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Le origini del penitenziario Capitolo 1.
PENTONVILLE.


1. Il penitenziario di Pentonville in Caledonian Road nella parte Nord di Londra divenne, subito dopo la sua inaugurazione nel 1842, uno dei simboli più discussi dell'epoca, lodato da alcuni quale soluzione al problema della criminalità, deriso da altri, in particolare da Thomas Carlyle e Charles Dickens, quale «palazzo per delinquenti» (1). Punto focale del dibattito pubblico, esso costituì uno dei monumenti dell'epoca, cosa a cui nessun carcere potrebbe oggi aspirare. Duchi e principi, funzionari stranieri e magistrati di provincia, politici e predicatori visitarono le sue gallerie a volta per osservarvi l'applicazione della nuova disciplina di solitudine e di silenzio (2). Pentonville divenne ben presto un modello di architettura e di disciplina carcerarie non solo in Inghilterra ma nella maggior parte d'Europa, l'apice di riflessioni ed esperimenti - condotti per tre generazioni - sulla vita quotidiana nelle prigioni. Situato su di un enorme lotto di quasi due ettari e mezzo, circondato da mura alte più di sette metri e mezzo, esso dominava, massiccia fortezza triangolare della giustizia, il quartiere operaio circostante. Negli anni Quaranta la giornata del recluso a Pentonville iniziava alle 5,45 del mattino al suono di una campana nei corridoi a volta (3). La stessa campana scandiva poi le ore successive: dopo il risveglio, il lavoro, i pasti, il servizio religioso, l'esercizio fisico, l'ispezione, il silenzio. Al risveglio, durante i quindici minuti che precedevano l'ispezione, il detenuto indossava l'uniforme, ritirava l'amaca, si lavava affrettatamente il viso, ripuliva il pavimento di ardesia e preparava il banchetto da ciabattino per il lavoro.
La sua cella era lunga circa quattro metri dalla finestra a sbarre alla porta sprangata, larga due e mezzo da muro a muro e alta poco meno di tre metri dal pavimento al soffitto. Il mobilio era frugale: una tavola, una sedia, il banco di ciabattino, l'amaca, una scopa, un bugliolo e una mensola. Su di questa stavano una caraffa di peltro e un piatto, un pezzo di sapone, un asciugamano e una Bibbia. Ogni istante della giornata trascorreva in questo spazio, fra questi oggetti, fatta eccezione per l'esercizio fisico e il servizio religioso. Quando la prigione venne inaugurata nel 1842, i detenuti trascorrevano diciotto mesi in solitudine, ma dopo che le autorità si resero conto degli effetti di questo provvedimento, il periodo di isolamento venne ridotto dapprima a dodici e quindi a nove mesi (4). A Pentonville vi erano 450 detenuti in celle identiche disposte lungo i corridoi in tre edifici. Il detenuto della cella vicina era solo a mezzo metro al di là del muro e, durante la notte, i prigionieri battevano messaggi come minatori in un pozzo, rischiando di essere puniti, poiché fra i detenuti erano proibiti contatti di ogni genere. Il silenzio costituiva la regola del luogo e un condannato poteva essere mandato nelle celle buie dei sotterranei per un gesto, un segno, un sorriso o un mormorio.
Alle sei il detenuto udiva passi fermarsi al di fuori della cella e, senza bisogno di guardare, sapeva che gli occhi dei guardiani passavano su di lui dal pertugio di ispezione, controllando l'ordine della cella e accertandosi che egli fosse effettivamente al lavoro al banchetto di ciabattino. Alcuni detenuti trascorrevano le giornate fabbricando e riparando scarpe per prigionieri; lungo i corridoi si potevano udire i colpi di martello, dalle celle superiori provenivano il ronzio e il rumore dei telai di cui si servivano altri detenuti per tessere il panno marrone delle divise. Il lavoro era lungo e incessante: un'ora e mezza prima della colazione, tre ore prima del pranzo e quattro ore nel pomeriggio. Una volta al giorno i sorveglianti passavano di cella in cella, fermandosi davanti a ciascuna di esse a ritirare il lavoro finito e a consegnare nuovo materiale.
Alle 7,30 veniva abbassato uno sportellino nella porta e una mano depositava una caraffa di cacao e un pezzo di pane. Facendo colazione, il detenuto poteva sentire le ruote dei carrelli che trasportavano il cibo lungo i corridoi e il risuonare degli sportelli che si abbassavano. La prigione era diretta con la precisione di una macchina e la colazione di 450 uomini poteva essere distribuita in dieci minuti.
Alle otto le porte delle celle si aprivano con un fragore di catenacci e uno stridio di serrature: adunata per il servizio religioso. Prima di uscire dalla cella nel passaggio, il detenuto calzava una maschera marrone, a forma di vanga, con buchi per gli occhi, che doveva impedire il suo riconoscimento da parte di amici e complici rinchiusi con lui. Usciva quindi dalla cella e si poneva sull'attenti, fissando oltre la tromba delle scale gli altri prigionieri, immobili al pari di lui eccetto che per il lampeggiare degli sguardi (5). A un comando, le figure mascherate marciavano lungo il passaggio, scendevano la scala a chiocciola in ferro, attraversavano gli alti corridoi illuminati dalle fiamme tremolanti dei becchi a gas fino alla cappella.
Era questa il cervello della macchina carceraria, divisa in centinaia di compartimenti che potevano ospitare una sola persona, posti sotto il pulpito. La fila di prigionieri si fermava davanti alla porta, un guardiano si dirigeva verso un apposito meccanismo e cominciava a girare una manovella; quando compariva il suo numero sul quadrante, ciascun detenuto usciva dalla fila e procedeva lungo i compartimenti, fino a raggiungere il proprio di cui richiudeva la porta. La cappella
risuonava del sordo rumore delle calzature dei prigionieri e delle porte che sbattevano. Appollaiati su alti sedili, le guardie potevano spaziare con lo sguardo per tutta la cappella, spiando i gesti fra la massa di teste sotto di loro. Il cappellano saliva allora le scale del pulpito e cominciava a recitare le preghiere del giorno, leggendo quindi un passaggio dalla Bibbia:

«Celebra il Signore, o terra tutta!
Servite al Signore, in esultanza.
Entrate innanzi a lui con lieti canti.
Riconoscete che il Signore è Iddio.
Egli ci creò e di lui siamo,
noi suo popolo e gregge de' suoi paschi.
Entrate fra le sue porte a lui cantando
negli atrii suoi con inni di laude.
Cantate a lui, benedite il suo nome.
Poiché buono è il Signore (Iddio nostro)
e in eterno sta la sua clemenza,
d'evo in evo la sua fedeltà» (6).

A questa citazione faceva poi seguito un sermone:

«Prigionieri, se fosse in mio potere, toccherei i vostri sentimenti e le vostre coscienze nel vivo, aprirei i vostri cuori davanti ai vostri occhi in modo che, contemplando la disperata malvagità che vi abita, voi potreste essere colti da orrore al suo manifestarsi; cosicché prima che le porte della misericordia siano chiuse per sempre davanti a voi, potreste ritornare al Signore vostro Dio e umiliarvi davanti a Lui, dispiacendovi profondamente e sinceramente della vostra vita passata, pregando devotamente e senza cessa per l'aiuto del suo spirito benedetto nel guidarvi attraverso la stretta via che conduce alla vita eterna» (7).

Dopo l'ultima preghiera i prigionieri gridavano un amen che esplodeva nel silenzio come una scarica.
I detenuti erano quindi condotti per l'esercizio fisico nei cortili, piccoli spazi circondati da mura attorno a un posto di osservazione. Ciascuno entrava da solo in uno di essi e cominciava a marciare all'intorno a passo rapido. Dal posto d'osservazione un guardiano gridava comandi perché i prigionieri non si fermassero:

«Sinistra! Destra! Sinistra! Destra!
Muovetevi, forza, muovetevi!
Affretta il passo, tu, affretta!
Fermi!»

Alle nove suonava la campana per la visita medica e i detenuti che accusavano malattie si radunavano fuori dell'ufficio del medico. Gli altri erano ricondotti alle celle per il lavoro: tre ore prima di pranzo e quattro dopo.
Mentre le mani del detenuto lavoravano, staccando suole dalla tomaia, adattandone di nuove e ricucendole, la sua mente era libera di muoversi e tornare alla vita che aveva condotto fuori, ripensando forse ai giorni in cui aveva perso la libertà... Il giorno della condanna, egli era stato condotto dal tribunale nelle sale di ricezione di Pentonville e fatto spogliare. I suoi abiti e gli effetti che aveva con sé gli erano stati tolti e il contenuto delle sue tasche, una ciocca di capelli, una lettera, monete, versato in una busta. I suoi abiti civili venivano avvolti insieme e inviati alla disinfezione.
Il condannato era quindi condotto nudo in un bagno, che doveva attraversare immerso fino alla vita, di acqua che odorava di acido carbonico. Dopo essersi asciugato, si presentava a un tavolo dietro al quale siedeva un funzionario del carcere con un grande registro davanti a sé. Mentre questi ricopiava i dati, un altro funzionario ispezionava il corpo del detenuto alla ricerca di cicatrici, deformità, tatuaggi e altri «segni particolari» portati dalla maggior parte dei condannati. I membri di bande londinesi, come i Quaranta Ladroni, avevano punti neri su ciascuna nocca a significare l'appartenenza alla «confraternita»; i marinai in genere avevano sirene tatuate sui bicipiti; i minatori potevano essere identificati dalle linee nere di polvere di carbone sul torace e sulla schiena; gli scaricatori portavano spesso cinti erniari. Tutte queste caratteristiche venivano registrate:

«George Withers, H.F. 4736
25, celibe, lucidatore francese, legge e scrive in modo imperfetto.
Furto a una persona con precedente condanna per delitto più grave.
Processato alla Central Criminal Court, 2 luglio 1850. Condannato a sette anni.
Indirizzo del parente più prossimo: 7 Willmott's Buildings, Kent Street, Boro.
Altezza 1,68 m. Peso: 60 chili. Capelli: castani. Occhi: grigi. Corporatura: media.
Altri segni particolari: cicatrici da vaiolo sulla guancia sinistra; cicatrice sopra l'occhio destro. Ancora a croce sul bicipite destro.
G. W. e F. R. tatuati sul bicipite sinistro» (8).

Dopo che era stata registrata la sua identità, il detenuto veniva condotto dal medico per un controllo:

«Su, metti i piedi sullo stuoino. Perché devi startene sulle pietre fredde se c'è un tappetino preparato per te, eh? Adesso apri la bocca e solleva la lingua. Ti ho forse detto di tirar fuori la lingua? Sollevala, non mi senti? Girati, alza entrambe le braccia. Alza la gamba destra, ora la sinistra. Solleva la pianta del piede. Ora l'altra. Adesso chinati. Ora alzati...» (9).

Quindi al prigioniero veniva rasata la testa e consegnata l'uniforme. L'atto finale del rituale consisteva nell'assegnazione della matricola. Non era più George Whiters, ma H.F. 4736.
Una volta ammesso, il detenuto era isolato dall'«esterno». Gli era concessa una visita ogni sei mesi. In quell'occasione un guardiano lo scortava a una stanza divisa in due da uno schermo che lasciava spazio appena sufficiente per il prigioniero e il visitatore. Il guardiano ascoltava la conversazione, controllava che nulla passasse fra loro e calcolava il tempo della visita con una clessidra; dopo quindici minuti riconduceva il detenuto in cella.
A un prigioniero era permesso scrivere e ricevere una lettera ogni sei mesi. La carta della prigione recava questo avviso:

«Tutte le lettere di contenuto improprio o ozioso scritte da un condannato o a lui dirette o contenenti espressioni di gergo o riprovevoli saranno soppresse. Il permesso di scrivere e di ricevere lettere è concesso ai condannati allo scopo di consentire loro di mantenere un rapporto con i loro amici rispettabili e non perché possano tenersi informati sugli avvenimenti della vita quotidiana» (10).

A Pentonville vi era una regola per ogni cosa, da ciò che era permesso scrivere in una lettera alla collocazione delle caraffe sulle mensole:

DISPOSIZIONI PER LE CELLE DEI PRIGIONIERI.

Regole che devono essere invariabilmente appese sopra il letto. Vaso e coperchio sotto la tavola. Scopa sul ripiano mezzano della tavola. Sapone, pettine, spazzola sul ripiano davanti al coperchio. Caraffe per bevande una a ciascun angolo della tavola... Libri dietro il recipiente del sale. Lavagna contro il muro, dietro i libri. Tavola per le comunicazioni davanti alla lavagna. Asciugamano piegato con cura sull'attaccapanni (11).

A Pentonville la giornata di lavoro terminava alle sei, con la cena. I carrelli per il cibo passavano rumorosamente nei corridoi, gli sportelli si abbassavano e nella cella era introdotto un piatto di stagno da cui traboccava stufato. La dieta consisteva invariabilmente di cacao e pane per colazione, farinata d'avena per pranzo, stufato per cena, con l'occasionale aggiunta di formaggio o di una cipolla. Dopo cena il prigioniero aveva a propria disposizione due ore in cui poteva passeggiare su e giù per la cella, scrivere una lettera, meditare o leggere la Bibbia:

«O Signore, deh ascolta la mia prece,
e il mio grido giunga sino a te.
A me non nascondere il tuo volto,
nel giorno ch'io son nelle ambasce.
Verso di me porgi ascolto benigno,
mentre io t'invoco, pronto m'esaudisci.
Chè qual fumo dileguano i giorni miei,
son riarse qual brage le mie ossa.
Qual erba è adusto e arido il mio cuore,
sì che oblio di cibarmi del mio pane.
Chè per il mio gemere veemente
non altro son io più che pelle e ossa.
Somiglio a un pellicano nel deserto,
son pari a un gufo in mezzo alle macerie.
Io veglio insonne, divenuto eguale
a un passero solingo sopra il tetto.
Tutto il giorno m'oltraggiano i miei nemici,
e imprecano furenti alla mia sorte.
Di cenere io mi cibo come pane,
la mia bevanda mescolo col pianto» (12).

Alle nove le luci si abbassavano e quindi si spegnevano, le spranghe erano chiuse e i doppi catenacci rimbombavano sulla porta della cella: era l'ora del silenzio. Disteso sull'amaca, nel buio, un detenuto poteva udire i passi soffocati delle guardie, il rumore delle loro sciabole contro i gambali e il suono prodotto ogni volta che percuotevano gli orologi posti nei passaggi. A volte, confuso fra tutti gli altri rumori, poteva sentire il picchiettio del telegrafo della prigione attraverso le mura e le tubazioni. Tutte le notti i prigionieri si sforzavano di far giungere agli altri, attraverso la pietra, laboriosi messaggi, deboli come battiti cardiaci.
La notte era il periodo più duro; il sonno era spesso discontinuo e agitato e alcuni detenuti trascorrevano le ore osservando le stelle o le nuvole che correvano veloci contro la luna, attraverso la finestra della cella, e tendendo l'orecchio nel silenzio di catacomba. Accadeva a volte che risuonassero le grida di prigionieri che avevano ceduto sotto il peso della solitudine e del silenzio. Un detenuto sognava regolarmente che sua sorella era al di là delle mura, sul marciapiede, alla ricerca della sua cella e che chiamava il suo nome; una notte egli balzò dall'amaca, corse alla finestra, afferrò le sbarre con le mani e cominciò a piangere invocandola (13). Un altro vide il riverbero di un incendio nella cella e cominciò a gridare di paura. A un terzo sembrò di vedere serpenti attorcigliati alle sbarre della finestra e altri che uscivano dal catino. Un altro si convinse che la mano che spingeva il cibo attraverso lo sportello tentava di avvelenarlo e cominciò a gemere durante la notte. Le guardie andavano a prendere quelli che gridavano e li portavano in infermeria; il dottore avrebbe quindi steso un rapporto:

«Detenuto D.F. 4920: cinque mesi e mezzo dopo il suo arrivo, ha manifestato depressione di spirito e stranezza nel comportamento e nella conversazione. Pare essere oppresso da vaghi timori e apprensione per una minaccia incombente che crescono con l'approssimarsi della notte. Ha dichiarato di avere costantemente paura di una punizione per inosservanza delle regole del carcere e si è inculcata in lui l'idea di essere in qualche modo incorso nelle pene previste per qualche crimine grave. Il racconto del prigioniero era confermato a sufficienza dal suo aspetto stravolto» (14).

Ogni anno da cinque a quindici detenuti venivano condotti da Pentonville al manicomio (15). Se non guarivano, vi erano confinati finché non avessero scontato la condanna. Le autorità si assicuravano che forme di pazzia simulata non consentissero di sfuggire al penitenziario.
Se solitudine e silenzio portavano alcuni alla follia, qualcun altro era spinto al suicidio:

«Il detenuto R.L. 1412 venne rinvenuto morto nella sua cella all'apertura della porta alle sei del 5 giugno. Il corpo era sospeso allo stipite di ferro della finestra della cella con una corda di "pezzi incerati" quali sono usati dal prigioniero nel suo lavoro di calzolaio... Sulla lavagna del prigioniero fu trovata una lettera da lui indirizzata al padre, con cui esprimeva una deliberata intenzione di suicidio, giustificata dalla difficoltà di ottenere un onesto lavoro una volta liberato e quindi dalla probabilità di essere spinto a commettere altri delitti e, alla fine, assassini» (16).

Non tutti i prigionieri erano distrutti da Pentonville; alcuni combattevano apertamente la sua disciplina e dai rapporti di punizione emerge un quadro di continuo conflitto fra gli «incorreggibili» e il personale di custodia:

«... per atti di grave e continua insubordinazione e per aver usato, il 28 settembre, un linguaggio violento e minaccioso verso una guardia, dicendole: "Faresti meglio a lasciarmi in pace, o ammazzerò qualcuno di voi, maledetti". Un detenuto incattivito e del tutto incorreggibile.
... Venti colpi di sferza a P. G. per aver messo camicia e panciotto sopra i propri vestiti e aver dato loro fuoco; e per aver dichiarato che, se isolato, avrebbe distrutto le proprietà della prigione fino a morire...
...5451, W.R., di vent'anni, ventiquattro colpi di gatto a nove code per aver distrutto due coperte, due lenzuola, una caraffa, un materasso, una ciotola. Inoltre per aver detto, con linguaggio minaccioso: "Ve la farò vedere io, maledetti" e per un comportamento indecente e disgustoso, come risulta anche da otto precedenti rapporti...» (17).

La sferza e il gatto a nove code erano usati per prigionieri che assalivano o ingiuriavano le guardie. Per infrazioni disciplinari minori la punizione consisteva d'abitudine nella reclusione nelle strette, buie celle nei sotterranei, in genere per tre giorni, anche se certi detenuti vi furono rinchiusi fino a tre settimane di seguito. Alcuni prigionieri più giovani furono sottoposti a punizioni quasi continue in queste celle prima di essere distrutti dal freddo e dal buio. Uno di loro disse alle guardie che non sarebbe mai uscito e giurò di uccidere chiunque fosse andato a prenderlo; i guardiani immisero un misto di fumo e pepe di cayenna nella cella e dopo un minuto il prigioniero picchiava alla porta, pregando che lo facessero uscire (18).
Molti prigionieri rinunciavano a lottare contro Pentonville, si inserivano nella vita quotidiana, tenendosi lontani dai guai in attesa che trascorresse il periodo della condanna. Alcuni non mostrarono segni di sofferenza per il silenzio e la solitudine, ma la maggior parte dei prigionieri riportava conseguenze di vario tipo. Dopo la liberazione, i detenuti erano identificabili dai segni lasciati dalla prigione, i vestiti dati loro all'uscita, la testa rasata e il pallore della pelle (19). Vi erano poi i segni interiori; chi osservò qualche prigioniero dopo il rilascio, notò che molti soffrivano di crisi isteriche e di pianto. Altri trovavano assordante il rumore delle strade e chiedevano cotone da mettere nelle orecchie; altri ancora spaventavano i familiari con un torpore e un'indifferenza che passavano solo dopo alcune settimane. Anche chi riteneva di essersi abituato alla solitudine scopriva dopo molto tempo di sognare ancora la prigione e di udire nel sonno le urla e lo sferragliare dei catenacci (20).

2. Pentonville era il risultato di una serie di sforzi per ideare un sistema nuovo e perfettamente razionale di detenzione, il punto terminale di una storia che risale all'originaria formulazione, da parte di John Howard nel 1779, dell'ideale di disciplina carceraria. Perciò il punto di partenza di una storia sociale del penitenziario non è rappresentato dagli anni Quaranta del secolo scorso, ma dal decennio 1770-1780, quando cominciò a prendere forma l'idea di «istituzione totale», dopo due secoli di ripetute esperienze con case di lavoro, case di correzione e prigioni.
Gli anni Settanta, che rappresentano il nostro punto di partenza, non furono il primo periodo in cui si assistette a un'ondata di sperimentazioni con sistemi di disciplina totale: si possono distinguere quattro periodi precedenti, ciascuno dei quali fornì suggerimenti ed esempi a questo decennio. Il precedente più antico del penitenziario fu la casa di correzione elisabettiana (21). Nel Medioevo erano esistite prigioni per detenuti in attesa di giudizio, mentre era stato fatto un uso limitato dell'imprigionamento come punizione. La casa di correzione fu la prima istituzione europea in cui i detenuti erano contemporaneamente confinati e fatti lavorare, allo scopo di apprendere «l'abitudine all'operosità». In questo primo uso della detenzione come strumento di educazione coatta possiamo rintracciare il germe dell'idea di rimodellare il carattere dei devianti con strumenti disciplinari.
In Inghilterra le case di correzione vennero istituite per rinchiudere e confinare la schiera di persone «senza padrone» gettate sulla strada in seguito alla dissoluzione del sistema caritativo dei monasteri cattolici, la fine dei seguiti feudali, le recinzioni e l'espulsione dei piccoli contadini dalla terra e la forte pressione demografica su un libero mercato del lavoro, ristretto e sovraffollato (22). Istituzioni simili furono fondate anche in altre parti d'Europa: la più famosa fu la Rasp House di Amsterdam, costituita dai maggiorenti della città intorno al 1550 per confinarvi l'orda di vagabondi e di persone al seguito degli eserciti, sradicati dalla guerra spagnola nei Paesi Bassi (23).
Secondo criteri di giudizio posteriori non vi era nulla di «totale» in queste prime case di correzione, luoghi in realtà abbandonati a se stessi e disordinati. Uno schizzo del cortile della casa di correzione di Amsterdam, ad esempio, ci mostra un insieme casuale di attività: in un angolo un uomo sferzato, in un altro, due persone che lavorano ceppi, un gruppo di donne condotte in visita e un uomo che picchia un ragazzino; nessun segno che qualcuno comandi; l'attività ruota attorno a una statua della Giustizia che osserva la scena, fiera ma impotente (24).
Gli edifici stessi non erano progettati per facilitare l'esercizio di qualche forma di controllo. La prima casa di correzione venne costituita a Londra in un palazzo reale riattato, Bridewell, altre vennero successivamente fondate in granai, birrerie e dipendenze; un'architettura funzionale alle esigenze dell'istituzione avrebbe dovuto attendere altri due secoli.
La storia successiva delle case di correzione nel Diciassettesimo e Diciottesimo secolo è poco nota e attende ancora il suo storico. Sembra tuttavia che la reclusione fosse caduta in disuso durante il periodo della Restaurazione e che altre forme di punizione, quali la frusta, il marchio a fuoco e la gogna avessero preso il suo posto come pene di primo grado. Gli storici hanno sostenuto che la detenzione veniva adottata su larga scala in periodi di forte disoccupazione, di incremento demografico, prezzi crescenti e salari in ribasso. Queste condizioni si verificarono fra il 1590 e il 1640 e di nuovo fra il 1690 e il 1720 (25). In quegli anni la detenzione aveva l'effetto di sottrarre mano d'opera a un mercato già sovrabbondante, mettendola a disposizione dello stato. In epoche di ridotta disoccupazione e di salari più alti, invece, furono adottate punizioni non legate all'istituzione carceraria, dato che le condizioni di scarsità della mano d'opera consigliavano di lasciar circolare il più possibile i devianti all'interno del mercato del lavoro.
Ovviamente, le condizioni del mercato del lavoro sono solo uno dei fattori che determinarono la strategia delle punizioni; altri elementi, quali il diverso modo di valutare culturalmente l'opportuna distanza sociale fra «normalità» e «devianza», non ne erano condizionati. Finché non si avrà una storia della casa di correzione nel Diciassettesimo secolo, più completa di quella fornita dai resoconti esistenti, non saremo in grado di comprendere i flussi e i riflussi nell'applicazione delle pene in questo periodo.
Sembra tuttavia che gli acuti disagi e il sovraffollamento delle carceri nell'ultimo decennio del Seicento abbiano causato nuove riflessioni sulle «istituzioni totali». Fu questo il periodo del College of Industry di John Bellers, un affarista quacchero che progettò una colonia industriale comunitaria entro le mura di un'istituzione disciplinare; della Mint di Bristol, un'enorme casa di lavoro fondata nel 1701 dai mercanti della città per confinarvi i poveri vagabondi, e delle proposte di John Locke per case di lavoro penali quale mezzo per ridurre il carico delle parrocchie (25 A) nel mantenimento dei poveri non reclusi. Gli sforzi di Thomas Bray e della Society for the Reformation of Manners di riformare Newgate e introdurre l'isolamento per chi era in attesa di processo risalgono anch'essi a questo periodo (26).
Nei primi decenni del Settecento un ulteriore incremento dell'edilizia carceraria fu provocato dall'aggravarsi della criminalità a Londra e da un netto aumento dei costi dell'assistenza ai poveri nelle zone rurali. Vennero approvate leggi che autorizzavano la costruzione di ospizi e l'uso delle case di correzione quale mezzo per arginare l'aumento dei prezzi. Queste istituzioni avrebbero dovuto costringere i poveri a «osservare un orario di lavoro; a trattenersi dallo spendere i propri scarsi guadagni in rivendite di alcolici e birrerie a danno della propria salute; ad essere di assistenza reciproca in caso di malattia o di necessità provocate dalle infermità della vecchiaia; e ad evitare le tentazioni di rubacchiare e scassinare per soddisfare i propri bisogni» (27). Matthew Maryott, sovrintendente ai poveri nel Buckinghamshire, diresse per contratto trenta di queste case durante gli anni Trenta e servì da consulente itinerante per altre centocinquanta (28). Di nuove ne furono costruite circa una dozzina, ma per la maggior parte erano vecchie case per poveri in cui questi erano messi al lavoro e costretti a filare e tessere in condizioni di rigida disciplina. I sogni che Maryott tenacemente perseguiva di far fortuna sfruttando i suoi contratti naufragarono per le difficoltà di costringere al lavoro i poveri, e sovente anziani, reclusi. Negli anni Cinquanta le case di lavoro erano di nuovo divenute sonnolenti rifugi per anziani, pazzi e orfani.
La quarta ondata di esperimenti con le «istituzioni totali» ebbe inizio ad opera dei proprietari e dei fabbricanti di tessuti del Suffolk orientale (29), che fra il 1753 e il 1771 edificarono nove immense case di lavoro dette Case dell'Industria, a costi oscillanti fra le 10000 e le 15000 sterline ciascuna. Costruite in un periodo in cui, a livello locale, l'aumento del costo dell'assistenza ai poveri generava preoccupazioni, esse rappresentarono il tentativo più ambizioso del Diciottesimo secolo di sfruttare il lavoro degli indigenti nelle case di lavoro e di scoraggiare le persone abili dal «pesare» sulla parrocchia. L'assistenza esterna venne ridotta e in queste enormi baracche furono confinati sino a 500 poveri alla volta, messi al lavoro negli orti dell'istituzione o costretti a preparare la lana per i fabbricanti di Norwich. L'organizzazione di queste case di lavoro anticipò il regime coatto di isolamento e di lavoro forzato che sarebbe stato adottato in modo assai più completo nei penitenziari. Al suo arrivo, il povero era fatto spogliare, quindi lavato e rivestito di un'uniforme; la giornata all'interno di queste istituzioni procedeva in base ad attività e scadenze fisse; le porte erano tenute chiuse e i poveri avevano il permesso di uscire solo se autorizzati dal direttore. In una di queste case vi erano stanze e celle riservate alla detenzione dei più incorreggibili. I braccianti agricoli e gli artigiani del Suffolk orientale lottarono contro la restrizione del diritto all'assistenza diretta: nel 1768 marciarono contro la Casa dell'Industria di Bulcamp e la bruciarono completamente (30). Questo attacco tuttavia rappresentò una conferma del valore di deterrente di queste istituzioni agli occhi dei loro più decisi sostenitori. Nel 1775 le Case dell'Industria erano all'apice della loro fortuna, modelli tutt'ora presenti per i fondatori del penitenziario (31). Gli anni Sessanta del Settecento non furono quindi in senso assoluto il punto di partenza della storia delle istituzioni totali. Nondimeno il numero stesso delle prigioni erette nei due decenni successivi ci consente di guardare a quel periodo come a un momento di decisiva accelerazione. Per la prima volta vennero messe in pratica su larga scala, in una dozzina di istituzioni nazionali, idee già sperimentate sulle possibilità rieducative della disciplina. L'immagine dell'istituzione totale colpì molti uomini politici, filantropi e magistrati già impegnati nella riforma parlamentare e in quella dell'amministrazione pubblica, nella creazione del moderno ospedale, nella razionalizzazione del codice penale e nella moderazione delle sue pene cruente. Il penitenziario venne coinvolto e trascinato in questa più vasta campagna di riforme economiche, politiche e sociali in un crescendo di attività riformatrici che caratterizzò gli anni Settanta del Diciottesimo secolo rispetto a quanto era stato fatto nel passato.
Per apprezzare la natura di questa campagna di riforme è necessario però prendere in considerazione da vicino il suo maggior obiettivo: la struttura della giustizia criminale settecentesca; per comprendere i nuovi concetti sulla pena emersi durante gli anni Settanta occorre anzitutto esaminare il sistema che i riformatori attaccarono.

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