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Dei dolori e delle pene - I «clienti» privilegiati delle prigioni europee.

L'analisi dell'esperienza americana degli ultimi tre decenni permette sia di osservare a grandezza naturale, in riferimento a un caso di particolare importanza vista la sua forza di attrazione ideologica, le modalità attraverso cui avviene la regressione dallo stato sociale allo stato penale, sia di cogliere il contesto in cui matura tale trasformazione. Oggi, infatti, negli Stati uniti ogni ambito della vita sociale, dall'economia alla politica passando per le attività associative, la cultura e i media, deve in qualche modo fare i conti con lo sviluppo ipertrofico dell'istituzione carceraria e delle sue protesi. La grande reclusione quindi, alla maniera di un reagente chimico, fa emergere clamorosamente il volto nascosto - in quanto rimosso dall'immenso lavoro storico di eufemizzazione giuridica, politica e culturale funzionale al consolidamento di un regime formalmente democratico, prodotto da due secoli di lotte sociali - dello stato come organizzazione collettiva della violenza volta alla salvaguardia dell'ordine stabilito e alla sottomissione dei dominati. Una violenza che riemerge all'improvviso, massiccia, metodica e direzionata verso coloro che sono visti come inutili o insubordinati dal nuovo ordine economico o etnorazziale che si sta dispiegando oltre Atlantico, e che gli Stati uniti offrono come modello egemone al mondo intero.
Comprendere le specificità dell'esperienza americana, tuttavia, non significa certo attribuirle lo statuto di particolarità locale. E' infatti necessario guardarsi dal considerare l'improvvisa crescita ipertrofica del sistema penitenziario come semplice manifestazione dell'«eccezione» che gli stessi Stati uniti amano invocare in tutte le occasioni, e dietro la quale si nascondono gli incensatori e i peroratori del «modello americano» quando sono a corto di argomenti, apologetici o requisitori che siano. In realtà, se negli Stati uniti per le citate ragioni storiche - leggerezza di uno stato «categoriale» fondato su una cesura razziale e volto a rafforzare la disciplina del mercato - l'ascesa dello stato penale è particolarmente spettacolare e brutale, la tentazione di appoggiarsi sulle istituzioni giudiziarie e penitenziarie per ovviare all'insicurezza sociale generata dall'imposizione della precarietà salariale e dalla contestuale contrazione delle garanzie sociali è avvertita un po' ovunque in Europa, in particolare in Francia, man mano si diffonde l'ideologia neoliberale e le politiche, in materia di lavoro e giustizia, a essa ispirate.
A dimostrazione di quanto detto si può portare "l'aumento rapido e continuo nel corso dell'ultimo decennio dei tassi di carcerazione di tutti i paesi membri dell'Unione europea". Per il periodo che va dal 1985 al 1995 i dati sono i seguenti: da 93 a 125 detenuti ogni 100 mila abitanti in Portogallo, da 57 a 102 in Spagna, da 90 a 101 in Inghilterra (Galles compreso), da 76 a 90 in Italia e a 95 in Francia, da 62 a 76 in Belgio da 34 e 49, rispettivamente, a 65 in Olanda e Svezia, da 36 a 56 in Grecia (31). Senza dubbio tali tassi sono decisamente più bassi e sono cresciuti molto più lentamente di quelli degli Stati uniti. Inoltre, nel periodo considerato, in Europa la criminalità è sensibilmente aumentata, mentre oltre Atlantico rimaneva stazionaria. E' poi necessario tener conto del fatto che nella maggior parte dei paesi europei, contrariamente a quanto avviene negli Stati uniti, l'aumento dei carcerati è dovuto più all'allungamento dei periodi di detenzione che all'inflazione delle condanne che implicano la privazione della libertà. Detto ciò, appare comunque evidente che la tendenza all'aumento della popolazione carceraria si afferma in quasi tutto il continente (confronta tabella 4), in particolare in Francia, dove il numero dei detenuti è raddoppiato nel corso degli ultimi vent'anni. Di fatto, a partire dal 1975, le curve che registrano l'andamento della disoccupazione e della popolazione carceraria seguono un'evoluzione rigorosamente parallela.

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Tabella 4. Inflazione carceraria nell'Unione europea (1983-1997)
(incremento in percento).

Inghilterra-Galles: 43.415 nel 1983 - 50.106 nel 1990 - 61.940 nel 1995 = 43 %
Francia: 39.086 nel 1983 - 47.449 nel 1990 - 54.442 nel 1995 = 39 %
Italia: 41.413 nel 1983 - 32.588 nel 1990 - 49.477 nel 1995 = 20 %
Spagna: 14.659 nel 1983 - 32.902 nel 1990 - 42.827 nel 1995 = 192 %
Portogallo: 6093 nel 1983 - 9059 nel 1990 - 14.634 nel 1995 = 140 %
Paesi bassi: 4000 nel 1983 - 6672 nel 1990 - 13.618 nel 1995 = 240 %
Belgio: 6524 nel 1983 - 6525 nel 1990 - 8342 nel 1995 = 28 %
Grecia: 3736 nel 1983 - 4786 nel 1990 - 5577 nel 1995 = 49 %
Svezia: 4422 nel 1983 - 4895 nel 1990 - 5221 nel 1995 = 18%
Danimarca: 3120 nel 1983 - 3243 nel 1990 - 3229 nel 1995 = 6%
Irlanda: 1466 nel 1983 - 2114 nel 1990 - 2433 nel 1995 = 66%

Fonti: Pierre Tournier, "Statistiques pénales annuelles du Conseil de l'Europe, Enquête 1997", Conseil de l'Europe, Strasbourg 1999.
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[In Francia, come negli Stati uniti, la metà degli anni settanta è segnata da una rottura, seguita da un ribaltamento di prospettiva, nell'evoluzione sia sociale sia carceraria. Alle mutazioni del modello produttivo - dualizzazione del mercato del lavoro, incremento della disoccupazione di massa e quindi estensione della precarietà salariale, accompagnata dalla moltiplicazione dei dispositivi sociali volti sia a lenire le situazioni di indigenza più clamorose sia a flessibilizzare la manodopera - corrisponde una ricomposizione dell'economia penale e una spinta all'inflazione penale. Dopo essere calata del 25 percento fra il 1968 e il 1975, in Francia la popolazione carceraria è regolarmente aumentata per due decenni. Solo le grazie presidenziali del 1981 e del 1988 e le amnistie straordinarie legate all'arrivo al ministero della Giustizia di Robert Badinter e al Bicentenario della Rivoluzione hanno momentaneamente arrestato la tendenza: i 26032 detenuti del 1975 divengono 42937 nel 1985 e 51623 nel 1995. Il tasso di carcerazione francese, che all'entrata all'Eliseo di Valéry Giscard d'Estaing si attesta sui 50 detenuti ogni 100 mila abitanti, passa a quota 51 al momento della successione di François Mitterrand per salire ancora a 95 al momento dell'elezione di Jacques Chirac. In parallelo, si assiste all'estensione delle sanzioni «alternative alla detenzione»: 120 mila persone si trovano oggi sotto il controllo giudiziario, in libertà condizionata o su cauzione, ai lavori socialmente utili. In totale, al 1 gennaio 1998, 176 mila 800 persone erano nelle «mani della giustizia», ossia il 50 percento in più rispetto al 1989 e il 250 percento in più rispetto al 1975. Inoltre, nello stesso tempo, si sviluppa il ricorso a procedure sanitarie e sociali (per i tossicomani) e amministrative (per gli stranieri «irregolari») nel caso non si abbia a che fare con recidiva o reati associati.
La forte crescita della demografia carceraria si presenta come la risultante di una vasta ricomposizione dell'economia delle pene: declino dell'ammenda a favore della detenzione con beneficio di condizionale (con la conseguenza perversa di periodi più lunghi di reclusione in caso di recidiva), tendenza all'aumento della durata delle pene comminate (la media delle condanne alla privazione della libertà in correzionale passa da 2,5 mesi nel 1984 a 6,4 mesi nel 1992; la durata media della detenzione raggiunge i 7,8 anni nel 1996 contro i 4,4 anni di vent'anni prima) (32). Nel frattempo, il profilo del contenzioso sanzionato è stato ridisegnato, attraverso lo spostamento del fuoco repressivo dal contenzioso a vittima diretta (nel 1997 il furto fornisce solo un quinto dei detenuti anziché la metà come due decenni prima) a due contenziosi senza vittima diretta come le violazioni della legge sugli stupefacenti e il soggiorno irregolare degli stranieri, oltre che sullo stupro e gli atti osceni, puniti molto più severamente che in passato. Complessivamente, l'incremento degli effettivi incarcerati è stato alimentato, fra il 1971 e il 1987, dall'accrescimento del numero dei condannati (aumento dei flussi) poi, dal 1983 a oggi, dall'allungamento dei periodi di detenzione (aumento degli stock) (33).
«La nuova organizzazione delle pene», nota il criminologo Thierry Godefroy, si struttura «in relazione con il controllo di una crescente popolazione di giovani adulti sospesi fra lo studio e il lavoro», garantendo la disponibilità di un margine di manodopera dequalificata e poco esigente, «utile allo sviluppo dei servizi e alle nuove forme di organizzazione della produzione che fanno ampio ricorso alla precarietà e alla mobilità». La riconfigurazione del castigo indirizza «la pressione penale non sulle 'classi pericolose' "strictu sensu" ma sugli elementi marginali del mercato del lavoro (in particolare i giovani e gli stranieri) ai quali sono offerte come uniche prospettive l'accettazione di un'inserzione nel mercato dei lavori incerti e insicuri o il carcere, in particolare in caso di recidiva» (34).
A differenza degli Stati uniti, dunque, in Francia l'espansione della popolazione carceraria è alimentata non dalla carcerazione a oltranza ma dalla «dualizzazione» dell'attività penale e dall'allungamento delle pene, che colpiscono in particolare gli immigrati e i giovani provenienti dalle classi subalterne. Al contrario degli Stati uniti, paese in cui l'assistenza sociale si è fatta sempre più esile fino a trasformarsi in mero «trampolino» verso il lavoro coatto, la tendenza si coniuga a un'estensione del sostegno ai gruppi esclusi dal mercato del lavoro (reddito minimo di inserimento, contributi di solidarietà, contratti lavoro-solidarietà, impieghi-giovani, contributi per lo sviluppo dei quartieri, legge contro l'esclusione eccetera) (35). Di conseguenza, in Francia e in altri paesi europei a forte tradizione statale si assiste non tanto al passaggio dal sociale al penale, quanto a "un'intensificazione congiunta del trattamento sociale e penale" delle categorie marginalizzate dalla mutazione della condizione salariale e dalla correlata ridefinizione delle garanzie sociali.
I mezzi impiegati dallo stato penale francese sono senza dubbio diversi da quelli in voga negli Stati uniti, come dimostra il diverso dosaggio delle varie sanzioni, tuttavia l'imperativo a cui risponde la riformulazione del castigo è più o meno lo stesso: piegare le categorie refrattarie alla precarietà salariale, riaffermare l'obbligo del lavoro come norma civica, stockare la popolazione sovrannumeraria (per un periodo transitorio che diviene sempre più lungo nel primo caso, per lunghi periodi che possono sfociare nell'ergastolo nel secondo). In Francia come negli Stati uniti, la ristrutturazione dell'economia penale si accompagna e sostiene quella dell'economia salariale, in quanto la prigione è chiamata a svolgere la funzione di limite e sfogo del nuovo mercato del lavoro dequalificato].

I pionieristici studi di Georg Rusche e Otto Kircheimer, le cui acquisizioni sono state confermate da quarant'anni di ricerche empiriche in una decina di società capitalistiche, hanno evidenziato la stretta correlazione fra il deterioramento del mercato del lavoro e la crescita della popolazione carceraria (36). Diversamente, non esiste alcun nesso accertato fra i tassi di criminalità e di carcerazione. Inoltre, tutte le ricerche disponibili sull'effetto esercitato dalle condizioni sociali degli imputati sulle sanzioni giudiziarie indicano chiaramente che anche in Europa la disoccupazione e la precarietà professionale sono giudicate assai negativamente dai tribunali. Ne risulta, a parità di reato, "una tendenza alla «galera facile» per coloro che hanno una posizione marginale nel mercato del lavoro". Il disoccupato non solo ha un po' ovunque maggiori possibilità di essere sottoposto alla carcerazione preventiva, e per periodi più lunghi, ma rischia facilmente di essere messo sotto chiave per reati che potrebbero essere sanzionati da un'ammenda o dalla libertà condizionata. (Da una ricerca risulta che negli Stati uniti, dal punto di vista penale, la condizione di disoccupato è addirittura più pregiudizievole di quella di nero) (37). Infine, l'assenza o la debolezza delle politiche di inserimento professionale del detenuto contribuiscono ad allungare i periodi di carcerazione, compromettendo le possibilità di ottenere una riduzione delle pena o una liberazione condizionata o anticipata.
«L'ammenda è borghese e piccolo-borghese, la libertà condizionata è proletaria, la carcerazione è sottoproletaria»: la celebre formula con cui Bruno Aubusson de Cavarlay riassume il funzionamento della giustizia in Francia fra il 1952 e il 1978 si rivela ancora più calzante nell'epoca della disoccupazione di massa e della crescita delle ineguaglianze sociali. Infatti, la metà degli individui incarcerati in Francia nel corso del 1998 avevano un'istruzione limitata al livello primario (contro il 3 percento che aveva fatto studi universitari). Inoltre, si può stimare che fra un terzo e la metà fossero disoccupati al momento dell'arresto. Un detenuto su sei, era privo di fissa dimora (38). In Inghilterra, l'83 percento della popolazione carceraria proviene dalla working class, il 43 percento ha abbandonato la scuola prima dei sedici anni (la media nazionale si attesta sul 16 percento), più del 33 percento era disoccupato al momento dell'arresto e il 13 percento senza fissa dimora (39). Oggi più che mai, quindi, i «clienti naturali» delle prigioni europee sono reclutati nelle frazioni precarizzate della classe operaia e, in particolare, fra i giovani appartenenti a famiglie povere di origine africana.
In Europa, gli stranieri, gli immigrati non occidentali detti di «seconda generazione» e le persone di colore, ossia le categorie più vulnerabili sul mercato del lavoro e meno tutelate dal settore assistenziale dello stato, sono decisamente sovrarappresentate in seno alla popolazione carceraria, in maniera per certi versi paragonabile alla «sproporzione» che colpisce i neri negli Stati uniti (confronta tavola 1). E così, in Inghilterra, paese in cui la criminalità di strada nella percezione comune e nella prassi poliziesca viene spesso sovrapposta alla presenza visibile e rivendicativa dei sudditi dell'Impero provenienti dai Caraibi, i neri sono incarcerati sette volte di più dei bianchi o degli asiatici (le donne anglo-antillesi dieci volte di più). La sovrarappresentazione è particolarmente accentuata fra i detenuti «pizzicati» per detenzione o spaccio di droga, fra i quali i neri ammontano a circa la metà, o per furto (in questo caso la proporzione si aggira intorno ai due terzi).
Un fenomeno simile può essere osservato in Germania. Nella Renania del Nord, i «gitani» originari della Romania manifestano tassi di carcerazione più di venti volte superiori a quelli dei tedeschi DOC, i marocchini e i turchi rispettivamente otto e fra le tre e le quattro volte superiori. La proporzione degli stranieri fra gli imputati è passata fra il 1989 e il 1984 dai due terzi alla metà. In Assia, a partire dal 1987, il numero dei prigionieri è aumentato ogni anno mentre i detenuti «nazionali» diminuivano costantemente. L'incremento del numero dei «non-nazionali» dietro le sbarre è inoltre quasi del tutto dovuto a violazioni delle leggi sugli stupefacenti. Nei Paesi bassi, le cui presenze carcerarie sono triplicate nel corso degli ultimi quindici anni e contemplano una percentuale di stranieri del 43 percento, la probabilità di finire in galera in seguito a una prima condanna è decisamente più elevata se l'imputato è di origine marocchina o del Suriname (in compenso, in caso di recidiva, le cose vanno peggio per i «nazionali») (40). In Belgio, nel 1997 il tasso di carcerazione degli stranieri era sei volte più alto di quello dei «nazionali» (2840 contro 510 ogni milione di abitanti) contro il doppio del 1980. A partire da tale data, anche non tenendo conto della detenzione amministrativa per le irregolarità di soggiorno, il numero degli stranieri entrati in prigione aumenta continuamente mentre il numero dei «nazionali» messi sotto chiave diminuisce, fino al 1996, di anno in anno. Inoltre, la durata media della detenzione degli stranieri privati della libertà nel quadro di una procedura penale è decisamente più lunga di quella inflitta ai belgi, nonostante questi ultimi, proporzionalmente, siano maggiormente soggetti alla carcerazione preventiva (41).

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Figura 1. Sovrarappresentazione carceraria degli stranieri nell'Unione europea (1997).
(Percentuale di stranieri tra i detenuti).

Grecia: 39
Belgio: 38
Germania: 34
Paesi Bassi: 32
Austria: 27
Francia: 26
Svezia: 26
Italia: 22
Spagna: 19
Danimarca: 14

Fonti: Pierre Tournier, "Statistiques pénales annuelles du Conseil de l'Europe, Enquête 1997", Conseil de l'Europe, Strasbourg 1999.
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In Francia, la percentuale degli stranieri (che rappresentano il 6 percento della popolazione) nelle presenze carcerarie è passata dal 18 percento del 1975 al 29 percento del 1995. Si tratta di una cifra, peraltro, che non tiene conto del forte «sovraconsumo» carcerario dei «nazionali» percepiti e trattati come stranieri dall'apparato poliziesco e giudiziario, soprattutto giovani provenienti da famiglie dell'immigrazione maghrebina o dei possedimenti francesi d'oltremare. Ciò significa che le celle francesi in questi ultimi anni si sono decisamente «colorate» in quanto i due terzi dei 15 mila detenuti stranieri ufficialmente censiti nel 1995 erano originari dell'Africa del Nord (53 percento) o dell'Africa nera (16 percento).
La «sproporzione etnonazionale» di cui soffrono i discendenti degli ex colonizzati della Francia dipende in primo luogo dal fatto che, a parità di reato, quando il condannato non possiede la cittadinanza francese la giustizia ricorre più volentieri alla carcerazione, facendo della libertà condizionata e della sospensione della pena un monopolio dei «nazionali». Il demografo Pierre Tournier ha mostrato come a parità di reato uno straniero abbia una probabilità più elevata di un francese, oscillante da 1,8 a 2,4 volte, di essere condannato al carcere (a prescindere dai precedenti). Inoltre, il numero degli stranieri imputati di immigrazione clandestina è salito dai 7000 casi del 1976 ai 44 mila del 1993. I tre quarti degli individui condannati per ingresso e soggiorno irregolare finisce dietro le sbarre. Fra le sedici infrazioni maggiormente denunciate, è quella più spesso punita con la carcerazione, tanto da poter affermare che di fatto viene perseguita alla stregua di un crimine. Di conseguenza, si può osservare che l'aumento del peso degli stranieri nella popolazione carceraria, lungi dal discendere da un ipotetico incremento della loro propensione a delinquere, come vorrebbe il discorso xenofobo, è dovuto "esclusivamente" alla triplicazione, nel corso degli ultimi venti anni, della detenzione dovuta a infrazioni al regime imposto agli stranieri. Infatti, se si escludono i detenuti condannati per contenziosi amministrativi di quel tipo, in Francia il coefficiente di sovracarcerazione degli stranieri scende da sei a tre.
Come nel caso dei neri negli Stati uniti - anche se è doveroso precisare che gli afroamericani da almeno un secolo sono, almeno sulla carta, cittadini statunitensi - la sovrarappresentazione degli stranieri nei centri di detenzioni francesi manifesta non solo la loro appartenenza di classe più bassa, ma anche la maggiore severità dell'istituzione penale nei loro confronti e la «scelta deliberata di reprimere l'immigrazione clandestina attraverso il carcere» (42). Si tratta, in primo luogo, di una detenzione di «differenziazione o segregazione», volta a isolare e a facilitare la separazione dal corpo sociale di determinati individui (con un processo che spesso culmina con l'espulsione dal territorio nazionale), diversa dalla «reclusione d'autorità» e dalla «reclusione di sicurezza» (43).
Agli stranieri e agli assimilati confinati negli istituti di reclusione e pena, spesso in bracci separati su base etnonazionale (come nel carcere parigino di La Santé, in cui gli «ospiti» sono distribuiti in quattro bracci distinti e ostili: «bianchi», «africani», «arabi» e «resto del mondo»), è necessario aggiungere le migliaia di immigrati "sans-papiers" o in attesa di espulsione che in forza della cosiddetta «doppia pena» sono arbitrariamente reclusi in quelle enclave di non diritto rappresentate dalle «zone di attesa» e dai «centri di detenzione», che nel corso dell'ultimo decennio si sono diffusi in tutta l'Unione europea. Simili ai campi per «stranieri indesiderati», «rifugiati spagnoli» e «altri agitatori» creati dal governo Daladier nel 1938, i trenta centri attualmente in funzione sul territorio francese - erano una decina solo quindici anni fa - sono in realtà delle vere e proprie prigioni chiamate con altro nome. E non è un caso. Essi infatti non dipendono dall'amministrazione penitenziaria, la detenzione vi avviene in flagrante violazione dell'articolo 66 della costituzione (che afferma «nessuno può essere detenuto arbitrariamente») e le condizioni di internamento sono chiaramente contrarie al diritto e alla dignità umana. E' il caso, fra gli altri, del tristemente celebre centro di Arenq, nei pressi della stazione marittima di Marsiglia, dove un vetusto capannone costruito nel 1917 e privo degli standard abitativi minimi serve da deposito per i circa 1500 stranieri che ogni anno vengono espulsi verso l'Africa del Nord (44).

[In Belgio, paese in cui il numero dei «registrati» a disposizione dell'Ufficio stranieri è cresciuto di nove volte fra il 1974 e il 1994, le persone consegnate nei centri di detenzione per stranieri «in situazione irregolare» ricadono sotto l'autorità del ministro degli Interni e non di quello della Giustizia. Di conseguenza sono omessi dalle statistiche dell'amministrazione penitenziaria. Cinque centri, circondati da una doppia fila di reticolati sormontati da filo spinato e soggetti a una continua sorveglianza video svolgono il ruolo di rampa di lancio per l'espulsione di 15 mila stranieri all'anno. Si tratta dell'obiettivo che il governo si è dato come prova evidente della sua politica «realista» volta a tagliare l'erba sotto i piedi all'estrema destra, che tuttavia continua a prosperare (45). In Italia, gli arresti per espulsione nel corso degli ultimi quattro armi sono quintuplicati, raggiungendo nel 1994 quota 57 mila, nonostante tutto indichi una contrazione del fenomeno dell'immigrazione clandestina. Inoltre, come ha implicitamente riconosciuto il governo D'Alema moltiplicando per sei il numero di permessi di soggiorno inizialmente stabilito nel quadro dell'operazione di regolarizzazione lanciata all'inizio dell'inverno del 1998, la stragrande maggioranza degli stranieri in posizione irregolare è entrata in Italia legalmente per svolgere «in nero» i lavori che gli autoctoni rifiutano (46)].

E' noto come le pratiche giuridiche apparentemente più neutre e di routine, a cominciare dalla carcerazione preventiva, tendano sistematicamente a sfavorire le persone di origine straniera o percepite come tali. E la «giustizia a quaranta velocità», per usare una formula coniata dai giovani del sobborgo di Longwy, sa come fare ad accelerare quando di tratta di arrestare e incarcerare gli abitanti delle zone stigmatizzate a forte concentrazione di disoccupati e di famiglie provenienti dall'immigrazione operaia del «glorioso trentennio», solitamente definite «quartieri a rischio». In realtà, per effetto dei dispositivi dei trattati di Schengen e Maastricht, volti ad accelerare l'integrazione giuridica per assicurare la «libera circolazione» dei cittadini comunitari, l'immigrazione è stata ridefinita dalle autorità dei paesi firmatari come problema di sicurezza continentale e, di conseguenza, nazionale, allo stesso livello del crimine organizzato e del terrorismo, ai quali è assimilata dal punto di vista sia dei discorsi sia delle misure amministrative (47). In tal modo, le politiche poliziesche, giudiziarie e penali dei vari paesi europei convergono nell'applicarsi con un diligenza e una severità decisamente particolare agli individui dalla fisionomia non europea, facilmente individuabili e piegabili all'arbitrio poliziesco e giuridico. Il fenomeno assume dimensioni tali che appare lecito parlare di un vero e proprio processo di "criminalizzazione degli immigrati" che tende, per i suoi effetti destrutturanti e criminogeni, a (co)produrre ciò che dovrebbe combattere.
Il processo di cui si diceva è amplificato dai media e da politici di ogni risma, desiderosi di sfruttare i sentimenti xenofobi che percorrono l'Europa a partire dalla svolta neoliberale degli anni ottanta, che in maniera cinica, diretta o sfumata sempre più spesso propongono come scontata l'equazione fra immigrazione, illegalità e criminalità. Continuamente messo alla berlina, sospettato preventivamente se non addirittura per principio, ricacciato ai margini della società e incalzato dalle autorità con uno zelo che non teme confronti, lo straniero (non europeo) si trasforma in un «comodo nemico» - "suitable enemy" secondo l'espressione del criminologo norvegese Nils Christie (48) - allo stesso tempo simbolo e bersaglio di tutte le ansie sociali. Così come lo sono gli afroamericani negli Stati uniti. La prigione e l'etichettamento che essa promuove partecipano quindi attivamente alla produzione di una categoria europea di «sottobianchi», tagliata su misura per giustificare uno scivolamento repressivo nella gestione della miseria, che tuttavia tende a estendere la propria portata per applicarsi all'insieme dei gruppi sociali destabilizzati dalla disoccupazione di massa e dalla precarietà lavorativa, a prescindere dalla loro nazionalità (49.
Da Oslo a Bilbao, da Napoli a Nottingham, passando per Madrid, Marsiglia e Monaco, la percentuale di tossicodipendenti e spacciatori di droga presenti nella popolazione carceraria ha conosciuto una crescita notevole, parallela, pur non raggiungendo le stesse cifre, a quella verificatasi negli Stati uniti. In tutti i paesi europei, le politiche di lotta contro la droga servono da paravento a «una guerra contro le componenti della popolazione percepite allo stesso tempo come le meno utili e le più pericolose»: disoccupati, senzatetto, "sans papiers", mendicanti, vagabondi e altri emarginati (50). In Francia, il numero delle condanne per detenzione o spaccio di droga è passato dalle 4000 del 1984 alle quasi 24 mila del 1994; inoltre la durata delle pene inflitte per tali reati nello stesso lasso di tempo è raddoppiato (in media da nove a venti mesi). Il risultato: la percentuale dei detenuti per questioni legate alla droga è passata dal 14 percento del 1988 (il primo anno in cui è stata calcolata seriamente) al 21 percento di quattro anni dopo (quando per la prima volta supera quella dei condannati per furto). In Italia, Spagna e Portogallo lo stesso tasso sfiora, o forse addirittura supera, il 33 percento, mentre si attesta intorno al 15 percento in Germania, Regno unito e Olanda, paese in cui si è provveduto nell'ultimo decennio a un incremento del parco carcerario allo scopo quasi esclusivo di accogliere i tossicodipendenti (confronta figura 2).

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Figura 2. Percentuale dei condannati per questioni riguardanti gli stupefacenti nell'Unione europea.

Portogallo: 36
Spagna: 32
Francia: 19
Svezia: 19
Inghilterra: 15
Paesi Bassi: 15
Germania: 13
Finlandia: 13

Fonti: Pierre Tournier, "Statistiques pénales annuelles du Conseil de l'Europe, Enquête 1997", Conseil le l'Europe, Strasbourg 1999.
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Anche i paesi scandinavi percorrono la strada della risposta penale al consumo di droga e della conseguente reclusione di consumatori e piccoli spacciatori. In Norvegia, per esempio, il numero di condanne al carcere per violazioni delle leggi sulle sostanze stupefacenti è raddoppiato nel corso degli anni ottanta, giungendo a sfiorare oggi il 30 percento del totale nazionale (il 20 percento nella vicina Svezia). Nello stesso tempo, il volume complessivo di anni di detenzione inflitto per simili reati è cresciuto di quattro volte a causa della particolare severità delle sentenze pronunciate. La stessa presentazione ufficiale delle statistiche penitenziarie nel 1986 è stata modificata per rubricare la proliferazione di pene scontate con fino a quindici anni di reclusione, mentre fino a quel momento in Norvegia si tendeva a non superare il tetto dei tre anni (51).
In Europa, come negli Stati uniti, il sovraffollamento delle carceri conseguente all'estensione del reticolo penale su tutto il continente grava assai pesantemente sul funzionamento dei servizi correzionali e tende a riportare la detenzione alla sua funzione brutale di stockaggio degli indesiderabili. I paesi membri dell'Unione europea hanno sensibilmente incrementato il loro parco penitenziario nel corso degli anni ottanta, ricorrendo inoltre di frequente ad amnistie e grazie collettive (per esempio in Francia in occasione del Bicentenario della Rivoluzione e ogni anno a partire dal 1991, in Belgio per decreto regio ogni due anni) così come a ondate di scarcerazioni anticipate (in Italia, Spagna, Belgio e Portogallo) al fine di limitare la crescita dello stock dei detenuti. Malgrado ciò, con l'eccezione dei paesi scandinavi, dell'Olanda e dell'Austria, i posti mancano un po' ovunque e gli istituti sono quasi sempre sovraffollati, sulla base di tassi che vanno dal 10 percento di Inghilterra e Belgio al 33 percento di Italia, Grecia, Spagna e Portogallo (vedi figura 3).
Le medie nazionali su cui ci siamo soffermati, tuttavia, tendono a minimizzare le presenze carcerarie reali attraverso il ricorso ad alcuni artifici contabili. In Olanda, per esempio, i detenuti in eccedenza vengono riversati nelle stazioni di polizia e non compaiono quindi nelle statistiche dell'amministrazione penitenziaria; in Portogallo, i reclusi affetti da disturbi mentali non vengono considerati come detenuti; in Belgio il conteggio delle celle è quantomeno opinabile. Inoltre, i dati in questione non mostrano le forti disparità nella distribuzione degli effettivi, che fanno sì che la maggioranza dei detenuti sconti la pena in condizioni di sovraffollamento tragiche. Secondo le più recenti statistiche del Consiglio d'Europa, quasi i due terzi dei detenuti in Italia e Portogallo e la metà in Belgio sono rinchiusi in carceri caratterizzate da «condizioni critiche di sovraffollamento» (ossia superiore al 120 percento) (52). In Francia, paese in cui il coefficiente di occupazione degli istituti è ufficialmente del 109 percento, le case circondariali viaggiano intorno al 123 percento, inoltre otto di esse «ospitano» un numero di detenuti doppio rispetto alla loro capacità di accoglienza, per non parlare delle due che sfiorano il triplo. Complessivamente, un quarto dei detenuti francesi è confinato in prigioni in cui il sovraffollamento supera il 150 percento (53).

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Figura 3. Sovraffollamento carcerario nell'Unione europea (1997).
(Numero dei detenuti / posti disponibili).

Portogallo: 136
Grecia: 129
Italia: 127
Spagna: 112
Inghilterra: 109
Francia: 109
Germania: 103
Paesi Bassi: 19
Svezia: 19
Finlandia: 14
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Nel 1993, un rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani, emanazione del Consiglio d'Europa, incaricato di far rispettare l'omonima convenzione europea emanata nel 1989, richiamava severamente la Francia per le inumane condizioni di detenzione del carcere di Baumettes a Marsiglia, dove celle di meno di dieci metri quadrati concepite per ospitare una sola persona ne accoglievano quattro, in violazione delle più elementari norme igieniche. Tutto ciò non è certo privo di legami con l'incremento di un quarto dei tassi di suicidio avvenuto fra 1986 e 1996: un terzo dei carcerati suicidi sono imputati che la fanno finita dopo tre mesi di galera (54).
La stessa condanna colpisce senza appello i centri di detenzione per stranieri come il Dépôt della prefettura di Parigi o le oscure celle sotterranee infestate di scarafaggi, oscillanti fra i trentadue e i cinquanta metri quadrati, in cui viene stipata mediamente una dozzina di immigrati privi di qualsiasi strumento di distrazione e di ogni possibilità di attività all'aria aperta. Le condizioni dei locali dei commissariati e delle gendarmerie adibiti a trattenere i sospetti dopo l'arresto sono ancora peggiori - celle fatiscenti e maleodoranti, con muri trasudanti umidità, biancheria sporca, illuminazione e areazione insufficiente eccetera - visto che il Comitato per la prevenzione della tortura si è sentito in dovere, dopo i dovuti sopralluoghi, di inviare immediatamente, in via eccezionale, le proprie osservazioni alle autorità francesi. Per concludere, va notato come le perizie del Comitato abbiano evidenziato il fatto che in diversi paesi, Austria, Portogallo, Francia, Belgio e Grecia per esempio, il maltrattamento degli arrestati a opera della polizia sia spesso scontato: insulti, calci, pugni, schiaffi, privazione di cibo o di farmaci e pressioni psicologiche, il tutto ovviamente di preferenza indirizzato sugli obiettivi privilegiati dell'apparato penale europeo, ossia gli stranieri (o gli assimilati) e i giovani (delle classi inferiori) (55).



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