indice


Sorvegliare e punire PARTE PRIMA. SUPPLIZIO.


Capitolo primo.
Il corpo del condannato.

Damiens era stato condannato, era il 2 marzo 1757, a «fare confessione pubblica davanti alla porta principale della Chiesa di Parigi», dove doveva essere «condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo, in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre»; poi «nella detta carretta, alla piazza di Grve, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento» (1).
«Alla fine venne squartato, - racconta la 'Gazzetta di Amsterdam'. - Quest'ultima operazione fu molto lunga, perché i cavalli di cui ci si serviva non erano abituati a tirare; di modo che al posto di quattro, bisognò metterne sei; e ciò non bastando ancora, si fu obbligati, per smembrare le cosce del disgraziato a tagliargli i nervi e a troncargli le giunture con la scure...
Si assicura che, benché fosse stato sempre un grande bestemmiatore, non gli sfuggì alcuna bestemmia; solamente i dolori eccessivi gli facevano lanciare grida orribili, e spesso egli ripeté: 'Mio Dio. abbi pietà di me; Gesù soccorrimi. Gli spettatori furono tutti edificati dalla sollecitudine del curato di San Paolo che, malgrado la sua tarda età, non lasciava un momento di consolare il paziente».
E il sottufficiale di cavalleria Bouton: «Venne acceso lo zolfo, ma il fuoco era così debole, che la pelle, del disopra delle mani solamente, non fu che assai poco danneggiata. Poi, un aiutante del boia, le maniche rimboccate fino al di sopra del gomito, prese delle tenaglie d'acciaio fatte apposta, di circa un piede e mezzo di lunghezza, lo tanagliò prima al grasso della gamba destra, poi alla coscia, poi alle due parti del grasso del braccio destro; in seguito alle mammelle. Questo aiutante, benché forte e robusto, fece molta fatica a strappare i pezzi di carne, che prendeva con le sue tenaglie due o tre volte nello stesso posto, torcendo, e quello che egli toglieva formava ogni volta una piaga della grandezza di uno scudo da sei lire.
Dopo questi tanagliamenti, Damiens, che urlava forte senza tuttavia bestemmiare, alzava la testa e si guardava; lo stesso tanagliatore prese poi con un cucchiaio di ferro, dalla marmitta, un po' di quella droga bollentissima e la gettò a profusione su ciascuna piaga. Poi vennero annodate con delle corde sottili le corde destinate ad attaccare i cavalli, poi i cavalli furono attaccati ad ognuna delle membra, lungo le cosce, gambe e braccia.
Il sieur Le Breton, cancelliere, si avvicinò diverse volte al paziente per chiedergli se avesse qualche cosa da dire. Disse di no; egli gridava come si dipingono i dannati, manco a dirlo, ad ogni tormento: «Perdono, mio Dio! Perdono Signore'. Malgrado tutte le sofferenze sopra dette, egli alzava di tanto in tanto la testa e si guardava coraggiosamente. Le corde, strette tanto forte dagli uomini che ne tiravano i capi, gli facevano soffrire mali inesprimibili. Il sieur si avvicinò di nuovo a lui e gli chiese se non volesse dire qualche cosa; disse di no. I confessori si avvicinarono più volte e gli parlarono a lungo; egli baciava di buon grado il crocifisso ch'essi gli presentavano; allungava le labbra e diceva sempre: 'Perdono, Signore'.
I cavalli diedero uno strappo, tirando ciascuno una delle membra per diritto, ogni cavallo tenuto da un aiutante. Dopo un quarto d'ora, stessa cerimonia, e infine dopo numerosi tentativi si fu obbligati a far tirare i cavalli: ossia quelli del braccio destro verso la testa, quelli delle cosce girando indietro dalla parte delle braccia, il che gli ruppe le braccia alle giunture. Questi tiramenti furono ripetuti diverse volte senza riuscita. Egli alzava la testa e si guardava. Si fu obbligati a mettere altri due cavalli, davanti a quelli attaccati alle cosce, il che faceva sei cavalli. Nessuna riuscita.
Alla fine il boia Samson andò a dire al sieur Le Breton, che non c'era mezzo né speranza di venirne a capo, e gli disse di chiedere ai Signori se volevano che lo facesse tagliare a pezzi. Il sieur Le Breton, tornato dalla città, diede ordine di fare nuovi sforzi, il che fu fatto; ma i cavalli scartarono e uno di quelli attaccati alle cosce cadde sul selciato. I confessori, ritornati, gli parlarono ancora. Egli diceva loro (l'ho sentito io): 'Baciatemi, Signori'. Il signor curato di San Paolo non avendo osato, il sieur di Marsilly passò sotto la corda del braccio sinistro e andò a baciarlo sulla fronte. Gli aiutanti si riunirono fra loro e Damiens diceva loro di non bestemmiare, di fare il loro mestiere, che egli non ne voleva loro; li pregava di pregare Dio per lui e raccomandava al curato di San Paolo di pregare per lui alla prima messa.
Dopo due o tre tentativi, il boia Samson e quello che lo aveva tanagliato tirarono ciascuno un coltello dalla tasca e tagliarono le cosce dal tronco del corpo; i quattro cavalli essendo al tiro, portarono via le due cosce, ossia: quella del lato destro per la prima, poi l'altra; in seguito si fece lo stesso alle braccia e alle spalle e ascelle e alle quattro parti; bisognò tagliare le carni fin quasi all'osso; i cavalli tirando a tutta forza staccarono il braccio destro per primo e poi l'altro.
Staccate queste quattro parti, i confessori scesero per parlargli, ma l'aiutante del boia disse che era morto, ma la verità è che io vedevo l'uomo agitarsi e la mascella inferiore andare avanti e indietro come se parlasse. Uno degli aiutanti disse perfino poco dopo che, quando avevano preso il corpo per gettarlo sul rogo, era ancora vivo. Le quattro membra staccate dai cordami dei cavalli sono state gettate su un rogo preparato dentro la cinta in linea diritta coi patibolo, poi il tronco e il tutto sono stati ricoperti in seguito di ceppi e di fascine e il fuoco messo alla paglia mescolata a questo legno.
... In esecuzione del decreto, il tutto è stato ridotto in cenere. L'ultimo pezzo trovato nella brace non finì di essere consumato che alle dieci e mezzo e più della sera. I pezzi di carne e il tronco hanno messo circa quattro ore a bruciare. Gli ufficiali, nel numero dei quali ero io, insieme a mio figlio, con arcieri in forma di distaccamento, siamo rimasti fin quasi alle undici.
Si vuole tirare delle conseguenze dal fatto che un cane si era steso l'indomani sul prato dov'era stato il rogo, ne era stato cacciato a più riprese, tornandovi sempre. Ma non è difficile capire che l'animale trovava questo posto più caldo che altrove» (3).
Tre quarti di secolo più tardi, ecco il regolamento redatto da Léon Faucher «per la Casa dei giovani detenuti a Parigi » (4):

«ART. 17. La giornata dei detenuti comincerà alle sei del mattino d'inverno, alle cinque d'estate. Il lavoro durerà nove ore al giorno in ogni stagione. Due ore al giorno saranno consacrate all'insegnamento. Il lavoro e la giornata termineranno alle nove d'inverno, alle otto d'estate.
ART. 18. Sveglia. Al primo rullo del tamburo, i detenuti devono alzarsi e vestirsi in silenzio, mentre il sorvegliante apre la porta delle celle. Al secondo rullo essi devono essere in piedi e fare il loro letto. Al terzo, essi si mettono in fila per andare alla cappella dove si fa la preghiera del mattino. Ci sono cinque minuti d'intervallo fra ciascun rullo.
ART. 19. La preghiera è fatta dal cappellano e seguita da una lettura morale o religiosa. Questo esercizio non deve durare più di mezz'ora.
ART. 20. Lavoro. Alle sei meno un quarto d'estate, alle sette meno un quarto d'inverno, i detenuti scendono in cortile dove devono lavarsi le mani e la faccia e ricevere la prima distribuzione di pane. Immediatamente dopo si raggruppano secondo i laboratori e si recano al lavoro, che deve cominciare alle sei d'estate e alle sette d'inverno.
ART. 21. Pasto. Alle dieci i detenuti lasciano il lavoro e si recano in refettorio; si lavano le mani nei cortili e si raggruppano per squadra. Dopo la colazione, ricreazione fino alle undici meno venti.
ART. 22. Scuola. Alle undici meno venti, al rullo del tamburo, si formano le file, e si entra in scuola per squadre. L'insegnamento dura due ore, impiegate alternativamente nella lettura, nella scrittura, nel disegno lineare, nel calcolo.
ART. 23. Alla una meno venti, i detenuti lasciano la scuola per squadre, e si recano nelle loro corti per la ricreazione. Alla una meno cinque, al rullo del tamburo, si riuniscono secondo i laboratori.
ART. 24. Alla una i detenuti devono essere di nuovo nei laboratori: il lavoro dura fino alle quattro.
ART. 25. Alle quattro si lasciano i laboratori per recarsi nei cortili dove i detenuti si lavano le mani e si riuniscono per squadre per il refettorio.
ART. 26. Il pranzo e la ricreazione che segue durano fino alle cinque: in questo momento i detenuti rientrano nei laboratori.
ART. 27. Alle sette d'estate e alle otto d'inverno, il lavoro finisce; si fa un'ultima distribuzione di pane nei laboratori. Una lettura di un quarto d'ora avente per oggetto nozioni istruttive o qualche tratto commovente è fatta da un detenuto o da un sorvegliante e seguita dalla preghiera della sera.
ART. 28. Alle sette e mezzo d'estate e alle otto e mezzo d'inverno, i detenuti devono essere riportati nelle loro celle, dopo il lavaggio delle mani e l'ispezione dei vestiti fatta nei cortili; al primo rullo del tamburo, svestirsi, al secondo mettersi a letto. Si chiudono le porte delle celle ed i sorveglianti fanno la ronda nei corridoi, per assicurarsi dell'ordine e del silenzio ».

Ecco dunque un supplizio e un impiego del tempo. Non sanzionano gli stessi crimini, non puniscono lo stesso genere di delinquenti. Ma ciascuno definisce bene un certo stile penale. Meno di un secolo li separa. E' l'epoca in cui tutta l'economia del castigo viene ridistribuita, in Europa e negli Stati Uniti. Epoca di grandi «scandali» per la giustizia tradizionale, epoca di innumerevoli progetti di riforme; nuova teoria della legge e del crimine, nuova giustificazione morale o politica del diritto di punire; abolizione delle antiche ordinanze, scomparsa del diritto consuetudinario; progetto o redazione di codici «moderni»: Russia, 1769; Prussia, 1780; Pennsylvania e Toscana, 1786; Austria, 1788; Francia, 1791, anno Quarto, 1808 e 1810. Una nuova era, per la giustizia penale.
Fra tante modificazioni, ne coglierò una: la sparizione dei supplizi. Oggi siamo un po' portati a trascurarla: forse ai suoi tempi aveva dato luogo a troppa retorica; forse era stata, troppo facilmente e con troppa enfasi, attribuita ad una «umanizzazione» che autorizzava a non esaminarla. E, in ogni modo, quale è la sua importanza se la paragoniamo alle grandi trasformazioni istituzionali, coi loro codici espliciti e generali, le loro regole di procedura unificate; la giuria adottata quasi ovunque, la definizione del carattere essenzialmente correttivo della pena, e la tendenza, che non cessa di accentuarsi a partire dal secolo Diciannovesimo, ad adattare i castighi ai colpevoli? Punizioni meno immediatamente fisiche, una certa discrezione nell'arte di far soffrire, un gioco di dolori più sottili, più felpati, spogliati del loro fasto visibile, merita tutto questo un'attenzione particolare, quando senza dubbio non è niente di più che l'effetto di rivolgimenti più profondi? Tuttavia un fatto esiste: in pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso. E' scomparso il corpo come principale bersaglio della repressione penale.
Tra la fine del secolo Diciottesimo e l'inizio del Diciannovesimo, la lugubre festa punitiva si va spegnendo. In questa trasformazione si sono combinati due processi. Non hanno seguito la medesima cronologia, né hanno avuto le medesime ragioni d'essere. Da un lato la scomparsa dello spettacolo della punizione: il cerimoniale della pena tende ad entrare nell'ombra, per non essere altro che un nuovo atto procedurale o amministrativo. In Francia, l'onorevole ammenda - l'infamante confessione pubblica - era stata abolita una prima volta nel 1791, poi di nuovo, dopo un breve ristabilimento, nel 1830; la gogna soppressa nel 1789; in Inghilterra nel 1837. I lavori pubblici che Austria, Svizzera e alcuni degli Stati Uniti, facevano eseguire nelle vie delle città o lungo le strade maestre - i forzati, collare di ferro, palla ai piedi, abiti multicolori, scambiavano con la folla sfide, ingiurie, beffe, percosse, segni di rancore o di complicità (5) - vengono soppressi quasi ovunque alla fine del secolo Diciottesimo o nella prima metà del Diciannovesimo. L'esposizione al palo era stata mantenuta in Francia nel 1831, malgrado violente critiche - «scena disgustosa», diceva Réal (6), poi finalmente abolita nell'aprile 1848. Quanto alla catena che trascinava i forzati attraverso tutta la Francia, fino a Brest e Tolone, decenti vetture cellulari, dipinte di nero, la sostituiscono nel 1837. La punizione cessa, poco a poco, di essere uno spettacolo. E tutto ciò che poteva comportare di esibizione si troverà ormai ad essere segnato da un indice negativo. Come se le funzioni della cerimonia penale cessassero poco a poco di essere comprensibili, quel rito che «concludeva» il crimine viene sospettato di mantenere con questo losche parentele: di eguagliarlo, se non sorpassarlo, nell'essenza selvaggia, di abituare gli spettatori a una ferocia da cui si voleva invece distoglierli, di mostrar loro la frequenza dei crimini, di far rassomigliare il boia a un criminale e i giudici ad assassini, di invertire all'ultimo momento i ruoli, di fare del suppliziato un oggetto di pietà o di ammirazione. Beccaria l'aveva detto molto presto: «L'assassinio, che ci viene presentato come un crimine orribile, noi lo vediamo commettere freddamente, senza rimorsi» (7). L'esecuzione pubblica viene percepita come un torbido focolaio, dove la violenza si riaccende. La punizione tenderà dunque a divenire la parte più nascosta del processo penale. Le conseguenze sono numerose: essa lascia il campo della percezione quotidiana, per entrare in quello della coscienza astratta: la sua efficacia deve derivare dalla sua fatalità, non dalla sua intensità visibile. La certezza di essere puniti: questo, e non più l'obbrobriosa rappresentazione, deve tener lontani dal delitto. La meccanica esemplare della punizione muta i suoi ingranaggi: la giustizia non si addossa più pubblicamente la parte di violenza che è legata al proprio esercizio. Che essa pure uccida o colpisca, non è più la glorificazione della propria forza, è un elemento intrinseco che è obbligata a tollerare, ma sul quale le è difficile dare testimonianza. Le notazioni dell'infamia si ridistribuiscono: nel castigo-spettacolo, un confuso orrore sgorgava dal patibolo, avviluppava insieme boia e condannato: e se questo orrore era sempre pronto a trasformare in pietà o in gloria l'onta che veniva inflitta al suppliziato, ritorceva regolarmente in infamia la violenza legale del carnefice. Oramai lo scandalo e la luce si divideranno altrimenti, è la condanna stessa a marchiare il delinquente del segno negativo ed univoco: pubblicità, quindi, dei dibattiti e della sentenza; quanto all'esecuzione, essa è come una vergogna supplementare che la giustizia si vergogna ad imporre al condannato. Se ne tiene dunque a distanza, tendendo sempre ad affidarla ad altri, e sotto il vincolo segreto. E' brutto essere punibili, ma poco glorioso punire. Di qui quel doppio sistema di protezione che la giustizia instaura fra sé ed il castigo che infligge: l'esecuzione della pena tende a divenire un settore autonomo, il cui meccanismo amministrativo scarica la giustizia mentre questa si libera dal suo sordo malessere attraverso una dissimulazione burocratica della pena. E' caratteristico che in Francia l'amministrazione delle prigioni sia stata a lungo posta alle dipendenze del ministero dell'Interno e quella dei bagni penali sotto il controllo della Marina o delle Colonie. E al di là di questa divisione dei ruoli si opera la negazione teorica: l'essenziale della pena che noi, giudici, infliggiamo, non crediate consista nel punire: esso tenta di correggere, raddrizzare, «guarire»; una tecnica del miglioramento rifiuta che la pena sia stretta espiazione del male e libera i magistrati dall'odioso mestiere del castigare. C'è nella giustizia moderna e in coloro che la distribuiscono una vergogna a punire, che non sempre esclude lo zelo. Essa cresce di continuo, e sopra questa ferita, gli psicologi pullulano, insieme ai piccoli funzionari dell'ortopedia morale.
Con la scomparsa dei supplizi, è dunque lo spettacolo a cessare; ma è anche la presa sul corpo ad allentarsi. Rush, nel 1787, diceva: «Non posso impedirmi di sperare che non sia lontano il tempo in cui i patiboli, la gogna, la forca, la frusta, la ruota, saranno, nella storia dei supplizi, considerati come segni della barbarie dei secoli e delle nazioni, come prove della debole influenza della ragione e della religione sullo spirito umano» (8). In effetti, sessant'anni più tardi, Van Meenen, inaugurando il secondo congresso sui sistemi penitenziari, a Bruxelles, ricordava il tempo della sua infanzia come un'epoca ormai chiusa: «Ho visto il terreno disseminato di ruote, di gogne, di forche, di patiboli; ho visto scheletri orrendamente distesi sulle ruote» (9). Il marchio era stato abolito in Inghilterra (1834) e in Francia (1832); il grande supplizio dei traditori, l'Inghilterra nel 1820, non osava più applicarlo in tutta la sua crudeltà (Thistlewood non fu squartato). Solo la frusta permaneva in alcuni sistemi penali (Russia, Inghilterra, Prussia). Ma in linea generale le pratiche punitive erano divenute pudiche. Non toccare più il corpo, o comunque il meno possibile, e sempre per raggiungervi qualcosa che non è il corpo medesimo. Si dirà: la prigione, la reclusione, i lavori forzati, il bagno penale, l'interdizione di soggiorno, la deportazione - che hanno occupato un posto così importante nei sistemi penitenziari moderni - sono sempre pene fisiche: a differenza dell'ammenda, essi incidono, e direttamente, sul corpo. Ma il rapporto castigo-corpo non è identico a quello che era nei supplizi. Il corpo qui si trova in posizione di strumento o di intermediario; se si interviene su di esso rinchiudendolo o facendolo lavorare, è per privare l'individuo di una libertà considerata un diritto e insieme un bene. Il corpo, secondo questo tipo di penalità, è irretito in un sistema di costrizioni e di privazioni, di obblighi e di divieti. La sofferenza fisica, il dolore del corpo, non sono più elementi costitutivi della pena. Il castigo è passato da un'arte di sensazioni insopportabili a una economia di diritti sospesi. Se è ancora necessario, per la giustizia, manipolare e colpire il corpo dei giustiziandi, lo farà da lontano, con decenza, secondo regole austere, e mirando ad un obiettivo ben più «elevato». Per effetto di questo nuovo ritegno, tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori. Con la loro sola presenza presso il condannato, essi cantano alla giustizia le lodi di cui ha bisogno: le garantiscono che il corpo e il dolore non sono gli oggetti finali della sua azione punitiva. Dobbiamo riflettere su un punto: oggi, un medico deve vegliare sui condannati a morte e sino all'ultimo momento - sovrapponendosi così, in quanto preposto al benessere, in quanto agente della non-sofferenza, ai funzionari, incaricati, loro, di sopprimere la vita. Quando il momento dell'esecuzione si avvicina, si fanno ai pazienti iniezioni di tranquillanti. Utopia del pudore giudiziario: togliere l'esistenza evitando di far sentire il male, privare di tutti i diritti senza far soffrire, imporre pene libere dal dolore. Il ricorso alla psico-farmacologia e a diversi «deconnettori» fisiologici, anche se destinato ad essere provvisorio, rientra nel filo conduttore della penalità «incorporea».
Di questo doppio processo - scomparsa dello spettacolo, annullamento del dolore - testimoniano i moderni rituali dell'esecuzione capitale. Un identico movimento ha trascinato, ciascuna con un ritmo suo proprio, le legislazioni europee: per tutti, una stessa morte, che non dovrà portare, come un blasone, il marchio specifico del crimine o della condizione sociale del criminale. Una morte che dura un solo istante, che nessun accanimento deve moltiplicare in anticipo o prolungare sul cadavere, un'esecuzione che tocca la vita piuttosto che il corpo. Non più quelle lunghe procedure per cui la morte viene insieme ritardata da interruzioni ben calcolate e moltiplicata da una serie di insulti successivi. Non più quegli espedienti che venivano messi in scena per uccidere i regicidi o quelli di cui sognava, all'inizio del secolo Diciottesimo, l'autore di "Hanging not Punishement enough" (10), che avrebbe permesso di straziare un condannato sulla ruota, poi frustarlo fino a che svenisse, poi sospenderlo con catene, prima di lasciarlo morire lentamente di fame. Non più quei supplizi in cui il condannato è trascinato su un graticcio (per evitare che la testa si spacchi sul selciato), il suo ventre aperto, e gli intestini strappati fuori in fretta, perché abbia il tempo di vedere, con i suoi occhi, che vengono gettati sul fuoco, e in cui alla fine viene decapitato e il suo corpo diviso in quarti (11). La riduzione di queste «mille morti» alla stretta esecuzione capitale definisce tutta una nuova morale propria dell'atto di punire.
Già nel 1760, era stata sperimentata in Inghilterra (per l'esecuzione di lord Ferrer) una macchina per impiccare (un supporto tolto di sotto i piedi del condannato doveva evitare le lente agonie e gli alterchi tra vittima e boia). Essa fu perfezionata e adottata definitivamente nel 1783, l'anno stesso in cui fu soppressa la tradizionale sfilata da Newgate a Tyburn e in cui, approfittando della ricostruzione della prigione dopo i Gordon Riots, vennero installate le forche nella stessa Newgate (12). Il famoso articolo 3 del Codice francese del 1791 - «Ad ogni condannato a morte verrà mozzata la testa» - contiene questa triplice significazione: una morte uguale per tutti («I delitti dello stesso genere saranno puniti con lo stesso genere di pena, quali che siano il rango e lo "status" del colpevole», diceva già la mozione votata, su proposta di Guillotin, il primo dicembre 1789); una sola morte per condannato, d'un sol colpo, e senza ricorrere a quei supplizi «lunghi e di conseguenza crudeli», come la forca, denunciata da Le Peletier; infine castigo per il solo condannato, poiché la decapitazione, pena dei nobili, è la meno infamante per la famiglia del criminale (13). La ghigliottina, utilizzata a partire dal marzo 1792, è il meccanismo adeguato a questi principi. La morte vi è ridotta a un avvenimento visibile, ma istantaneo. Tra la legge o coloro che la applicano, e il corpo del criminale, il contatto è ridotto alla durata di un lampo. Nessuno scontro fisico; il boia non deve più essere che un orologiaio meticoloso. «L'esperienza e la ragione dimostrano che il modo in uso in passato per tagliare la testa a un criminale espone ad un supplizio più orribile che non la semplice privazione della vita, che è il voto formale della legge, purché l'esecuzione sia fatta in un solo istante e d'un sol colpo. Gli esempi provano quanto sia difficile giungervi. Bisogna necessariamente, per la certezza del procedimento, che questo dipenda da mezzi meccanici invariabili, di cui si possa determinare tanto la forza quanto l'effetto... E' facile far costruire una macchina simile, il cui effetto è immancabile. La decapitazione avverrà in un istante, secondo il voto della nuova legge. Questo apparecchio, se apparisse come necessario, non farebbe alcuna sensazione e sarebbe a malapena percepito» (14). Quasi senza toccare il corpo, la ghigliottina sopprime la vita, come la prigione toglie la libertà o una ammenda preleva dei beni. Si presume che essa applichi la legge, piuttosto che a un corpo reale suscettibile di dolore, a un soggetto giuridico, detentore, fra gli altri diritti, di quello di esistere. Essa doveva avere l'astrazione stessa della legge.
Senza dubbio, qualcosa dei supplizi si era sovrapposto, in Francia, alla sobrietà delle esecuzioni. I parricidi - e i regicidi che venivano loro assimilati - venivano condotti al patibolo sotto un velo nero: là, fino al 1832, si tagliava loro la mano. In seguito non rimase più che il segno del lutto. Così accadde per Fieschi, nel novembre 1836: «Egli sarà condotto al luogo dell'esecuzione in camicia, i piedi nudi, la testa ricoperta di un velo nero; sarà esposto su un palco mentre un ufficiale ministeriale darà al popolo lettura della sentenza di condanna ed egli sarà immediatamente giustiziato». Ricordiamoci di Damiens: ora, l'ultimo supplemento alla morte penale è un velo da lutto. Il condannato non deve più essere visto. Solo la lettura della sentenza di condanna sul patibolo annuncia un crimine che non deve avere volto (15). L'ultima traccia dei grandi supplizi, ne è anche l'annullamento: dei veli per nascondere un corpo. Esecuzione di Benot, tre volte infame - uccisore di sua madre, omosessuale, assassino -, il primo dei parricidi cui la legge evitò il taglio della mano: «Mentre si dava lettura della sentenza di condanna, egli era in piedi sul palco, sostenuto dagli aiutanti. Era una cosa orribile a vedersi, questo spettacolo. Avviluppato in un ampio lenzuolo bianco, la faccia coperta da un velo nero, il parricida sfuggiva allo sguardo della folla silenziosa, e sotto quegli indumenti misteriosi e lugubri, la vita non si manifestava altro che con orribili urla, che sono ben presto svanite sotto la lama» (16).
Scompare dunque, all'inizio del secolo Diciannovesimo, il grande spettacolo della punizione fisica; si nasconde il corpo del suppliziato; si esclude dal castigo l'esposizione della sofferenza. Si entra nell'età della sobrietà punitiva. Questa sparizione dei supplizi, possiamo considerarla pressoché acquisita verso gli anni 1830-48. Certamente, questa affermazione globale richiede dei correttivi. Prima di tutto, le trasformazioni non avvengono né in blocco, né secondo un processo unico; ci furono dei ritardi. Paradossalmente, fu l'Inghilterra uno dei paesi più refrattari alla sparizione dei supplizi: forse a motivo del ruolo di modello che era stato conferito alla sua giustizia criminale dalla istituzione della giuria, della procedura pubblica, del rispetto dell'"habeas corpus"; soprattutto, senza dubbio, perché essa non aveva voluto attenuare il rigore delle leggi penali durante i grandi disordini sociali degli anni 1780-1820. A lungo Romilly, Mackintosh e Fowell Buxton fallirono nel tentativo di ottenere un'attenuazione della molteplicità e della durezza delle pene previste dalla legge inglese - questo «orribile macello», diceva Rossi. La severità (almeno delle pene previste, poiché l'applicazione era tanto meno severa quanto più la legge sembrava eccessiva alle giurie) era perfino aumentata, tanto che, se nel 1760 Blackstone enumerava nella legge inglese centosessanta crimini capitali, nel 1819 se ne contavano 223. Sarebbe necessario tener conto delle accelerazioni e dei regressi che il processo d'insieme subì tra il 1760 e il 1840; della rapidità della riforma in alcuni paesi come l'Austria, la Russia, gli Stati Uniti, o la Francia nel momento della Costituente, poi del riflusso all'epoca della contro-Rivoluzione in Europa e della grande paura sociale degli anni 1820-48; delle modificazioni, più o meno temporanee, apportate dai tribunali o dalle leggi speciali; delle distorsioni tra leggi e pratica reale dei tribunali (che è ben lontana dal riflettere sempre lo stato della legislazione). Tutto ciò rende molto irregolare l'evoluzione che si è verificata fra lo scorcio del secolo Diciottesimo e l'inizio del Diciannovesimo.
A ciò si aggiunge che, se l'essenziale della trasformazione, verso il 1840, è acquisita, se i meccanismi della punizione hanno assunto il nuovo tipo di funzionamento, il processo è ben lontano dall'essere concluso. L'eliminazione del supplizio è una tendenza che si radica nella grande trasformazione degli anni 1760-1840, ma non giunge a compimento: possiamo dire che la pratica del supplizio ha ossessionato a lungo il nostro sistema penale e vi è tuttora presente. La ghigliottina, questa macchina di morte rapida e precisa, aveva iniziato in Francia una nuova etica della morte legale. Ma la Rivoluzione l'aveva subito rivestita di un grandioso rituale scenografico. Per anni fece spettacolo. E' stato necessario spostarla fino alla barriera di Saint-Jacques, sostituire la carretta scoperta con una vettura chiusa, far passare rapidamente il condannato dal furgone al palco, organizzare le esecuzioni ad ore impossibili, e, da ultimo, sistemare la ghigliottina entro la cinta delle prigioni e renderla inaccessibile al pubblico (dopo la esecuzione capitale di Weidmann, nel 1939), sbarrare le strade che dànno accesso alla prigione dove è nascosto il patibolo e dove l'esecuzione si svolge in segreto (esecuzione di Buffet e di Bontemps alla Santé, nel 1972), processare i testimoni che raccontano la scena, perché l'esecuzione non sia più uno spettacolo e rimanga uno strano segreto tra la giustizia e il suo condannato. Basta evocare tutte queste precauzioni per comprendere come la morte penale resti ancora oggi, nella sua essenza, uno spettacolo che bisogna, giustamente, vietare.
Quanto alla presa sul corpo, anch'essa, alla metà del secolo Diciannovesimo, non era stata del tutto eliminata. Senza dubbio la pena non è più centrata sul supplizio come tecnica per far soffrire, e ha preso come oggetto principale la perdita di un bene o di un diritto, ma un castigo come i lavori forzati o perfino come la prigione - pura privazione della libertà - non ha mai funzionato senza un certo supplemento di punizione che concerne proprio il corpo in se stesso: razionamento alimentare, privazione sessuale, percosse, celle di isolamento. Conseguenza non voluta, ma inevitabile, della carcerazione? In effetti la prigione, nei suoi dispositivi più espliciti, ha sempre comportato, in una certa misura, la sofferenza fisica. La critica spesso rivolta, nella prima metà del secolo Diciannovesimo, al sistema carcerario (la prigione non è sufficientemente punitiva: i detenuti hanno meno freddo, meno fame, minori privazioni, nel complesso, di molti poveri e perfino di molti operai) indica un postulato che non è mai stato chiaramente abbandonato: è giusto che un condannato soffra fisicamente più degli altri uomini. La pena ha difficoltà a dissociarsi da un supplemento di dolore fisico. Cosa sarebbe, un castigo incorporeo?
Nei meccanismi moderni della giustizia penale, permane quindi un fondo «suppliziante», un sottofondo non ancora completamente dominato, ma avvolto, in maniera sempre più ampia, da una penalità dell'incorporeo.

L'attenuarsi della severità penale nel corso degli ultimi secoli è fenomeno ben noto agli storici del diritto. Ma, a lungo, è stato considerato in maniera globale, come un fenomeno quantitativo; meno crudeltà, meno sofferenza, maggior dolcezza, maggior rispetto, maggiore «umanità». In effetti queste modificazioni sono accompagnate da uno spostamento nell'oggetto stesso dell'operazione punitiva. Diminuzione d'intensità? Forse. Sicuramente, un cambiamento di obiettivo.
Se non è più al corpo che si rivolge la pena nelle sue forme più severe, su che cosa allora stabilisce la sua presa? La risposta dei teorici - quelli che aprono, verso il 1760, un periodo non ancora chiuso - è semplice, quasi evidente, sembra scritta nella domanda stessa. Non è più il corpo, è l'anima. Alla espiazione che strazia il corpo, deve succedere un castigo che agisca in profondità sul cuore, il pensiero, la volontà, la disponibilità. Una volta per tutte, Mably ha formulato il principio: «Che il castigo, se così posso dire, colpisca l'anima, non il corpo» (17).
Momento importante. I vecchi protagonisti del fasto punitivo, il corpo e il sangue, cedono il posto. Un nuovo personaggio entra in scena, mascherato. Finita una certa tragedia inizia una commedia con figure d'ombra, voci senza volto, entità impalpabili. L'apparato della giustizia punitiva deve ora mordere su questa realtà senza corpo.
Semplice affermazione teorica che la pratica penale smentisce? Troppo in fretta detto. E' vero che, oggi, punire non è solo convertire un'anima, ma il principio di Mably non è rimasto un desiderio vano. Lungo tutto il sistema penale moderno, possiamo seguirne gli effetti.
Prima di tutto una sostituzione di oggetti. Non voglio dire che ci si è messi improvvisamente a punire altri crimini. Senza dubbio, la definizione dei reati, la gerarchia della loro gravità, i margini di indulgenza, ciò che era tollerato di fatto e ciò che era permesso - tutto questo si è largamente modificato da duecento anni a questa parte; molti crimini hanno cessato di esserlo, perché legati ad un certo esercizio dell'autorità religiosa o ad un tipo di vita economica; la bestemmia ha perso il suo status di delitto; il contrabbando e il furto domestico, una parte della loro gravità. Ma questi spostamenti non sono forse il fatto più importante; la divisione tra lecito e proibito ha conservato, da un secolo all'altro, una certa continuità. Al contrario, l'oggetto «delitto» sul quale grava la pratica penale, è stato profondamente modificato: la qualità, la natura, la sostanza, in qualche modo, di cui è fatto l'elemento punibile, più che non la sua definizione formale. La relativa stabilità della legge ha coperto tutto un gioco di sottili e rapidi mutamenti. Sotto il nome di crimini e di delitti (18), è vero, si giudicano sempre oggetti giuridici definiti dal codice, ma, nello stesso tempo, si giudicano istinti, passioni, anomalie, infermità, disadattamenti, effetti dell'ambiente o della eredità; si puniscono delle aggressioni, ma attraverso queste delle aggressività; degli stupri, ma nello stesso tempo delle perversioni; degli assassini che sono anche pulsioni e desideri. Si dirà: non sono questi ad essere giudicati; se li si invoca è per chiarire i fatti da giudicare e per determinare a qual punto era implicata nel crimine la volontà del soggetto. Risposta insufficiente. Poiché sono esse, queste ombre che stanno dietro gli elementi della causa giuridica, ad essere in realtà giudicate e punite. Giudicate indirettamente, attraverso le «circostanze attenuanti», che fanno entrare nel verdetto non solo elementi «circostanziali» dell'atto, ma qualcosa di diverso, non giuridicamente qualificabile: la conoscenza del criminale, l'apprezzamento che si ha di lui, ciò che si riesce a sapere sui rapporti fra lui, il suo passato e il suo delitto, ciò che ci si può aspettare da lui in avvenire. Giudicate, esse lo sono anche attraverso il gioco di tutte quelle nozioni che hanno circolato tra medicina e giurisprudenza dal secolo Diciannovesimo (i «mostri» dell'epoca di Georget le «anomalie psichiche» della circolare Chaumié, i «pervertiti» e i «disadattati» delle perizie contemporanee) e che, sotto il pretesto di spiegare un atto, sono in realtà un modo di qualificare un individuo. Punite, esse lo sono da un castigo che si attribuisce la funzione di rendere il delinquente «non solo desideroso, ma anche capace di vivere rispettando la legge e di sopperire ai propri bisogni»; esse lo sono attraverso l'economia interna di una pena che, se sanziona il crimine, può modificarsi (abbreviandosi o, se il caso lo richiede, prolungandosi) secondo che si trasformi il comportamento del condannato. Punite esse sono ancora dal gioco di quelle «misure di sicurezza» che si accompagnano alla pena (interdizione di soggiorno, libertà sorvegliata, tutela penale, trattamento medico obbligatorio), non destinate a sanzionare l'infrazione, ma a controllare l'individuo, a neutralizzare il suo stato di pericolosità, a modificarne le tendenze criminali, e a non cessare fino a che il cambiamento non sia stato ottenuto. L'anima del criminale non è invocata in tribunale al solo fine di spiegare il suo crimine e per introdurla come un elemento nell'assegnazione giuridica delle responsabilità; se la si invoca, con tanta enfasi, con tanta preoccupazione di comprendere e una così vasta applicazione «scientifica», è proprio per giudicarla, essa, insieme al crimine, e per prenderla in carico nella punizione. In tutto il rituale penale, dall'istruttoria fino alla sentenza e alle ultime sequenze della pena, è stato introdotto un insieme di nuovi oggetti che vengono a raddoppiare, ma anche a dissociare quelli giuridicamente già definiti e codificati. La perizia psichiatrica, ma in linea più generale l'antropologia criminale e il discorso, sempre ripetuto, della criminologia, esprimono qui una delle loro funzioni specifiche: inscrivendo solennemente le infrazioni nel campo degli oggetti suscettibili di conoscenza scientifica, dare ai meccanismi della punizione legale una presa giustificabile non più semplicemente dalle infrazioni, ma dagli individui; non più da ciò che hanno fatto, ma da ciò che sono, possono essere, saranno. Il supplemento d'anima che la giustizia si è assicurato, in apparenza esplicativo e limitativo, è, in effetti, annessionista. Da quando, centocinquanta o duecento anni fa, l'Europa ha dato vita ai nuovi sistemi penali, i giudici, poco a poco, ma con un processo che risale a molto lontano, si sono messi a giudicare qualcosa di diverso dai reati: l'«anima» dei criminali.
E si sono messi, contemporaneamente, a fare qualcosa di diverso dal giudicare. O, per essere più precisi, all'interno stesso della modalità procedurale del giudizio, sono venuti ad introdursi altri tipi di valutazione, modificandone in modo essenziale le regole di elaborazione. Dopoché il Medioevo aveva costruito, non senza difficoltà e lentezze, la grande procedura dell'inchiesta, giudicare era stabilire la verità di un crimine, era individuare il suo autore, era applicargli una sanzione legale. Conoscenza dell'infrazione, conoscenza del responsabile, conoscenza della legge, tre condizioni che permettevano di fondare un giudizio sulla verità. Oggi, nel corso del giudizio penale, si trova inserito un tutt'altro problema di verità. Non più semplicemente: «Il fatto è accertato ed è delittuoso?» Ma anche: «Cos'è questo fatto, cos'è questa violenza o questo assassinio? A quale livello o in quale campo della realtà dobbiamo inscriverlo? Allucinazione, reazione psicotica, episodio delirante, depravazione?» Non più semplicemente: «Chi ne è l'autore?» Ma: «Come determinare il processo causale che l'ha prodotto? Dove è, nello stesso autore, la sua origine? Istinto, inconscio, eredità, ambiente?» Non più semplicemente: «Quale legge sanziona questa infrazione?» Ma: «Quale sarà la misura più appropriata da prendere? Come prevedere l'evoluzione del soggetto? In qual modo verrà più sicuramente corretto?» Tutto un insieme di giudizi di valore, diagnostici, prognostici, normativi, concernenti l'individuo criminale ha preso posto nell'armatura del giudizio penale. Un'altra verità ha compenetrato quella che era richiesta dalla meccanica giudiziaria: una verità che, aggrovigliata alla prima, fa dell'affermazione di colpevolezza un singolare complesso scientifico-giuridico. Un fatto significativo: il modo in cui il problema della pazzia si è evoluto nella pratica penale. Secondo il codice del 1810, essa si poneva solo nei termini dell'art. 64. Ora questo articolo stabilisce che non esiste né crimine né delitto se il soggetto era in stato di demenza al momento dell'atto. La possibilità di chiamare in causa la pazzia derivava dunque esclusivamente dalla qualificazione di un atto come crimine: se l'autore era stato pazzo, non era la gravità del gesto ad essere modificata, né la pena doveva essere attenuata: il crimine stesso scompariva. Impossibile dunque dichiarare qualcuno pazzo e colpevole insieme; se la diagnosi di pazzia era accertata, non poteva integrarsi col giudizio, interrompeva la procedura e svincolava dalla presa della giustizia l'autore dell'atto. Non solo l'esame del criminale supposto demente, ma gli effetti stessi di questo esame dovevano essere esterni e anteriori alla sentenza. Ora, molto presto, i tribunali del secolo Diciannovesimo disconobbero il senso dell'art. 64. Malgrado numerose sentenze della corte di Cassazione rammentassero che lo stato di follia non poteva conseguire né una pena moderata e neppure un'assoluzione, ma solo un non-luogo a procedere, essi posero il problema della pazzia nel verdetto stesso. Ammisero che si poteva essere colpevole e pazzo; tanto meno colpevole quanto più pazzo; colpevole certo, ma da rinchiudere e curare piuttosto che punire; colpevole pericoloso perché manifestamente malato, eccetera. Dal punto di vista del Codice penale, erano altrettanti assurdi giuridici. Ma era qui il punto di partenza di una evoluzione che la giurisprudenza e la stessa legislazione avrebbero resa precipitosa nel corso dei successivi centocinquant'anni: già la riforma del 1832 introducendo le circostanze attenuanti permetteva di modulare la sentenza secondo i supposti gradi di una malattia o le forme di una semiinfermità mentale. E la pratica, generale alle assise, talvolta estesa al tribunale correzionale, della perizia psichiatrica, fa sì che la sentenza, anche se formulata in termini di sanzione legale, implichi, più o meno oscuramente, giudizi sulla normalità, assegnazioni di causalità, apprezzamenti su eventuali cambiamenti, anticipazioni sull'avvenire dei delinquenti. Tutte operazioni di cui a torto diremmo che preparano dall'esterno un giudizio fondato: esse si integrano direttamente nel processo di formazione della sentenza. Abbandonato il senso primario dell'art. 64, per cui la pazzia cancella il delitto, oggi ogni delitto, e al limite ogni infrazione, comportano, come legittimo sospetto, ma anche come diritto da rivendicare, l'ipotesi della pazzia, in ogni caso dell'anomalia. E la sentenza, che condanna o assolve, non è semplicemente un giudizio di colpevolezza, una decisione legale che sanziona: essa comporta un apprezzamento di normalità ed una prescrizione tecnica per una possibile normalizzazione. Ai nostri giorni il giudice, magistrato o giurato, fa ben altra cosa che «giudicare».
E non è più solo a giudicare. Lungo il procedimento penale e nell'esecuzione della pena brulica tutta una serie di istanze annesse. Giustizie secondarie e giudici paralleli si sono moltiplicati attorno al giudizio principale: esperti psichiatrici o psicologi, magistrati dell'applicazione della pena, educatori, funzionari dell'amministrazione penitenziaria, spezzettano il potere legale di punire. Si potrà dire che nessuno di loro condivide realmente il diritto di giudicare; che gli uni, dopo le sentenze, non hanno altro diritto che porre in opera una pena fissata dal tribunale e soprattutto che gli altri - gli esperti - intervengono prima della sentenza non per fornire un giudizio, ma per illuminare la decisione del giudice. Ma dal momento che le pene e le misure di sicurezza definite dal tribunale non sono determinate in modo assoluto, dal momento che possono venire modificate lungo la via, dal momento che viene lasciato a giudici diversi da quelli del reato, il compito di decidere se il condannato «merita» di essere posto in libertà vigilata o in libertà condizionale, se si possa porre termine alla sua tutela penale, allora sono autentici meccanismi di punizione legale quelli che vengono posti nelle loro mani e lasciati al loro apprezzamento: giudici annessi, ma tuttavia giudici. Tutto l'apparato che da anni si è sviluppato intorno all'applicazione delle pene, e del loro adattamento agli individui, demoltiplica le istanze di decisione giudiziaria e le prolunga ben al di là della sentenza. Quanto agli esperti psichiatri, essi possono vietarsi di giudicare: ma esaminiamo le tre domande cui devono rispondere in base alla circolare del 1958: l'accusato presenta uno stato di pericolosità? E' suscettibile di sanzione penale? E' curabile o riadattabile? Questi interrogativi non hanno rapporto con l'art. 64, né con la eventuale pazzia dell'accusato al momento dell'atto. Non sono domande in termini di «responsabilità». Non concernono che l'amministrazione della pena, la sua necessità, utilità, possibile efficacia; permettono di indicare in una terminologia scarsamente codificata, se il manicomio è preferibile alla prigione, se occorre prevedere un soggiorno breve o lungo, un trattamento medico o misure di sicurezza. Il ruolo dello psichiatra in materia penale? Non esperto quanto alla responsabilità, ma consigliere quanto alla punizione; sta a lui dire se il soggetto è pericoloso, in qual modo proteggersi da lui, come intervenire per modificarlo, se è preferibile tentare di reprimere o di curare. Agli inizi della sua storia la perizia psichiatrica aveva dovuto formulare proposizioni «vere» sulla parte che la libertà dell'accusato aveva avuto nell'atto commesso; essa deve ora suggerire una prescrizione su quello che potremmo chiamare il suo «trattamento medico-giudiziario».
Riassumiamo: dacché funziona il nuovo sistema penale - quello definito dai grandi codici del secolo Diciottesimo e Diciannovesimo -, un processo globale ha condotto i giudici a giudicare altra cosa che non i delitti; nelle sentenze essi sono stati condotti a fare altra cosa che non giudicare; e il potere di giudicare è stato trasferito, in parte, ad istanze diverse dai giudici del reato. L'intera operazione penale si è gravata di elementi e di personaggi extragiuridici. Si potrà dire che c'è nulla di straordinario, che è destino del diritto l'assorbire poco a poco elementi che gli sono estranei. Ma una cosa è singolare nella giustizia penale moderna: se essa si carica di tanti elementi extragiuridici, non è per poterli qualificare giuridicamente ed integrarli poco a poco nello stretto potere di punire: è al contrario per poterli far funzionare all'interno dell'operazione penale come elementi non giuridici; è per evitare a questa operazione di essere puramente e semplicemente punizione legale; è per discolpare il giudice dall'essere puramente e semplicemente colui che castiga: «Noi emettiamo un verdetto, che è sì richiesto da un delitto, ma vedete bene che per noi funziona in realtà come un modo di trattare un criminale; noi puniamo, ma è una via per dire che vogliamo una guarigione». Oggi, la giustizia criminale non funziona e non si giustifica se non attraverso questo incessante riferirsi a qualcosa di diverso, se non attraverso un'incessante reiscrizione in sistemi non giuridici. Essa è votata a questa riqualificazione per mezzo del sapere.
Sotto l'accresciuta dolcezza dei castighi, possiamo dunque reperire uno spostamento del loro punto di applicazione, ed attraverso questo spostamento, tutto un campo di oggetti recenti, tutto un nuovo regime della verità e una folla di ruoli finora inediti nell'esercizio della giustizia criminale. Una conoscenza nuova, nuove tecniche, discorsi «scientifici», si propongono e si intrecciano con la pratica del potere di punire.
Obiettivo di questo libro: una storia delle correlazioni tra l'anima moderna e il nuovo potere di punire; una genealogia dell'attuale complesso scientifico-giudiziario dove il potere di punire trova le sue basi, riceve le sue giustificazioni e le sue regole, estende i suoi effetti e maschera la sua esorbitante singolarità.
Ma dove si può attingere per questa storia dell'anima moderna nel giudicare? Se ci si attiene all'evoluzione delle regole del diritto o delle procedure penali, si rischia di lasciar valere come fatto massivo, esteriore, inerte e grezzo un mutamento nella sensibilità collettiva, un progresso dell'umanesimo o lo sviluppo delle scienze umane. Studiare, come ha fatto Durkheim (19), solo le forme sociali generali, espone al rischio di porre come principio dell'addolcimento delle pene, taluni processi di individualizzazione che sono piuttosto uno degli effetti delle nuove tattiche di potere e, tra queste, dei nuovi meccanismi penali. Il presente studio obbedisce a quattro regole generali:

1. Non centrare lo studio dei meccanismi punitivi sui loro soli effetti «repressivi», sul solo lato di «sanzione», ma ricollocarli in tutta la serie degli effetti positivi che essi possono indurre, anche se, al primo sguardo, marginali. Considerare, di conseguenza, la punizione come una funzione sociale complessa.
2. Analizzare i metodi punitivi non come semplici conseguenze di regole di diritto o come indicazioni di strutture sociali, ma come tecniche aventi una loro specificità nel campo più generale degli altri processi del potere. Assumere, sui castighi, la prospettiva della tattica politica.
3. In luogo di trattare la storia del diritto penale e quella delle scienze umane come due serie separate, il cui incrociarsi avrebbe sull'una o sull'altra, forse su entrambe, un effetto, come si voglia perturbatore o utile, cercare se non esista una matrice comune e se entrambe non derivino da un processo di formazione «epistemologico-giuridico»; in breve, porre la tecnologia del potere come principio dell'umanizzazione della penalità e della conoscenza dell'uomo.

4. Indagare se questo ingresso dell'anima sulla scena della giustizia penale, e con esso l'inserzione nella pratica giudiziaria di tutto un sapere «scientifico», non sia effetto di una trasformazione del modo in cui il corpo stesso è investito dai rapporti di potere.

Insomma, cercare di studiare la metamorfosi dei metodi punitivi, partendo da una tecnologia politica del corpo, dove potrebbe leggersi una comune storia dei rapporti di potere e delle relazioni d'oggetto. In modo che, attraverso l'analisi della dolcezza penale come tecnica del potere, si potrebbe capire, in uno stesso tempo, come l'uomo, l'anima, l'individuo, normale o anormale, sono venuti a porsi accanto al delitto come oggetti dell'intervento penale; e per quale via, un modo specifico di assoggettamento ha potuto dare origine all'uomo come oggetto di studio per un discorso «scientifico».
Ma non ho la pretesa di essere il primo ad aver lavorato in questa direzione (20).

Dall'importante testo di Rusche e Kirchheimer (21), possiamo ricavare un certo numero di reperti essenziali. Innanzitutto disfarci dell'illusione che l'apparato penale è prima di tutto (se non esclusivamente) un modo per reprimere i delitti e che in questo ruolo, secondo le forme sociali, i sistemi politici o le credenze, può essere severo oppure indulgente, volto all'espiazione o teso ad ottenere una riparazione, applicato a perseguire degli individui o ad assegnare delle responsabilità collettive. Analizzare piuttosto i «sistemi punitivi concreti», studiarli come fenomeni sociali di cui non possono rendere conto la sola armatura giuridica della società, né le sue scelte etiche fondamentali; porli di nuovo nel loro campo di funzionamento dove la sanzione dei crimini non è l'unico elemento; mostrare che le misure punitive non sono semplicemente meccanismi «negativi» che permettono di reprimere, impedire, escludere, sopprimere, ma che sono legate a tutta una serie di effetti positivi e utili, che esse hanno il compito di sostenere (e in questo senso se i castighi legali sono fatti per sanzionare infrazioni possiamo dire che la definizione delle infrazioni e il loro perseguimento sono, in cambio, fatte per mantenere i meccanismi punitivi e le loro funzioni). In questa linea, Rusche e Kirchheimer hanno messo in rapporto i diversi regimi punitivi coi sistemi di produzione da cui essi ricavano i loro effetti: così in una economia servile, i meccanismi punitivi avrebbero il ruolo d'apportare manodopera supplementare - di costituire una schiavitù «civile» a lato di quella assicurata dalle guerre o dal commercio; con la feudalità, e in un'epoca in cui la moneta e la produzione sono poco sviluppate, si assisterebbe ad una brusca crescita delle punizioni corporali - essendo il corpo nella maggior parte dei casi il solo bene accessibile; la casa di correzione - lo Spinhuis, il Rasphuis -, il lavoro forzato, la manifattura penale, apparirebbero con lo sviluppo dell'economia mercantile. Ma, esigendo il sistema industriale il libero mercato della manodopera, l'incidenza del lavoro obbligatorio diminuirebbe, durante il secolo Diciannovesimo, nei meccanismi di punizione, sostituita da una detenzione a scopo correttivo. Senza dubbio, ci sono molte osservazioni da fare su questa stretta correlazione.
Ma, senza dubbio, possiamo accettare l'argomentazione generale per cui nelle nostre società, i sistemi punitivi devono essere posti in una certa «economia politica» del corpo: anche se non si richiamano a castighi violenti o sanguinosi, anche quando utilizzano metodi «dolci» che rinchiudono o correggono, è pur sempre del corpo che si tratta - del corpo e delle sue forze, della loro utilità e docilità, della loro ripartizione e sottomissione. E sicuramente legittimo fare una storia dei castighi sulla base di idee morali o di strutture giuridiche. Ma possiamo farla sulla base di una storia del corpo, allorché i castighi pretendono di non avere altro obiettivo che l'anima dei criminali?
La storia del corpo, gli storici l'hanno avviata da tempo. Hanno studiato il corpo nel campo di una demografia o di una patologia storiche; l'hanno esaminato come sede di bisogni e appetiti, come luogo di processi fisiologici e di metabolismi, come bersaglio di attacchi microbici o virali: essi hanno mostrato fino a qual punto i processi storici erano implicati in quello che poteva apparire come il substrato puramente biologico dell'esistenza; e quale spazio bisognava accordare nella storia delle società ad «avvenimenti» biologici come la circolazione dei bacilli o l'allungamento della durata della vita (22). Ma il corpo è anche direttamente immerso in un campo politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, l'investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l'obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni. Questo investimento politico del corpo è legato, secondo relazioni complesse e reciproche, alla sua utilizzazione economica. E' in gran parte come forza di produzione che il corpo viene investito da rapporti di potere e di dominio, ma, in cambio, il suo costituirsi come forza di lavoro è possibile solo se esso viene preso in un sistema di assoggettamento (in cui il bisogno è anche uno strumento politico accuratamente preordinato, calcolato e utilizzato): il corpo diviene forza utile solo quando è contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato. Questo assoggettamento non è ottenuto coi soli strumenti sia della violenza che dell'ideologia; esso può assai bene essere diretto, fisico, giocare della forza contro la forza, fissarsi su elementi materiali, e tuttavia non essere violento; può essere calcolato, organizzato, indirizzato tecnicamente, può essere sottile, non fare uso né di armi né del terrore, e tuttavia rimanere di ordine fisico. Ciò vuol dire che può esserci e un «sapere» del corpo che non è esattamente la scienza del suo funzionamento e una signoria sulle sue forze che è più forte della capacità di vincerle: questo sapere e questa signoria costituiscono quello che potremmo chiamare la tecnologia politica del corpo. Certo, questa tecnologia è diffusa, ma raramente formulata in discorsi continui e sistematici; spesso si compone di elementi non coordinati, e impiega strumenti o procedimenti disparati. Il più delle volte non è, malgrado la coerenza dei risultati, che strumentazione multiforme. Inoltre non la sapremmo localizzare, né in un tipo definito di istituzione, né in un apparato statuale. Entrambi vi hanno fatto ricorso, utilizzano, valorizzano o impongono alcuni dei suoi procedimenti. Ma, nei suoi meccanismi ed effetti, essa si pone a un tutt'altro livello. Si tratta in qualche modo di una microfisica del potere che gli apparati e le istituzioni mettono in gioco, ma il cui campo di validità si pone in qualche modo tra questi grandi meccanismi e gli stessi corpi, con la loro materialità e le loro forze.
Ora, lo studio di questa microfisica suppone che il potere che vi si esercita non sia concepito come una proprietà, ma come una strategia, che i suoi effetti di dominazione non siano attribuiti ad una «appropriazione», ma a disposizioni, manovre, tattiche, tecniche, funzionamenti, che si decifri in esso piuttosto una rete di relazioni sempre tese, sempre in attività, che non un privilegio che si potrebbe detenere, che gli si dia per modello la battaglia perpetua, piuttosto che il contratto operante una cessione o la conquista che si impadronisce di un dominio. Bisogna insomma ammettere che questo potere lo si eserciti piuttosto che non lo si possieda, che non sia «privilegio» acquisito o conservato dalla classe dominante, ma effetto d'insieme delle sue posizioni strategiche - effetto che manifesta e talvolta riflette la posizione di quelli che sono dominati. D'altra parte, questo potere non si applica puramente e semplicemente, come un obbligo o un'interdizione, a quelli che «non l'hanno»; esso li investe, si impone per mezzo loro e attraverso loro; si appoggia su di loro, esattamente come loro stessi, nella lotta contro di lui, si appoggiano a loro volta sulle prese ch'esso esercita su di loro. Ciò vuol dire che queste relazioni scendono profondamente nello spessore della società, che non si localizzano nelle relazioni fra lo Stato e i cittadini o alla frontiera delle classi e che non si accontentano di riprodurre a livello degli individui, dei corpi, dei gesti e dei comportamenti, la forma generale della legge o del governo; che se esiste continuità (esse, in effetti, si articolano facilmente in questa forma secondo tutta una serie di complessi ingranaggi), non c'è analogia, né omologia, ma specificità di meccanismo e di modalità. Infine esse non sono univoche, ma definiscono innumerevoli punti di scontro, focolai di instabilità di cui ciascuno comporta rischi di conflitto, di lotte e di inversioni, almeno transitorie, dei rapporti di forza. Il rovesciamento di questi «micropoteri» non obbedisce dunque alla legge del tutto o niente, né è conseguito una volta per tutte da un nuovo controllo degli apparati o da un nuovo funzionamento o da una distruzione delle istituzioni; in cambio, nessuno dei suoi episodi localizzati può inscriversi nella storia, se non attraverso gli effetti che induce su tutta la rete in cui è preso.
Forse bisogna anche rinunciare a tutta una tradizione che lascia immaginare che un sapere può esistere solo là dove sono sospesi i rapporti di potere e che il sapere non può svilupparsi altro che fuori dalle ingiunzioni del potere, dalle sue esigenze e dai suoi interessi. Forse bisogna rinunciare a credere che il potere rende pazzi e che la rinuncia al potere è una delle condizioni per diventare saggi. Bisogna piuttosto ammettere che il potere produce sapere (e non semplicemente favorendolo perché lo serve, o applicandolo perché è utile); che potere e sapere si implicano direttamente l'un l'altro; che non esiste relazione di potere senza correlativa costituzione di un campo di sapere, né di sapere che non supponga e non costituisca nello stesso tempo relazioni di potere. Questi rapporti «potere-sapere» non devono essere dunque analizzati a partire da un soggetto di conoscenza che sia libero o no in rapporto al sistema di potere, ma bisogna al contrario considerare che il soggetto che conosce, gli oggetti da conoscere e le modalità della conoscenza sono altrettanti effetti di queste implicazioni fondamentali del potere-sapere e delle loro trasformazioni storiche. In breve, non sarebbe l'attività del soggetto di conoscenza a produrre un sapere utile o ostile al potere, ma, a determinare le forme ed i possibili campi della conoscenza sarebbero il potere-sapere, e i processi e le lotte che lo attraversano e da cui è costituito.
Analizzare l'investimento politico del corpo e la microfisica del potere suppone dunque che si rinunci - per quello che concerne il potere - alla opposizione violenza-ideologia, alla metafora della proprietà, al modello del contratto o a quello della conquista; per quello che concerne il sapere che si rinunci alla opposizione fra ciò che è «interessato» e ciò che è «disinteressato», al modello della conoscenza e al primato del soggetto. Prestato al termine un senso diverso da quello che gli davano nel secolo Diciassettesimo Petty ed i suoi contemporanei, potremmo sognare una «anatomia» politica. Non sarebbe lo studio di uno Stato inteso come un «corpo» (coi suoi elementi, le sue risorse, le sue forze), ma non sarebbe neppure lo studio del corpo e dei suoi contorni presi come un piccolo Stato. Vi si tratterebbe del «corpo politico» come insieme di elementi materiali e di tecniche che servono da armi, collegamenti, vie di comunicazione e punti d'appoggio alle relazioni di potere e di sapere che investono i corpi umani e li assoggettano facendone oggetti di sapere.
Si tratta di collocare le tecniche punitive - sia che si impadroniscano del corpo nel rituale dei supplizi sia che si rivolgano all'anima - nella storia di questo corpo politico. Considerare le pratiche penali piuttosto che come conseguenza di teorie giuridiche come un capitolo dell'anatomia politica.
Kantorowitz (23) ha dato un'importante analisi del «corpo del re»: corpo doppio, secondo la teologia giuridica formatasi nel Medioevo, perché comporta, oltre all'elemento transitorio che nasce e muore, un altro che permane nel tempo e si mantiene come supporto fisico e tuttavia intangibile del regno. Attorno a questa dualità, che fu all'origine vicina al modello cristologico, si organizzano una iconografia, una teoria politica della monarchia, dei meccanismi che distinguono e insieme legano la persona del re e le esigenze della corona; e tutto un rituale che trova nell'incoronazione, nei funerali, nelle cerimonie di sottomissione i suoi tempi più forti. All'altro polo potremmo immaginare di mettere il corpo del condannato; lui pure ha il suo stato giuridico, suscita il suo cerimoniale e richiama tutto un discorso teorico, ma non per sostenere il «più di potere» che si accompagnava alla persona del sovrano, bensì per codificare il «meno di potere» da cui sono segnati quelli che vengono sottomessi ad una punizione. Nella regione più buia del campo politico, il condannato disegna la figura simmetrica e inversa del re. Bisognerebbe analizzare quello che, in omaggio a Kantorowitz, potremmo chiamare il «corpo minimo del condannato». Se il supplemento di potere dalla parte del re provoca lo sdoppiarsi del suo corpo, il potere eccedente che si esercita sul corpo sottomesso del condannato non ha forse suscitato un altro tipo di sdoppiamento? Quello di un incorporeo, di un'«anima», come diceva Mably. La storia di questa «microfisica» del potere punitivo sarebbe allora una genealogia o un elemento per una genealogia dell'«anima» moderna. Piuttosto che vedere in quest'anima i resti riattivati di un'ideologia, vi si riconoscerebbe il correlativo attuale di una certa tecnologia del potere sul corpo. Non bisognerebbe dire che l'anima è un'illusione, o un effetto ideologico. Ma che esiste, che ha una realtà, che viene prodotta in permanenza, intorno, alla superficie, all'interno del corpo, mediante il funzionamento di un potere che si esercita su coloro che vengono puniti - in modo più generale su quelli che vengono sorvegliati, addestrati, corretti, sui pazzi, i bambini, gli scolari, i colonizzati, su quelli che vengono legati ad un apparato di produzione e controllati lungo tutta la loro esistenza. Realtà storica di quest'anima, che, a differenza dell'anima rappresentata dalla teologia cristiana, non nasce fallibile e punibile, ma nasce piuttosto dalle procedure di punizione, di sorveglianza, di castigo, di costrizione. Quest'anima reale e incorporea, non è minimamente sostanza; è l'elemento dove si articolano gli effetti di un certo tipo di potere e il riferimento di un sapere, l'ingranaggio per mezzo del quale le relazioni di potere dànno luogo a un sapere possibile, e il sapere rinnova e rinforza gli effetti del potere. Su questa realtà-riferimento, sono stati costruiti concetti diversi e ritagliati campi di analisi: psiche, soggettività, personalità, coscienza, eccetera; a partire da essa sono state fatte valere le rivendicazioni morali dell'umanesimo. Ma non bisogna ingannarsi: all'anima, illusione dei teologi, non è stato sostituito un uomo reale, oggetto di sapere, di riflessione filosofica o di intervento tecnico. L'uomo di cui ci parlano e che siamo invitati a liberare è già in se stesso l'effetto di un assoggettamento ben più profondo di lui. Un'«anima» lo abita e lo conduce all'esistenza, che è essa stessa un elemento della signoria che il potere esercita sul corpo. L'anima, effetto e strumento di una anatomia politica; l'anima, prigione del corpo.

Che le punizioni, in generale, e la prigione derivino da una tecnologia politica del corpo, è forse meno la storia che non il presente ad avermelo insegnato. Nel corso di questi ultimi anni, un po' ovunque nel mondo si sono prodotte rivolte nelle prigioni. I loro obiettivi, le loro parole d'ordine, il loro svolgimento avevano sicuramente qualcosa di paradossale. Erano rivolte contro tutta una miseria fisica che dura da più di un secolo: contro il freddo, il soffocamento e l'affollamento, contro i muri vetusti, contro la fame, contro i colpi. Ma erano anche rivolte contro prigioni modello, contro i tranquillanti, contro l'isolamento, contro il servizio medico o educativo. Rivolte i cui obiettivi non erano che materiali? Rivolte contraddittorie, contro il decadimento ma contro il confort, contro i guardiani ma contro gli psichiatri? In effetti, in tutti questi movimenti era proprio di corpi e di cose materiali che si trattava, come se ne tratta in quegli innumerevoli discorsi che la prigione ha prodotto dall'inizio del secolo Diciannovesimo. Ciò che ha generato quei discorsi e quelle rivolte, quei ricordi e quelle invettive, sono proprio piccole, infime materialità. Libero, chi vorrà, di vedervi solo cieche rivendicazioni o di supporvi strategie straniere. Si trattava veramente di una rivolta, a livello dei corpi, contro il corpo stesso della prigione. Ciò che era in gioco, non era la cornice troppo frusta o troppo asettica, troppo rudimentale o troppo perfezionata della prigione, era la sua materialità nella misura in cui è strumento e vettore di potere, era tutta la tecnologia del potere sul corpo, che la tecnologia dell'«anima» - quella degli educatori, dei filosofi e degli psichiatri - non riesce né a mascherare né a compensare, per la buona ragione che essa non è che uno degli strumenti. E' di questa prigione, con tutti gli interventi del potere politico sul corpo che essa riunisce nella sua architettura chiusa, che io vorrei fare la storia. Per puro anacronismo? No, se intendiamo con questo fare la storia del passato in termini del presente. Sì, se intendiamo con questo fare la storia del presente (24).

indice


informativa privacy