagna presentandola come una battaglia contro il male in astratto piuttosto che contro gruppi particolari. Per questo motivo riuscì a conquistarsi una reputazione di filantropo disinteressato e apolitico che conferiva alle sue idee sulla disciplina una particolare autorevolezza.
Le sue idee incontravano soprattutto il favore di quel settore delle classi medie da cui egli stesso proveniva, uomini d'affari, professionisti e piccoli gentiluomini nonconformisti. Benché il mondo nonconformista fosse diviso, Howard aveva amici di varie tendenze. Egli aveva una grande ammirazione per i quaccheri, che sarebbero stati i sostenitori più fedeli della riforma carceraria, e, attratto dal loro ascetismo, adottò gli abiti di «un bravo Amico». La natura stessa della sua religiosità ricordava fortemente le tradizioni quacchere di preghiere silenziose, introspezione «sofferta» e fede nel potere illuminante della luce divina. I quaccheri da parte loro non potevano che essere attratti dall'idea che la detenzione fosse un purgatorio, un ritiro forzato dalle distrazioni dei sensi nell'isolamento e nel silenzio. Howard pensava al processo di emendamento di un prigioniero come al risveglio spirituale di un credente a un servizio quacchero; dal silenzio di una veglia ascetica il prigioniero e il fedele avrebbero nello stesso modo cominciato a udire la voce interiore della coscienza, provando la potenza trasformatrice dell'amore divino.
I quaccheri erano i più rigorosamente autodisciplinati fra i nonconformisti ed erano quindi facilmente attirati dall'idea di servirsi di un regime di disciplina per rieducare i reclusi. Per gli Amici la disciplina significava anzitutto l'insieme di regole di pensiero e di azione che la loro setta aveva scelto per distinguersi in quanto comunità di fronte a un mondo di peccatori: abiti semplici, l'uso del tu e il rifiuto di pagare decime, prestare giuramenti o togliersi il cappello davanti alle autorità. Alla fine del Seicento i quaccheri cominciarono a trasformare la disciplina da simbolo distintivo della loro comunità in uno strumento di controllo sugli altri. Questo mutamento corrispondeva alla trasformazione del loro stesso ruolo sociale, essendo divenuti alla metà del Diciottesimo secolo un gruppo di prosperi imprenditori e mercanti da setta perseguitata e chiusa, composta di piccoli artigiani, quali erano durante la guerra civile (47). Grazie alla loro esperienza di autodisciplina collettiva, gli Amici avevano una particolare predisposizione per escogitare sistemi disciplinari istituzionali. Il progetto di John Bellers per un Collegio d'Industria nel 1696, la riforma attuata in Pennsylvania dai quaccheri nella prigione di Walnut Street e Filadelfia nel 1786 e il manicomio da loro costruito a York nel 1813 da Samuel Tuke costituiscono gli esempi più famosi di questa mentalità (48).
I quaccheri erano poi attratti dalla campagna di Howard per la loro stessa amara esperienza fatta nelle carceri durante le persecuzioni degli anni Settanta del Seicento. Nonostante la loro crescente integrazione nella società inglese del Diciottesimo secolo, gli Amici continuarono ad essere imprigionati per il rifiuto di prestare giuramento, servire nell'esercito o pagare le decime. La loro setta definiva rigidamente quali dovessero essere i rapporti fra i cittadini e lo stato cui, più di ogni altro gruppo religioso, negavano il diritto di coartare chiunque.
I quaccheri negavano ai magistrati il diritto di costringere gli individui a operare scelte in questioni di coscienza e ciò li portava a negare loro anche quello di servirsi della pena di morte come strumento di punizione. L'abolizione della pena capitale in Pennsylvania e la riforma del carcere di Walnut Street furono provocate dalla preoccupazione, di carattere dottrinale, di imporre limiti rigidi all'uso della forza da parte dello stato. Quando Howard cominciò la lotta per tentare di armonizzare gli imperativi della disciplina e dell'umanitarismo, i quaccheri furono tra i primi a seguirlo.
L'amico più stretto di Howard e in seguito il suo collaboratore nella commissione carceraria del 1779 fu il medico quacchero John Fothergill (49). Grazie a un duro e incessante lavoro e ai suoi buoni rapporti con i nonconformisti, Fothergill era riuscito a divenire uno dei medici di maggior successo, essendosi assicurato la cura dei Wedgwood, dei Gurneys, dei Darby, degli Hanbury, dei Barclay e di altre famiglie nonconformiste che controllavano l'industria e le banche, con un guadagno stimato in 10000 sterline l'anno. Anche Fothergill, come Howard, si interessava di scienza. Botanico dilettante, sovvenzionò le ricerche scientifiche di Joseph Priestley che pure era suo paziente. Fothergill fu inoltre un pilastro della filantropia londinese e un promotore infaticabile di progetti per migliorare l'igiene della capitale. Scrisse al proposito brevi trattati in cui chiedeva l'introduzione di pratiche funerarie igieniche per i poveri e la costruzione di strade attraverso il labirinto dei quartieri malfamati della città per aprirli alla circolazione benefica di aria e al traffico commerciale. Egli fu anche il principale promotore della costituzione di un collegio per i figli dei quaccheri poveri a Ackworth nello Yorkshire, dove, affermava Fothergill, le «menti attive» di questi ragazzi dovevano essere «messe in qualche modo sotto controllo» e «abituate al silenzio, a prestare attenzione e ad essere subordinate». Howard, che visitò la scuola nel 1779, notò che la forma di disciplina che vi era applicata corrispondeva esattamente alla sua concezione (50).
Fothergill cominciò ad occuparsi di riforme carcerarie non solo perché era quacchero ma anche perché faceva parte di un gruppo di medici che stavano rivoluzionando l'igiene e l'amministrazione di ospedali, dispensari e ospizi. James Lind, il sovrintendente dell'ospedale navale Haslar a Portsmouth, William Smith, il medico che scrisse una mordace denuncia dello squallore delle carceri nell'area londinese nel 1776, e Thomas Percival, un'autorità a Manchester sull'«organizzazione» ospedaliera e sull'igiene urbana, con le loro esperienze nell'applicazione di norme igieniche in ospedali, brefotrofi, dispensari, navi, fornirono a Howard la base per le riforme igieniche che egli cercava di introdurre nelle carceri: uniformi, bagni, eliminazione dei pidocchi, muri a calce, dieta regolare e ispezioni mediche (51). Essi a loro volta parteciparono alla campagna per rendere note queste tecniche fra magistrati e autorità cittadine. Per questi medici quindi la riforma carceraria era solo un momento di un attacco generale alle pessime condizioni igieniche in cui versavano tutte le istituzioni che avevano a che fare con i poveri.
Il miglioramento di questa situazione era visto da loro come una crociata morale oltre che come loro dovere professionale. Le malattie dei poveri venivano considerate un segno esteriore di una mancanza interiore di disciplina, moralità e dignità. Nel 1795 John Mason Good, medico della prigione di Coldbath Fields aveva espresso una condanna sociale e morale, velata dal linguaggio medico, quando aveva detto che «i poveri sono in genere poco abituati alla pulizia» e quindi erano soggetti alle malattie perché «non provano, per mancanza di istruzione, lo stesso felice impulso verso la delicatezza, la dignità e i sentimenti morali che si ritrovano in altre persone» (52). La stessa tendenza a passare da categorie mediche a categorie morali e sociali emerge dall'opuscolo di Daniel Layard sul tifo, pubblicato nel 1773. La sporcizia e la malattia erano connaturate nei poveri come la pulizia e la salute nei virtuosi e nei solerti; i poveri erano «legati in catene» costituite da un'abitudine a una vita riottosa, ai piaceri del sesso e all'intemperanza (53). Ne derivava che erano soggetti alle malattie perché dediti ai vizi.
Ai medici del Diciottesimo secolo riusciva assai facile rivestire di termini scientifici la paura di classe e la condanna morale. Nel loro modo di ragionare essi tracciavano una linea di demarcazione decisamente meno netta fra il corpo e la mente di quanto avrebbe fatto la medicina del secolo successivo. Il loro pensiero era imbevuto del materialismo hartleiano allora in voga presso la scuola medica di Edimburgo (54). Secondo David Hartley, la psiche non era meno materiale del corpo, i disturbi del sistema corporeo producevano distorsioni percettibili e ansie mentali, proprio come i disturbi psichici potevano contribuire al collasso delle funzioni fisiche. Ne conseguiva che le malattie fisiche potevano avere cause «morali». John Coakley Lettsom, ricco medico londinese e protetto di Fothergill, ad esempio non aveva esitazioni nel riconoscere che la depressione mentale o il rimorso contribuivano ad aumentare il tasso di mortalità nelle carceri, proprio come egli attribuiva il tifo non solo a norme igieniche inadeguate ma anche a una disciplina insufficiente. L'abitudine di ubriacarsi, non meno dei pidocchi nel letto, facevano sì che i prigionieri soccombessero al tifo. Le categorie hartleiane diedero perciò legittimità «scientifica» alle condanne «mediche» per l'indisciplina dei poveri.
Ritenendo che le malattie nelle istituzioni pubbliche avessero cause morali oltre che fisiche, i riformatori cominciarono a pensare a norme igieniche che avessero anche carattere disciplinare. Per insegnare ai poveri a tenersi puliti era necessario insegnare loro anche ad essere devoti, docili e autodisciplinati. Le teorie di Hartley spinsero i medici a credere che, una volta che i corpi dei poveri fossero stati sottoposti a disciplina, anche le loro menti avrebbero acquistato il gusto per l'ordine.
Spinti da questa certezza, i medici nonconformisti degli anni Settanta tentarono di trasformare gli ospedali da ospizi per moribondi in istituti per l'emendamento morale dei poveri attraverso l'imposizione di regole igieniche. All'inaugurazione dell'infermeria di Liverpool nel 1792, Thomas Percival ribadì che la reclusione all'interno di istituzioni pubbliche era l'unico mezzo con cui si potessero cambiare i poveri. I malati non potevano essere curati nelle proprie case, dovevano invece essere sottoposti alla terapia morale in un ambiente asettico e ascetico, creato dall'isolamento in un istituto pubblico (55).
I primi sostenitori della riforma carceraria dedussero gran parte delle loro idee da questi riformatori ospedalieri. John Hanway, ad esempio, usò argomentazioni fondate su queste categorie quando descrisse il crimine come una malattia «che sparge distruzione al pari di una pestilenza e immoralità al pari di un disturbo epidemico che diffonde le sue caratteristiche morbose» (56). Allo stesso modo dei medici, egli vedeva il crimine provenire dall'identica fonte delle malattie, dai quartieri squallidi, turbolenti e disordinati abitati dai poveri. Anche le prigioni erano terreno di coltura sia per le epidemie sia per il crimine. Nei reparti fetidi e indisciplinati di Newgate il «contagio» dei valori criminali si trasmetteva dal delinquente incallito al nuovo arrivato, come il tifo passava dai criminali incalliti ai condannati giunti di recente. Al pari dell'ospedale, il penitenziario venne istituito per imporre la quarantena sia morale sia fisica. Isolata dietro le sue mura, si poteva impedire che la criminalità contagiasse la popolazione sana e onesta del mondo esterno. All'interno della prigione stessa l'isolamento di ciascun delinquente avrebbe impedito al bacillo del vizio di passare dai criminali incalliti a quelli condannati per la prima volta.
Grazie ai medici e ai propri amici, Howard era in grado di ottenere anche l'appoggio dell'ambiente formato dagli scienziati e intellettuali nonconformisti delle accademie dissidenti e delle società scientifiche. Due membri della Manchester Literary and Philosophical Society, Thomas Butterworth Bayley e Thomas Percival, avrebbero preso parte alla costruzione di due nuove prigioni nel Lancashire, «edificate su disegno di Mister Howard»; Erasmus Darwin, figura centrale della Lichfield Society, avrebbe scritto una delle sue lunghissime elegie in onore di Howard (57).
Le società scientifiche costituirono il terreno di incontro fra gli intellettuali e i principali industriali delle Midlands e del Nord, uomini come James Watt e Matthew Boulton, proprietari delle fabbriche Soho Engineering a Birmingham, Jedediah Strutt, un magnate proprietario della manifattura del cotone del Derbyshire, Abraham Darby, fondatore della dinastia di magnati del ferro e dell'acciaio a Coalbrookdale e Josiah Wedgwood, il magnate delle ceramiche dello Staffordshire settentrionale (58). Questi industriali erano di confessione quacchera o unitaria, whig moderati o radicali in politica, spronati da entusiasmo scientifico e da aspirazioni filantropiche, tanto che finanziarono diverse riforme, dall'abolizione della schiavitù, alla costruzione di ospedali e dispensari, alla diffusione dell'educazione tecnica e al miglioramento delle scuole per poveri.
Tuttavia essi sono più noti quali padri del sistema manifatturiero e della gestione scientifica delle fabbriche. Oltre a introdurre la meccanizzazione, una capillare divisione del lavoro e la rotazione sistematica del processo produttivo, essi escogitarono le nuove regole del lavoro industriale: cartellini di presenza, campane, regolamenti e multe. Per ridurre la mobilità e stabilizzare la forza-lavoro nelle prime fabbriche da loro aperte, fondarono scuole, cappelle e case per operai in villaggi modello (59).
Al pari dei riformatori degli ospedali e delle prigioni, questi pionieri dell'industria introdussero una disciplina razionale nel tentativo di emendare la moralità dei propri dipendenti. Nel 1815, ad esempio, gli Strutt si gloriarono del fatto che, prima della
costruzione dei loro opifici a Cromford e Belper, «gli abitanti erano noti per vizio e immoralità» (60). Lavoro e salari regolari, insieme all'influenza stabilizzatrice di una comunità di villaggio attentamente sorvegliata, avevano trasformato il loro comportamento. Ora, dicevano gli Strutt, «la loro operosità, il contegno decoroso, la frequenza regolare al servizio religioso e in generale la loro buona condotta» erano «assai notevoli». Wedgwood dal canto suo dichiarò che ubriachezza, trasandatezza sul lavoro, oziosità e violenza nelle fabbriche di ceramiche erano state rimosse dal suo feudo industriale a Etruria. I cartellini di presenza, le multe e la supervisione intensa e senza soste da parte sua avevano trasformato gli operai e «cambiato gli uomini in macchine che non potevano sbagliare» (61). Come si vede, durante la prima generazione industriale, le fabbriche potevano essere giustificate non solo perché portavano un progresso tecnologico, ma anche un miglioramento morale (62).
Industriali, scienziati e medici nonconformisti erano poi uniti dalle tendenze politiche; molti di loro appoggiarono una o l'altra delle proposte di riforma parlamentare che vennero fatte nel corso degli anni Settanta. Fothergill, Howard, T. B. Bayley e G. O. Paul sostennero la campagna di Christopher Wyvill per l'allargamento della rappresentanza delle contee in parlamento, la riduzione della spesa pubblica e la riforma dell'amministrazione finanziaria (63). Wedgwood appoggiò il programma più radicale del maggiore Cartwright e di John Jebb, che chiedevano sessioni parlamentari annuali e il suffragio universale maschile.
Molti personaggi che divennero noti negli anni Ottanta come whig radicali si interessarono poi alla riforma carceraria. John Jebb scrisse un trattato sulla disciplina nelle prigioni nel 1785, sfruttando la propria esperienza di direttore della Casa dell'Industria nel Suffolk durante gli anni Settanta (64). Altri radicali, come William Smith, Josiah Dornford e William Blizard, scrissero opuscoli a denuncia delle condizioni nelle carceri londinesi e sulla situazione del corpo di polizia (65). Il duca di Richmond, che presentò il primo progetto di riforma alla Camera dei Lord nel 1780, era responsabile della direzione dei lavori per la costruzione del primo penitenziario in Inghilterra, inaugurato a Horsham nel Sussex nel 1778 (66).
Queste persone agganciarono la lotta per la riforma carceraria a un più generale attacco alle strutture amministrative e politiche dell'"ancien régime", facendo proprie le accuse di Howard quali ulteriore prova dell'incompetenza amministrativa dei proprietari terrieri tory che governavano il paese. Ciò non significa che la riforma carceraria divenisse un «affare di partito» ed essa, infatti, ottenne l'appoggio di tutto lo spettro politico, nondimeno Howard trovò un uditorio particolarmente attento fra i riformatori nonconformisti whig. Il successo della sua crociata fu quindi legato alla generale ripresa della tradizionale opposizione whig.
Questa ripresa riflette l'ascesa della piccola borghesia nonconformista nelle fila della classe media costituita da proprietari terrieri e industriali. L'ascesa della stessa famiglia di Howard, che passò dal commercio dei tappeti alla proprietà terriera nel corso di una sola generazione, sintetizza il successo di un intero settore degli ambienti nonconformisti. La loro lotta, lanciata nel 1769, per l'abrogazione del Corporation Act e del Test Act che impedivano ai dissidenti di ricoprire cariche pubbliche, costituì il loro primo tentativo di ottenere diritti politici proporzionati al loro potere economico (67). Lo stesso Howard aveva avvertito il peso di queste leggi nel 1773 quando gli si richiese di sottomettersi all'umiliazione di giurare, contro i suoi principi, l'osservanza dei Trentanove Articoli della chiesa anglicana per poter ricoprire la carica di sceriffo di Bedford (68).
La lunghezza della guerra americana contribuì inoltre a rinvigorire il radicalismo politico dei nonconformisti. Legami religiosi, politici e interessi commerciali comuni univano saldamente i dissidenti inglesi ai coloni americani. Per fare solo un esempio, l'amico di Howard, John Fothergill, aveva parenti fra i quaccheri di Filadelfia, dove si era recato durante gli anni Cinquanta, stringendo una salda amicizia con Benjamin Franklin e Benjamin Rush. Quando, negli anni Settanta, gli americani si trovavano a Londra, si univano a Fothergill per discutere di politica con altri «onesti whig» in riunioni quindicinali presso la London Tavern (69). In tali ambienti venne rivivificata e rimaneggiata la filosofia politica whig in risposta alla crisi coloniale, insieme alla lotta contro i Test Acts e per la riforma parlamentare. Richard Price, Joseph Priestley e James Burgh furono le voci principali di questo rinnovato radicalismo e ad essi si rivolsero Rush, Franklin e altri rivoluzionari americani per giustificare la propria opposizione al tentativo britannico di imporre, a un popolo non rappresentato in parlamento, tasse e stazionamento di truppe. Dai loro scritti emersero i principi fondamentali della costituzione americana, in particolare l'idea dell'equilibrio dei poteri (70). In Inghilterra gli stessi autori fornirono a Fothergill, Howard, Bayley e altri riformatori whig una giustificazione per sostenere la lotta dei coloni.
Lo scoppio delle ostilità nel 1776 colpì uomini come Fothergill, Howard e Price con l'impatto di una tragedia personale. Per un decennio essi avevano lottato per mobilitare l'opinione pubblica contro la guerra e avevano invano tentato di raggiungere un compromesso che potesse impedire un distacco definitivo dai propri amici americani. Quando il governo si ostinò a fare passi falsi che preludevano a un conflitto armato, i radicali whig videro in essi molto più che un errore politico. Sia Price sia Fothergill interpretarono la guerra come una punizione divina per una nazione che aveva moralmente perduto la retta via. Scriveva Price allo scoppio delle ostilità:

«In quest'ora di pericolo conviene che volgiamo il nostro pensiero al cielo. Questo è quanto stanno facendo i nostri confratelli nelle colonie. Da un lato all'altro dell'America settentrionale essi stanno digiunando e pregando. Ma cosa facciamo noi? Pensiero orribile, noi stiamo impazzendo dietro ai piaceri, dimenticando nei divertimenti tutto ciò che vi è di serio e decente, spergiuriamo alle elezioni e ci vendiamo per qualche carica. Quale delle parti la provvidenza sarà incline a favorire?» (71).

Pieni di angoscia, essi videro nella lotta fratricida condotta dal proprio paese contro le colonie le fatali conseguenze della corruzione della classe politica inglese. Persone che avrebbero potuto opporsi alla politica del governo si lasciarono comperare da cariche o favori; altri che avrebbero potuto levare la propria voce contro gli errori dei ministri erano troppo immersi nei piaceri per dedicarsi a questioni pubbliche. L'opposizione whig era in una disposizione di spirito simile a quella dei liberals che si opponevano alla guerra nel Vietnam dopo il 1968. Le brutture della politica estera parevano rivelare difetti ancor più gravi all'interno della società inglese (72).
La guerra giustificava gli appelli dell'opposizione whig per l'attuazione di riforme politiche, amministrative e morali e conferiva un alone di credibilità all'affermazione secondo la quale gli errori nella politica coloniale del governo erano stati resi possibili da un parlamento fatto di mercenari che non avevano avuto sufficiente spirito di iniziativa per scatenare un'opposizione efficace. Sullo sfondo di tensioni e delusioni provocate dal clima bellico vennero avanzate numerose proposte per restaurare il potere del parlamento, riequilibrare le forze costituzionali e sradicare la corruzione negli uffici governativi. Pubblicato nel 1777, "The State of the Prisons" di Howard venne travolto dal clamore universale a favore delle riforme. Al centro di questo fermento stava il circolo di intellettuali che si riuniva a Bowood, proprietà dell'uomo politico whig lord Shelburne. Jeremy Bentham, Samuel Romilly, Richard Price e Joseph Priestley ne erano i membri più influenti. Bowood può essere descritto come il terreno d'incontro tra il filone materialistico e scientifico del nonconformismo, rappresentato da Priestley, e l'Illuminismo di derivazione continentale, rappresentato da Romilly e Bentham (73), fusi in un rapporto estremamente complesso.
Nelle tesi dei "philosophes" vi era molto che disturbava gli stessi riformatori inglesi che pure riconoscevano il loro influsso. Romilly aveva legami di parentela con i radicali di Ginevra che si ispiravano a Rousseau e aveva visitato la maggior parte dei più importanti salotti parigini degli anni Ottanta, incontrandovi Diderot, d'Alembert e Helvetius, scambiando opinioni sugli ospedali e sulla riforma della legislazione penale con Mirabeau. Fino ai massacri del settembre 1792 Romilly restò un sostenitore devoto della Rivoluzione francese sulla quale stese due resoconti destinati a rassicurare un pubblico inglese sempre più apprensivo (74). Egli stesso doveva molto, per la propria formazione giuridica, a Voltaire, Beccaria e Montesquieu anche se, figlio di un orologiaio ugonotto, la sua natura si sentiva in parte respinta dall'ateismo e dal libertinismo liberamente proclamati nei salotti parigini durante gli anni Ottanta (75). La stessa ambivalenza si nota in Priestley che, bibliotecario e compagno di lord Shelburne, accompagnò quest'ultimo, su sua richiesta, nelle sue visite a Parigi, e qui ebbe occasione di disapprovare le tesi religiose e sessuali espresse nei salotti di quella città, preferendo restarsene il più possibile in albergo (76).
Howard dal canto suo definì Parigi una «città sporca» e attinse le proprie idee da sane città protestanti quali Amsterdam e Rotterdam (77). In "The State of the Prisons" egli cita di rado Voltaire, Beccaria o altri personaggi di primo piano implicati nella rivoluzione della concezione della legge. In ambito europeo, solo modelli di istituzione come la Maison de Force parvero esercitare su di lui una profonda influenza. Di fatto Howard, per sua ammissione, era uno «sgobbone» e non provava alcun piacere per i ragionamenti teorici dei francesi (78).
Di conseguenza la rinascita di un'ideologia politica whig negli anni Settanta fu dovuta probabilmente più a una riscoperta della tradizione radicale inglese del Seicento che all'influsso dell'Illuminismo europeo, come ha dimostrato Caroline Robbins (79). Le differenze fra la tradizione inglese e quella europea non vanno tuttavia esagerate. Negli scritti degli ideologi inglesi si trovano frequenti riferimenti a Montesquieu, Voltaire e Beccaria e il materialismo di Priestley, quantunque derivato da fonti inglesi, non è sostanzialmente diverso dalla versione continentale espressa da Offray de la Mettrie, Helvetius e Cabanis.
Il materialismo inglese proviene in larga misura dalle opere di David Hartley e John Locke. La loro dottrina, negando l'esistenza di idee innate, giustificava un rifiuto «scientifico» dell'idea del peccato originale, di portata vastissima, e quindi della tesi che i criminali fossero incorreggibili (80). Il materialismo permise ai riformatori di attribuire la criminalità a una errata socializzazione piuttosto che a istinti innati. Come disse Bentham, i criminali erano «bambini ribelli, persone di mente malata» che non avevano l'autodisciplina necessaria a controllare le proprie passioni secondo i dettami della ragione (81). Non erano quindi mostri incorreggibili, ma solo creature imperfette spinte dai propri desideri infantili a ignorare il costo che a lunga scadenza avrebbero dovuto pagare per aver ricercato gratificazioni immediate. Il crimine perciò non era un peccato ma un calcolo errato.
In tal modo Howard e Bentham giungevano entrambi a negare l'incorreggibilità, anche se da posizioni diametralmente opposte, poiché uno accettava l'idea di peccato originale, l'altro la negava, il primo insisteva sull'universalità della colpa, il secondo sull'universalità della ragione. Materialisti come Bentham e Priestley affermavano che gli uomini potevano essere migliorati con una corretta socializzazione dei loro istinti verso il piacere. Howard credeva che essi potessero cambiare risvegliando in loro la consapevolezza del peccato.
Il pensiero di Howard non era espresso nel gergo del meccanicismo, ma in un più antico linguaggio religioso, più vicino a quello di Wesley che a quello di Hartley. Per lui i criminali non erano macchine difettose ma anime perdute, allontanatesi da Dio. Nondimeno durante gli anni Settanta il clima di fiducia ispirato a Hartley e diffuso negli ambienti riformatori fornì il contesto necessario all'accettazione delle idee di disciplina di Howard. La psicologia materialistica, facendo crollare la distinzione fra mente e corpo, pareva offrire una spiegazione scientifica all'asserzione di Howard secondo cui il comportamento morale degli uomini poteva essere alterato disciplinando il loro corpo. La psicologia materialistica sosteneva che una regolamentazione del corpo indotta da un'autorità esterna sarebbe dapprima divenuta un'abitudine e quindi si sarebbe gradatamente trasformata in una scelta morale. Grazie alla ripetitività e all'abitudine, le regole di disciplina sarebbero divenute doveri morali.
La concezione materialistica delle riforme presumeva poi che tale programmazione dovesse essere favorita dalla rieducazione morale della mente attuata in modo sistematico. Se tutte le idee, comprese quelle morali, provenivano da sensazioni esterne, ne conseguiva che le persone potevano essere socializzate controllando le fonti delle loro sensazioni. L'attrazione che esercitavano le «istituzioni totali» stava nel fatto che consentivano di attuare un controllo completo sulle «associazioni di idee» del criminale. Un tale ottimismo materialistico pervadeva anche le richieste avanzate dai whig negli anni Settanta per l'attuazione di riforme parlamentari e amministrative. Come disse James Burgh, «un abile statista può mutare a piacere il comportamento della gente»; non era forse evidente «che, se ben diretta, la specie umana può essere modellata in ogni forma concepibile»? (82).
Anche gli industriali, i medici e i riformatori degli ospedali che derivavano la propria politica da Burgh e Priestley parlavano della specie umana come di macchine da manovrare e migliorare. Josiah Wedgwood si gloriava di poter «fare degli uomini macchine che non potevano sbagliare». Bentham proclamò che il suo Panopticon era una «macchina per ridurre i furfanti all'onestà». Robert Owen, fortemente influenzato dal materialismo degli anni Ottanta, affermò che i «meccanismi animati» di New Lanark, sotto la sua direzione erano stati resi efficienti quanto i «meccanismi inanimati» (83).
Va ricordato che alcuni di questi assertori della disciplina parlavano di sé in termini altrettanto materialistici. Nel 1782 Josiah Wedgwood scrisse al proprio amico James Watt, stanco e depresso per le fatiche affrontate nell'officina meccanica di Soho a Birmingham, con l'intento di rincuorarlo:

«La tua mente, amico mio, è troppo attiva, troppo potente per il tuo corpo e quindi lo tormenta oltre misura. Se si verificasse la stessa cosa per qualsiasi macchina che hai sotto il tuo controllo... troveresti subito un rimedio. Per l'istante permettimi di consigliarti un uso più frequente dell'"olio della delega" in tutto il tuo meccanismo. Seriamente, concluderò dicendoti quello che il dottor Fothergill volle dicessi a Brindley: "Risparmia un poco la tua macchina o, come altre sotto il tuo controllo, sarà presto rovinata per l'uso accanito e continuo"» (84).

Nel sistema simbolico immaginato dalle argomentazioni dei materialisti, dirigere se stessi e dirigere altri uomini divenne cosa analoga alla direzione delle macchine. Ugualmente, emendare le persone poteva essere visto, nelle parole di Bentham, come una «specie di manifattura» che richiedeva «un suo capitale o scorte particolari», cioè una propria tecnica (85).
Un simile ottimismo materialistico era fenomeno internazionale. In Francia esso ispirò il movimento di riforma degli ospedali e dei manicomi durante il periodo rivoluzionario. Le tesi materialistiche legittimarono la lotta della professione medica per estendere il monopolio della direzione dei manicomi e delle prigioni, stabilendo che criminalità e pazzia erano patologie mediche radicate in lesioni del cervello. P. J. G. Cabanis, medico e ideologo del periodo rivoluzionario, esercitò un'influenza particolare per la diffusione dell'idea che «le abitudini criminali e le aberrazioni della ragione sono sempre accompagnate da certe peculiarità organiche che si manifestano nella forma esterna del corpo o nei lineamenti della fisionomia» (86). Teorie simili volevano in realtà essere una richiesta di egemonia da parte della professione medica nel trattamento dei devianti. Cabanis non era stato il primo ad avanzare tali richieste. Nel 1749 l'autore di "L'homme-machine", Offray de la Mettrie, aveva predetto che sarebbe giunto il giorno in cui colpevolezza e innocenza sarebbero state decise solo dai medici, sostenendo che «è vivamente auspicabile che non si abbiano altri giudici se non i medici più esperti». Una simile profetica anticipazione dell'influenza di cui medici e psichiatri godono oggi nella fase «diagnostica» dei procedimenti penali derivava naturalmente da una immagine materialistica del crimine che negava la responsabilità individuale (87).
In Francia il successo più importante conseguito dalla professione medica nel campo della disciplina istituzionale fu la nomina nel 1792 di Philippe Pinel a sovrintendente del manicomio di Bicêtre a Parigi. L'atto che lo rese famoso, l'abolizione delle catene per i pazzi, è ritenuto spesso solo un intervento umanitario e perciò è stata messa in ombra la sua connessione con il pensiero filosofico che sosteneva la necessità di una nuova forma di disciplina. Dal punto di vista di Pinel le catene si limitavano a imprigionare il corpo, la disciplina invece abituava la mente all'ordine. Egli quindi sostituì le catene con un regime basato sulla sorveglianza, il lavoro forzato e la sottomissione alle regole. L'equazione che Pinel riteneva esistesse fra disciplina e terapia lo induceva di conseguenza a pensare che la pazzia, al pari del crimine, fosse una perdita di autocontrollo, una deviazione dal cammino della ragione nei contorti sentieri della passione. Perché la mente ritornasse sulla via dell'ordine era necessario anzitutto che imparasse nuovamente ad abituarsi alla puntualità, all'obbedienza e alla diligenza (88).
Questo concetto di terapia raggiunse l'Inghilterra grazie alla traduzione dell'opera di Pinel pubblicata nel 1806, che trovò, come quella di Howard, l'uditorio più ricettivo e attento fra i quaccheri. Il manicomio per pazzi fondato nel 1813 dagli Amici a York, sotto la direzione di Samuel Tuke, fu la prima istituzione inglese a sostituire le catene e l'applicazione di vescicanti ai pazienti con un «regime morale» sotto controllo medico (89).
In America l'entusiasmo per le teorie materialistiche sulla disciplina fu espresso principalmente da Benjamin Rush, il «dottore pazzo» di Filadelfia, medico, filantropo e uomo politico. Anche Rush, come il suo amico Fothergill, si era imbevuto di idee derivate da Hartley mentre studiava alla scuola medica di Edimburgo (90). Nella sua "Enquiry into the Influence of Physical Causes upon the Moral Faculty" egli ripeteva la tesi di Cabanis per cui criminalità e pazzia avevano origine patologica e predisse che i medici sarebbero stati presto in grado di prescrivere rimedi per i delitti come prescrivevano «corteccia peruviana per curare le febbri malariche» (91). Anch'egli, come Cabanis, sostenne che la «coltivazione delle facoltà morali» sarebbe divenuta opera della professione medica che avrebbe agito in nome dello stato.
Nelle sue attività filantropiche Rush tentò effettivamente di giustificare la propria fede nella disciplina. Insieme ad altri eminenti quaccheri di Filadelfia, egli lavorò nel comitato che richiedeva l'introduzione di riforme disciplinari nel carcere di Walnut Street. Recatosi a visitarlo nel 1792, osservò con soddisfazione i risultati dell'esperimento:

«Tutti sono occupati nel lavoro: 1. a segare marmo, 2. a polverizzare solfato di calcio, 3. a tessere, 4. a fabbricare scarpe, 5. a fare abiti, 6. a tornire, 7. a tagliare o spezzettare ceppi.
Cura della morale: predicazione, lettura di buoni libri, pulizia negli abiti, stanze eccetera, bagni, nessuna conversazione ad alta voce, niente vino e meno tabacco possibile. Nessun linguaggio osceno o profano. Lavoro continuo, familiarità con l'orto, molto bello, 1200 cavoli, forniscono la prigione di verdure, coltivate dai prigionieri...» (92).

Quando il duca di La Rochefoucauld-Liancourt, il riformatore francese, visitò il nuovo carcere nel 1795, vide che i detenuti in passato condannati per delitti passibili di morte erano rinchiusi in celle di 2,40 per 1,80 per 2,70 metri e non erano lasciati uscire neppure per prendere aria. Ciascuna cella aveva servizi igienici e dava l'accesso a un piccolo cortile cintato in modo che i prigionieri restassero isolati anche durante la ricreazione. Il resto dei carcerati era rinchiuso in dormitori e lavorava insieme nelle officine durante la giornata. Anche se la regola del silenzio non era prescritta, si proibiva ai detenuti di «schiamazzare fra loro o di conversare sulle cause della propria detenzione o di litigare fra loro per qualsiasi motivo». La tranquillità generale era necessaria, venne spiegato al duca, per allontanare le distrazioni dei sensi e preparare il prigioniero «alla conversione, per così dire, in un nuovo essere» (93).
Il manicomio di Filadelfia offrì a Rush un'altra occasione per sperimentare le sue teorie sulla riforma della mente umana attraverso una disciplina imposta al corpo. Rush era un consulente presso l'istituzione, oltre che autore di un importante trattato sulla pazzia. Il suo contributo più significativo alle tecniche della disciplina terapeutica fu «il tranquillizzatore», una sedia progettata per calmare i pazienti soggetti a crisi isteriche. Essi venivano legati ad essa con testa immobilizzata da paraocchi di legno (una tazza sotto il sedile provvedeva alle necessità fisiologiche) e dovevano restare legati finché non fossero ridivenuti trattabili. Per coloro che soffrivano di «pazzia apatica», Rush progettò un
«giratore», una tavola ruotante su cui venivano legati i pazienti catatonici o letargici fatti poi ruotare ad alta velocità per costringere il sangue a fluire alla testa e stimolare il cervello, così sosteneva Rush, a riprendere un'attività raziocinante. Entrambe le invenzioni vennero abbandonate dopo che alcuni pazienti restarono feriti mentre tentavano di opporre resistenza alle benevole terapie di Rush (94).

4. Pur riferendosi sovente ai devianti come a macchine da riparare, i sostenitori della riforma carceraria potevano anche contraddirsi, ritenendoli, nelle parole di Hanway, «persone libere di agire di propria volontà, capaci di scegliere il bene e pentirsi del male» (95). Jeremy Bentham oscillava, senza rendersi conto apparentemente della contraddizione, fra la concezione dei criminali quali meccanismi difettosi e la loro definizione come creature razionali aventi diritto alla protezione della società (96). Howard non insisteva solamente sul fatto che i criminali fossero esseri razionali, ma sosteneva anche che erano capaci di provare sentimenti di vergogna. I delinquenti si possono emendare, in altre parole, poiché hanno una coscienza come tutti gli altri uomini. Come disse un riformatore, vi è in ogni persona, criminali inclusi, «un rispetto per la legge che non è mai stata violata dal primo delitto commesso senza che resti una possibilità di rimorso che lascia la mente predisposta alla correzione» (97). La legge morale, scriveva un altro riformatore, era «per così dire scolpita nella mente umana» (98).
I riformatori avevano qualche difficoltà a collocare l'idea di coscienza entro le loro teorie associazionistiche. La psicologia materialistica negava esplicitamente il concetto di un senso innato del giusto. Il senso del dovere, aveva a più riprese fatto notare Locke, non era scolpito nel cuore umano, era un obbligo appreso attraverso le ricompense e le punizioni che un fanciullo riceve dalle mani dell'autorità. La gente è razionale quanto basta per discernere il bene, credeva Locke, ma se lo sviluppo di una moralità sociale è manchevole non vi è alcuna voce interiore della coscienza a richiamare l'ego dall'incessante ricerca del piacere (99).
Durante gli anni Quaranta queste implicazioni sconvolgenti erano rimaste dissimulate nella teoria associazionistica. Il terzo conte di Shaftesbury, ad esempio, sosteneva che la gente possiede un «senso morale naturale che consente, se non vi sono ostacoli frapposti da circostanze avverse o ambientali, di scoprire le leggi di natura e raggiungere la virtù» (100). I sermoni del vescovo Butler negli anni Quaranta ripresero lo stesso tema trionfalistico: «La coscienza e l'amore di sé, se comprendiamo la nostra vera felicità, ci guidano allo stesso modo. Dovere e interesse coincidono perfettamente» (101). Questi commenti al testo lockiano servirono a reintrodurre l'idea di coscienza nella teoria morale associazionistica e fornirono una giustificazione a due modi distinti e contraddittori di accostarsi al concetto di riforma delle devianze, uno attraverso la disciplina del corpo l'altro tramite un appello diretto alla coscienza. Lo scopo di questa seconda concezione era quello di suscitare un senso di colpa attraverso la punizione.
I riformatori degli anni Ottanta non furono i primi a scoprire l'utilità sociale del senso di colpa. Discutendo delle pene corporali nei "Thoughts on Education", Locke aveva sostenuto che i tutori dovevano servirsi con parsimonia delle percosse per evitare che i fanciulli perdessero il senso di vergogna indotto dalle punizioni corporali. «La vergogna di fare il male e di meritare una punizione» disse «è il solo vero freno degno della virtù». Il dolore provocato dal bastone, se non è accompagnato dalla vergogna, cessa ben presto, è dimenticato e, a causa dell'uso frequente, perderà ogni potere deterrente» (102). Al di là del rapporto fra maestro e allievo, questa idea applicata alla società nel suo complesso implicava che un ordine sociale imposto con il terrore non poteva essere stabile quanto quello cementato da obblighi volontari verso la legge. Come avrebbe detto l'arcivescovo Tillotson in un sermone che Henry Fielding amava citare negli anni Cinquanta, «il timore di fronte al potere dei magistrati» non era «che una base debole e vaga dell'obbedienza». Essa sarebbe venuta meno «ogni volta che gli uomini possono ribellarsi senza timore per la propria incolumità e per il proprio interesse». I governanti devono fare in modo che i sudditi si vergognino di disobbedire, sosteneva l'arcivescovo. «La coscienza terrà a bada una persona quando tutti gli altri obblighi saranno spezzati» (103).
Se il mantenimento dell'ordine sociale dipende dalla capacità di indurre un senso di vergogna nei cittadini posti di fronte alla prospettiva di una punizione, è allora essenziale che l'atto stesso di infliggere una pena conservi la sua legittimazione morale agli occhi dell'opinione pubblica. Era perciò importante che la pena venisse presentata in modo tale che chi la subiva e chi assisteva alla sua esecuzione conservassero entrambi il rispetto morale per chi la infliggeva. L'efficacia di una punizione dipendeva dalla sua legittimità. Ne derivava un paradosso: le punizioni più gravi, quelle che provocavano un maggior senso di colpa, erano quelle che rispettavano i più alti modelli di giustizia e moralità. A punizioni simili non era possibile sfuggire rifugiandosi nel disprezzo verso chi le infliggeva, dichiarandosi innocenti o protestando contro la loro crudeltà. Mentre subivano la pena i trasgressori non dovevano essere distolti dalla contemplazione della propria colpa. Una volta convinti della giustizia della sentenza e delle intenzioni benevole dei giudici, i condannati potevano solamente abbandonarsi agli orrori del rimorso.
I riformatori degli anni Ottanta non furono certo i primi a comprendere che una punizione poteva suscitare un senso di colpa solo se non si alienava il trasgressore o il pubblico. Essi furono tuttavia i primi a sostenere che i criminali avevano realmente una capacità di provare rimorso, che poteva essere risvegliata infliggendo una pena scrupolosamente legittima e fatta scontare in maniera scientifica. Locke, ad esempio, aveva invece esternato dubbi sulla possibilità di redimere i delinquenti. Egli dubitava che essi avessero una coscienza su cui poter agire. Nel "Second Treatise of Government" i criminali erano trattati da schiavi le cui trasgressioni conferivano alla società il diritto di servirsi di loro come meglio credeva (104). Howard al contrario non esitava a credere di poter redimere i criminali facendo appello alla parte migliore della loro natura:

«La nozione che i condannati sono ribelli è errata. Vi è un modo di trattare alcuni fra i più disperati con soddisfazione per sé e vantaggio per loro. Mostra loro di possedere umanità e di volerli rendere membri utili della società; e lascia che comprendano e vedano le regole e gli ordini della prigione cosicché possano convincersi di non essere derubati, di viveri o abiti, da appaltatori o carcerieri. Tale condotta impedirebbe sommosse nelle carceri e tentativi di fuga, che a mio parere si verificano perché i detenuti sono spesso ridotti alla disperazione da empietà, inumanità e sfruttamento da parte dei carcerieri» (105).

Se con un trattamento giusto si può conquistare la coscienza del criminale, con gli abusi, nello stesso modo, si può inimicarla. I riformatori insistettero sovente sul fatto che punizioni fisiche come la fustigazione e lo squallore delle prigioni stavano erodendo il rispetto per la legge fra i delinquenti e nell'opinione pubblica in genere. Essi tendevano poi a considerare la propria accresciuta attenzione nei confronti della crudeltà fisica come un sintomo di una nuova sensibilità sociale generale, poiché non risultava che vi fossero state proteste pubbliche di rilievo contro gli abusi nelle carceri o le punizioni corporali prima dello stesso movimento di riforma.
I riformatori misero in guardia contro «la severità capricciosa» di esecuzioni troppo frequenti e di sanguinarie fustigazioni pubbliche che bollavano i delinquenti e «li confermavano nella disonestà invece di guidarli a un positivo mutamento nella loro condotta» (106). «Una correzione eccessiva» scrisse uno scrittore durante gli anni Novanta «neutralizza le intenzioni stesse della legge provocando nella folla un maggior grado di compassione per la vittima che indignazione per il delitto» (107). La forte sensibilità dei sostenitori della riforma carceraria di fronte agli abusi nelle istituzioni pubbliche e alla crudeltà fisica rifletteva l'ansia profonda che il sistema legale conservasse il suo alone di legittimità agli occhi dell'opinione pubblica e degli strati poveri in particolare. Preoccupazioni simili, insieme al desiderio di servirsi delle riforme per rafforzare il rispetto della legge fra il popolo, stavano alla base anche delle richieste di riforma parlamentare avanzate dai radicali whig negli anni Settanta. Gli scrittori politici whig amavano soffermarsi, ad esempio, sul contrasto fra l'ordine pubblico in un governo repubblicano e in uno monarchico. Richard Price osservò che le impiccagioni pubbliche erano rare nel Massachusetts perché il popolo in quello stato partecipava alla stesura delle leggi, mentre in Inghilterra, dove gli obblighi dei cittadini non erano compensati da una partecipazione democratica, le esecuzioni erano all'ordine del giorno (108). Benjamin Rush riprese questo tema nel 1787, sostenendo che la pena capitale era «il risultato naturale dei governi monarchici». Siccome i re credono di aver ricevuto la propria autorità per diritto divino, ne deducono di avere «il diritto divino di togliere la vita». Considerando i propri sudditi al pari di proprietà personali, essi spargono il loro sangue «con la stessa emozione con cui gli uomini spargono il sangue di pecore o buoi». I governi repubblicani invece «parlano una lingua del tutto differente. Essi apprezzano la vita umana e accrescono gli obblighi pubblici e privati al fine di difenderla» (109).
Nello sforzo di creare una base più salda all'ordine sociale in una società basata sulla diseguaglianza, i riformatori whig ribadirono l'importanza che il governo si uniformasse ai desideri del popolo. Nessuno di loro, escluso il maggiore Cartwright, potrebbe essere definito un democratico, anche se tutti sostenevano, secondo le parole di Price, che «il governo civile... è la creatura del popolo» (110). Chi era privo di proprietà non godeva del diritto di voto, disse Burgh, ma andava nondimeno convinto che i governanti ricercavano il bene comune e non semplicemente il modo di arricchirsi (111).
La ripresa delle concezioni consensualistiche dell'autorità durante la guerra americana spiega in parte l'insistenza dei sostenitori della riforma carceraria perché si escogitasse un sistema punitivo che non inimicasse i delinquenti. Il problema sorgeva quando si trattava di attuare questa teoria. Howard sosteneva che «una disciplina moderata (era) in genere più efficace della severità» (112). In luogo di «un sistema di correzione medievale», egli proponeva «un piano più razionale» per «addolcire la mente al fine di favorirne l'emendamento» (113). John Brewster, autore di "On the Prevention of Crimes", espresse il concetto con una frase agghiacciante, scrivendo che «vi sono vincoli d'amore e catene di ferro». Anime impavide che non si piegano davanti «a sentimenti di paura» possono essere attratte da «sensazioni più dolci» (114). I vincoli d'amore legano le menti con il rimorso nutrito di sensi di colpa; le catene di ferro vincolano solo il corpo, lasciando che le menti si corrompano liberamente nell'ira. Usando l'espressione «vincoli d'amore», Brewster intendeva riferirsi alle giustificazioni addotte dai sostenitori della riforma carceraria per l'introduzione di pene tali da convincere il delinquente ad accettare le proprie sofferenze ed affrontare la consapevolezza della propria colpa. E' importante cogliere il vero significato di queste nuove teorie sulla pena; i riformatori intendevano rivolgere il loro messaggio direttamente ai prigionieri, cui spiegavano che le punizioni erano inflitte «nel loro migliore interesse», mentre la teoria utilitaria le concepiva quale atto imparziale socialmente necessario. Nel respingere la teoria retributiva i riformatori tentavano in effetti di togliere alla pena qualsiasi carattere di vendetta. Nella giustificazione che se ne dava al prigioniero, la pena non doveva più essere, secondo le parole di Bentham, «un atto di collera o di vendetta», ma un calcolo, regolato da considerazioni sul bene sociale e sul benessere dei trasgressori (115).
Il compito di legare i prigionieri con vincoli d'amore doveva toccare al cappellano del carcere, il quale avrebbe dovuto convincerli ad accettare le proprie sofferenze perché inflitte con una sentenza imparziale e benevola, costringendoli a riconoscere quindi la propria colpevolezza e rinchiudendoli così in una sorta di prigione ideologica. Nel corso degli anni Novanta i prigionieri cominciarono a sentir pronunciare sul pulpito della cappella del carcere parole del genere:

«Le leggi del nostro paese non sono strumento di vendetta, ma di correzione. Le pene inflitte dai magistrati non devono essere considerate la manifestazione del risentimento di un uomo sottoposto a svariate passioni che può sbagliare o torturare con premeditazione l'oggetto del suo malcontento, ma come un beneficio sia per il trasgressore sia per la società contro la quale fu commessa l'offesa. Non albergate nei vostri petti i semi della malizia e dell'odio contro chi è stato causa delle punizioni inflittevi» (116).

I sermoni tuttavia non potevano convincere i detenuti ad accettare la giustizia delle loro sofferenze; inoltre era necessario che la disciplina carceraria confermasse la benevolenza e l'imparzialità del sistema legale. Il compito dei riformatori, in altre parole, consisteva nel rendere manifesta di per sé la razionalità della punizione. A questo proposito Jeremy Bentham dimostrò di essere la personalità più autorevole.
Il suo concetto di pena è illustrato in modo pittoresco dalla discussione sulla fustigazione. La severità di questa pena dipendeva dalla forza della persona che la infliggeva e dal grado di indignazione che il delinquente suscitava fra la folla. Bentham trovava ingiusto e irrazionale che una punizione potesse variare secondo gli umori di chi la infliggeva e di chi vi assisteva. A suo parere, il grado di severità doveva dipendere solo dalla gravità dell'offesa. Egli escogitò quindi una macchina per la fustigazione, consistente di una correggia volante fatta di bastoni e stecche di balena che poteva colpire la schiena di ogni delinquente con la stessa invariabile forza per ciascuno dei colpi stabiliti da chi la manovrava (117).
Secondo la sua concezione ciò che è razionale è impersonale e ciò che è impersonale è umano. Le punizioni non dovrebbero essere inflitte dalla mano di un sovrano irato, ma dovrebbero essere proporzionate a ciascun delitto esattamente come i prezzi dei prodotti stabiliti dal mercato. Idealmente le macchine potevano servire a punire con la massima giustizia i delitti. La punizione quindi sarebbe dovuta divenire una scienza, un modo obiettivo con cui lo stato avrebbe potuto regolamentare gli interessi egoistici dei singoli.
L'idea di una scienza della pena, nella forma in cui la propugnava Bentham, va vista nel contesto del diffuso convincimento, fra gli illuministi scozzesi e i riformatori parlamentari degli anni Settanta, che la stessa arte di governare potesse trasformarsi in scienza (118). Bentham non era quindi il solo a credere che un giorno si sarebbero scoperte le leggi che governano la finanza, l'amministrazione e l'ordine sociale. In queste teorie sul governo, il tema della pena occupava un posto di rilievo, essendo il principale strumento di cui disponeva lo stato per indirizzare le aspirazioni egoistiche degli individui verso fini legittimi (119).
Anche le attività filantropiche degli anni Settanta erano permeate da una simile idea sull'autorità. La benevolenza dei primi industriali e dei riformatori delle istituzioni pubbliche è spesso vista come uno sforzo per introdurre una versione idealizzata del paternalismo agrario in un contesto industriale e istituzionale. Tuttavia Wedgwood, Strutt o Howard non usarono l'antico linguaggio deferente nel descrivere le proprie attività filantropiche, ma scelsero espressioni nuove come «umanità politica» e «umanità scientifica» (120). Come spiegò nel 1798 Thomas Bernard della Society for Bettering the Condition of the Poor, essi aspiravano a «trasformare in scienza l'indagine su tutto ciò che riguarda i poveri e la promozione della loro felicità» (121). Nelle intenzioni di Bernard, ciò significava sostituire elemosine indiscriminate con un tentativo sistematico di operare una distinzione fra i poveri effettivamente bisognosi e quelli che non meritavano assistenza. Nella fabbrica il concetto di autorità scientifica implicava un tentativo di conciliare da un lato lo sfruttamento della mano d'opera ai fini del profitto e dall'altro la protezione del benessere morale dei lavoratori. Nel caso delle prigioni significava riconciliare dissuasione e riabilitazione, punizione e rieducazione.
Il problema di introdurre praticamente nelle carceri e nelle fabbriche un sistema autoritario razionale, di conciliare gli imperativi di «umanità» e «terrore», «profitto» e «benevolenza» si traduceva, per i riformatori, in un altro problema, quello di come si dovesse controllare il personale di sorveglianza in queste istituzioni. I riformatori credettero di aver trovato una risposta con l'introduzione di un regolamento. Essi credevano che le punizioni avessero perduto ogni autorevolezza morale fra i poveri perché si era lasciata a chi le infliggeva una discrezione illimitata. Le prigioni erano degenerate, trasformandosi in squallidi vivai di criminalità, perché i magistrati non avevano fatto rispettare le regole riguardanti la disciplina, l'igiene e i lavori forzati. Corruzione, favoritismi e crudeltà fiorivano nelle carceri perché l'autorità dei carcerieri non era tenuta sotto controllo da regolamenti e ispezioni. In luogo dell'«arbitrio sregolato» i riformatori proponevano di imporre «una gestione moderata da regole» (122).
Nell'intento di Howard, i regolamenti avrebbero dovuto riguardare tanto il personale di custodia quanto i prigionieri. Metà delle regole da lui proposte erano dirette a impedire traffici, abusi verbali, estorsioni di denaro o atti di crudeltà fisica da parte delle guardie. Egli fissava inoltre una serie di compiti per i custodi che comprendeva giri d'ispezione, appelli, controllo dei letti e ronde notturne. Le guardie dovevano sottostare a una disciplina regolare e formale non meno dei detenuti (123).
Inteso in modo particolare a limitare la discrezione delle guardie era l'attacco lanciato dai riformatori contro la riscossione di esazioni. Abolito il sistema, i riformatori speravano di riuscire a trasformare il carceriere da appaltatore indipendente in un subordinato stipendiato dallo stato. Per garantire la sua onestà essi proposero ispezioni trimestrali obbligatorie effettuate da magistrati.
I provvedimenti intesi a scalzare la discrezionalità di cui godeva il personale di custodia implicavano la convinzione che infliggere pene era uno strumento troppo importante per esercitare un potere di classe perché potesse essere lasciato ad appaltatori privati. D'ora in poi lo stato avrebbe dovuto assumersi direttamente questo compito.
I regolamenti si applicavano ovviamente anche ai prigionieri e prescrivevano una serie minuziosa di privazioni intese a uniformare la giornata nel carcere, ad aggiungere il peso della monotonia ai terrori della solitudine e soprattutto a ridurre al silenzio la subcultura carceraria, che, non meno della discrezionalità lasciata ai carcerieri, aveva frustrato in passato ogni tentativo di infliggere pene giuste e uniformi. I regolamenti avevano lo scopo di sottrarre la prigione al controllo sia dei detenuti sia dei carcerieri. Abolendo la divisione dei poteri non scritta, consuetudinaria e corrotta fra detenuti e carcerieri, i riformatori proponevano di sottoporre entrambi i gruppi alla disciplina di un regolamento ufficiale fatto rispettare dall'esterno. Le ispezioni dovevano costituire uno dei fondamenti della nuova autorità.
Nel "Panopticon", un progetto di penitenziario pubblicato nel 1791, Bentham proponeva di tenere guardie e prigionieri sotto la sorveglianza continua di un ispettore collocato in una torre centrale. Da questo punto d'osservazione gli ispettori godevano di una visione chiara sulle celle in cui stavano i prigionieri e sulle guardie impegnate nelle ronde. In tal modo il personale di custodia era tenuto «sotto lo stesso costante controllo» cui erano sottoposti i detenuti (124).
Tale lavoro di ispezione doveva essere controllabile democraticamente, al pubblico quindi si doveva concedere il libero accesso alla torre centrale in modo da sorvegliare gli stessi ispettori. Un'ispezione onnipresente e generalizzata era la soluzione proposta da Bentham all'antico problema di controllare le guardie.
I regolamenti avevano un doppio significato per i riformatori, essendo un elenco delle privazioni inflitte ai detenuti, ma anche una carta dei loro diritti. Essi accomunavano entrambe le parti nell'obbedienza a un codice imparziale applicato dall'esterno e in questo modo conciliavano gli interessi dello stato, quelli dei custodi e quelli dei detenuti. L'isolamento, allo stesso modo, conciliava terrore e umanità. I riformatori non dubitavano che fosse uno strumento di sofferenza. John Brewster descrisse pittorescamente l'angoscia che l'isolamento avrebbe indotto:

«Nell'essere sottratto a un mondo in cui ha tentato di sconvolgere l'ordine sociale, nell'essere sepolto in una solitudine in cui non ha compagni se non le proprie riflessioni, nessun consigliere se non il proprio pensiero, il delinquente troverà la punizione più severa che possa ricevere. L'improvviso cambiamento d'ambiente che dovrà sperimentare, la finestra che lascia passare solo pochi raggi di luce, il profondo silenzio notturno che lo circonda, tutto gli ispira orrore ad un livello che non ha mai provato. Tale impressione è fortemente ingrandita dal fatto di essere costretto a pensare. Nessun bicchiere intossicante obnubila i suoi sensi, nessuna baldoria chiassosa allevia la sua mente. Lasciato solo e sferzato dal rimorso, egli medita sulla sua attuale situazione e la mette in rapporto con quella successione di eventi che lo hanno esiliato dalla società e rinchiuso in carcere» (125).

La solitudine, come non esitò a riconoscere Jonas Hanway, era la «pena più terribile» dopo la morte, che una società potesse infliggere. Era però «la più umana» (126), in quanto nessuna mano rozza o brutale toccava il prigioniero. Lo stato, in un certo senso, strappava le catene e si ritirava, lasciando i prigionieri soli con la propria coscienza. Nel silenzio delle loro celle, sorvegliati da un'autorità troppo sistematica perché le si potesse sfuggire, troppo razionale perché le si potesse resistere, i detenuti si sarebbero arresi sotto la sferza del rimorso. «Chi tormenta l'umanità» disse Offray de la Mettrie «diviene il proprio carnefice» (127).
Questa dunque era la teoria carceraria enunciata dal gruppo di medici filantropi e magistrati nonconformisti di Londra e delle città industriali che si mossero a sostegno delle crociate di Howard. Essi raccolsero la proposta di costruire penitenziari perché essi, quale struttura autoritaria e macchine per la riabilitazione degli uomini, riflettevano alcuni dei loro più profondi convincimenti politici, psicologici e religiosi, promettendo anzitutto di ridare legittimità a un sistema legale che, essi temevano, era messo in discussione dall'eccessiva severità e dagli abusi ingiustificati del Bloody Code. L'appello per una riforma carceraria andò però oltre questo primo gruppo, raggiungendo figure come William Blackstone e decine di giudici di campagna che avrebbero in seguito propugnato la costruzione di nuove prigioni. L'appoggio da loro dato alla riforma carceraria non si può spiegare in termini di affinità intellettuale con le concezioni disciplinari di Howard, ma piuttosto con il fatto che essi avvertivano l'obiettiva necessità di attuare con urgenza riforme nel decennio fra il 1770 e il 1780. Se "The State of the Prisons" di Howard fosse stato pubblicato in qualunque altro momento, uomini estranei al ristretto circolo di riformatori dissidenti lo avrebbero probabilmente scartato quale opuscolo meritevole ma noioso. Invece esso comparve in un momento di crisi acuta nell'amministrazione della giustizia criminale.

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