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Dei dolori e delle pene IL MONDO DELL'INTERNATO.


1.
Quando l'internato entra nell'istituzione, abitualmente presenta (per parafrasare un'espressione psichiatrica) la cultura del proprio ambiente familiare, un tipo di vita ed un insieme di attività presi per garantiti fino al momento della sua ammissione nell'istituto. E' quindi il caso di escludere dalla lista delle istituzioni totali gli orfanotrofi e gli istituti per trovatelli, se si eccettua il fatto che l'orfano viene socializzato nel mondo esterno per mezzo di processi di osmosi culturale, pur continuando questo mondo a negarlo sistematicamente. Qualunque sia il livello di stabilità nell'organizzazione personale della recluta, essa fa sempre parte del sistema più vasto nel quale il suo ambiente civile è inglobato: un insieme cioè di esperienze che conferma un concetto di sé tollerabile e consente una serie di manovre difensive, esercitate a propria discrezione, per far fronte a conflitti, accuse screditanti e fallimenti.
E' chiaro dunque che le istituzioni totali non sostituiscono la loro cultura univoca a qualche cosa di già formato; qui si ha a che fare con qualcosa di più limitato del processo di acculturazione o di assimilazione. Se avviene un cambiamento culturale. esso è legato - probabilmente - alla rimozione di certe possibilità di comportamento e al mancato tenersi al passo con gli ultimi mutamenti sociali che avvengono nel mondo esterno. Cosi, qualora la permanenza dell'internato si protragga, si potrebbe assistere a ciò che viene definito come un processo di «disculturazione» (10), vale a dire ad una mancanza di «allenamento» che lo rende incapace - temporaneamente - di maneggiare alcune situazioni tipiche della vita quotidiana del mondo esterno, se e quando egli vi faccia ritorno.
Per l'internato il significato dell'essere «dentro» o «all'interno» non esiste se non nella accezione particolare che assume per lui il riuscire ad «andar fuori» o uscire nel «mondo esterno». In questo senso, le istituzioni totali non tendono ad una sopraffazione culturale. Esse si limitano a creare e sostenere un tipo particolare di tensione fra il mondo familiare e quello istituzionale, che usano come leva strategica nel manipolamento degli uomini.

2.
La recluta entra nell'istituzione con un concetto di sé, reso possibile dall'insieme dei solidi ordinamenti sociali su cui fonda il suo mondo familiare. Ma, non appena entrata, viene immediatamente privata del sostegno che un tal tipo di ordinamenti gli offriva. Secondo il linguaggio preciso di alcune delle nostre più vecchie istituzioni totali, la recluta è sottoposta ad una serie di umiliazioni, degradazioni e profanazioni del sé che viene sistematicamente, anche se spesso non intenzionalmente, mortificato. Hanno inizio così alcuni cambiamenti radicali nella sua "carriera morale", carriera determinata dal progressivo mutare del tipo di credenze che l'individuo ha su di sé e su coloro che gli sono vicini.
I processi attraverso i quali il "sé" di una persona viene mortificato sono alquanto standardizzati nelle istituzioni totali (11); l'analisi di questi processi può aiutarci a vedere il tipo di ordinamenti che una comune istituzione deve garantire ai suoi membri, se intende mantenerne il sé civile.
La prima riduzione del "sé" viene segnata dalla barriera che le istituzioni totali erigono fra l'internato e il mondo esterno. Nella vita civile lo schema del susseguirsi dei ruoli di un individuo - sia nell'intero ciclo di vita che nello svolgersi delle attività quotidiane - gli assicura che nessun ruolo da lui giocato ostacolerà il suo agire e i suoi rapporti con un altro ruolo. Nelle istituzioni totali, invece, il fatto di farne parte rompe automaticamente lo schema dei ruoli, dato che la separazione dal mondo esterno perdura e può continuare per anni. E' per questo che avviene la spoliazione dei ruoli. In molte istituzioni totali il privilegio di ricevere visite o di uscire dall'istituto per andare a trovare qualcuno, è all'inizio totalmente negato, il che produce nella nuova recluta una prima profonda frattura con i propri ruoli passati, con conseguente percezione di spoliazione dei ruoli. Un rapporto sulla vita dei cadetti di un'accademia militare ce ne dà un esempio:

"Questo taglio netto con il passato deve essere attuato in un periodo relativamente breve. Per due mesi il nuovo arruolato non ha il permesso di lasciare la base o di stabilire rapporti con i non cadetti. Questo isolamento completo aiuta a creare un gruppo unito di nuovi arruolati e non un insieme eterogeneo di persone di condizioni diverse. Le uniformi sono consegnate il primo giorno e i riferimenti alla ricchezza e all'ambiente familiare sono proibiti. Sebbene la paga del cadetto sia molto bassa, non gli è permesso ricevere soldi da casa. Il ruolo del cadetto deve sostituire ogni altro ruolo giocato in precedenza; poche tracce riveleranno la sua condizione sociale nel mondo esterno" (12).

Potrei aggiungere che quando l'ingresso è volontario, la recluta si è già parzialmente ritirata dal mondo familiare; ciò che viene chiaramente proibito dall'istituzione, aveva già incominciato a perdere il suo significato.
Quantunque alcuni ruoli possano essere ricostruiti dall'internato se e quando egli faccia ritorno al mondo, è chiaro che altre perdite risultano irreversibili e come tali possono venire dolorosamente esperite. Può non essere possibile rifarsi - ad una fase più tarda della vita - del tempo che non si è potuto spendere nel coltivarsi, nel far carriera, nel far la corte a qualcuno, nell'educare i propri figli. Un aspetto legale di questa spoliazione permanente è evidente nel concetto di «morte civile»: i detenuti possono trovarsi non soltanto a perdere i diritti sul denaro lasciato loro in testamento, o possibilità di firmare assegni, di contestare divorzi o pratiche di adozione, o di votare; ma parte di questi diritti possono venir loro definitivamente abrogati (13).
L'internato si trova dunque a perdere alcuni ruoli a causa della barriera che lo separa dal mondo esterno. Il processo d'"ammissione" porta generalmente altri tipi di perdite e di mortificazioni. Molto spesso si trova il personale degli istituti occupato in quelle che sono definite le procedure d'ammissione: «fare la storia, fotografare, pesare, prendere le impronte, assegnare numeri, indagare, fare la lista di ciò che la recluta possiede per depositarlo, spogliare, lavare, disinfettare, tagliare i capelli, consegnare i vestiti all'istituto, istruendo il nuovo entrato sulle regole della comunità e assegnandogli l'alloggio» (14). Le procedure di ammissione potrebbero meglio essere definite come un'azione di «smussamento» o una «programmazione» dato che in seguito ad un tale procedimento, il nuovo arrivato si lascia plasmare e codificare in un oggetto che può essere dato in pasto al meccanismo amministrativo dell'istituzione, per essere lavorato e smussato dalle azioni di routine. Molte di queste procedure si basano su attributi come il peso e le impronte digitali che l'individuo possiede, semplicemente per il fatto di essere membro della più grande e più astratta delle categorie sociali: quella degli esseri umani. L'azione intrapresa sulla base di questi attributi ignora, inevitabilmente, la maggior parte dei fondamenti su cui si basa l'identificazione del "sé".
Dato che l'istituzione totale ha a che fare con un numero così grande di aspetti relativi alla vita degli internati - con il loro conseguente complesso smussamento al momento dell'ammissione - occorre ottenere una certa attitudine collaborativa da parte della recluta. Lo staff ritiene, spesso, che la prontezza con cui la recluta mostra un atteggiamento appropriatamente deferente nei suoi confronti alle prime occasioni d'incontro, significa che è disposta a giocare il ruolo del ricoverato facilmente adattabile alla situazione. L'occasione nella quale i membri dello staff chiariscono all'internato il suo obbligo al rispetto e alla deferenza, può rivelarsi nello sfidarlo a scegliere fra perdere o mantenere la pace per sempre. E' così che queste prime occasioni di socializzazione potrebbero comportare una sorta di «test di obbedienza» e perfino una lotta il cui scopo è fiaccare la volontà: un internato che si rivela provocatorio riceve immediatamente un'evidente punizione che andrà aumentando fino a quando non si arrenderà apertamente, umiliandosi.
Un esempio interessante è dato da Brendan Behan a proposito della sua contesa con due guardiani, al momento del suo ingresso nella prigione di Walton:

"«E tieni su la testa quando ti parlo».
«Tieni su la testa quando il signor Whitbread ti parla», disse il signor Holmes. Guardai verso Charlie. I suoi occhi incontrarono i miei e subito li abbassò verso terra.
«Che cosa stai guardando, Behan? Guardami».
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Guardai il signor Whitbread. «La sto guardando», dissi. «Stai guardando il signor Whitbread - e allora?» disse il signor Holmes.
«Sto guardando il signor Whitbread».
Il signor Holmes guardò gravemente Whitbread, tirò fuori la mano aperta e mi colpì sulla faccia, mi prese con l'altra mano e mi colpì di nuovo.
La testa mi girava, mi bruciava, mi faceva male e mi domandavo se l'avrebbe fatto ancora. Non ricordavo più nulla e sentii un altro schiaffo, ancora nulla e un altro schiaffo. Mi mossi, ma fui trattenuto da una mano ferma e quasi gentile - e un altro schiaffo - e davanti ai miei occhi c'era rosso e bianco e lampi di luce colorata.
«Stai guardando il signor Whitbread, vero, Behan?»
Inghiottii, raccolsi la voce e provai ancora finché riuscii a tirarla fuori. «Signore, la prego signore, sto guardandola, - dico, - io sto guardando il signor Whitbread»" (15).

La procedura d'ammissione e i tests d'obbedienza possono essere elaborati in una forma di iniziazione detta il «benvenuto», dove staff, internati, o entrambi, escono dalla loro posizione abituale per offrire alla recluta una chiara nozione della sua situazione (16). In qualità di partecipante a questo rito d'iniziazione, il nuovo entrato può essere chiamato con nomignoli come «pesce» o «novellino», che lo informano di essere solo un internato e - ciò che più conta - che la sua condizione è particolarmente spregevole, anche in questo contesto, già di per sé spregevole.
La procedura d'ammissione può essere definita come una sorta di perdita e di acquisto, dove il punto centrale sia fissato sulla nudità fisica. La perdita implica naturalmente una spoliazione di ciò che si possiede - importante nella misura in cui le persone investono un sentimento del sé in ciò che posseggono. Forse il più significativo di questi possessi è qualcosa che non è affatto fisico: si tratta del proprio nome; in qualunque modo si venga poi chiamati, la perdita del proprio nome può significare una notevole riduzione del "sé" (17).
Una volta che l'internato sia spogliato di ciò che possiede, l'istituzione deve provvederne un rimpiazzamento, che tuttavia consiste in oggetti standardizzati, uniformi nel carattere ed uniformemente distribuiti. Questo tipo di beni sostitutivi è chiaramente indicato come appartenente all'istituzione e, in alcuni casi, essi vengono ritirati - ad intervalli regolari - per essere "disinfettati" della possibilità di venire identificati come beni personali. Nel caso di oggetti che si consumano - ad esempio matite - può venire richiesto all'internato di consegnare ciò che resta della prima per poterne ottenere una seconda (18). Il fatto che non forniscano agli internati armadietti personali e che essi siano soggetti a periodiche perquisizioni e confische delle eventuali proprietà personali accumulate (19) rinforza il sentimento di spoliazione. Gli ordini religiosi hanno ben individuate le implicazioni per il "sé" presenti nell'imposizione della rinuncia ad ogni proprietà. I monaci sono costretti a cambiare cella ogni anno, cosi da non legarsi ad essa. La regola benedettina è in questo senso esplicita:

"Per dormire bastano un materasso, una coperta, un copriletto e un cuscino. I letti devono essere frequentemente ispezionati dall'abate, in vista di proprietà private che potrebbero esservi rinvenute. Se si scopre qualcuno in possesso di oggetti che non gli sono stati dati dall'abate, sia severamente punito. E perché questo vizio della proprietà privata possa essere completamente sradicato, l'abate fornisca tutto ciò che è necessario: tonaca, tunica, calze, scarpe, coltello, penna, ago, fazzoletto e medicine, così che ogni bisogno venga soddisfatto. E che l'abate ricordi sempre quel passo degli Atti degli Apostoli: «Fu distribuito a ciascuno secondo i propri bisogni»" (20).

L'insieme delle proprietà personali ha un particolare rapporto con il "sé". L'individuo ritiene, di solito, di esercitare un controllo sul modo in cui appare agli occhi degli altri. Per questo ha bisogno di cosmetici, vestiti, e di strumenti per adattarli, aggiustarli e renderli più belli; di un luogo accessibile, sicuro, dove poter conservare queste scorte e gli strumenti di lavoro - in breve, l'uomo ha bisogno di un "corredo per la propria identità" per mezzo del quale poter manipolare la propria facciata personale. Avrà inoltre bisogno di ricorrere a specialisti del caso, come barbieri e sarti.
Ma, al momento dell'ammissione nelle istituzioni totali, l'individuo viene privato del suo aspetto abituale e del corredo e degli strumenti con cui conservarlo, soffrendo così di una mutilazione personale. Abiti, pettini, ago e filo, cosmetici, asciugamani, sapone, rasoi da barba, servizi da bagno - tutto ciò può essergli tolto e rifiutato, anche se alcuni di questi oggetti saranno conservati in un ripostiglio inaccessibile, per essergli restituiti, se e quando lascerà l'istituto. La regola di san Benedetto dice:

"Subito, nell'oratorio, egli sarà spogliato degli abiti di cui è ricoperto, e rivestito con quelli del monastero. I suoi abiti saranno custoditi nel guardaroba cosicché - nel caso sia convinto dal diavolo ad abbandonare il monastero (il che è proibito da Dio) - sarà spogliato dell'abito monacale e cacciato fuori" (21).

Come ho già accennato, quello che l'istituzione offre in cambio di ciò di cui la recluta viene privata, è abitualmente di un genere molto grossolano, mal fatto, vecchio, e identico per un gran numero di internati. Lo shock di questa sostituzione è descritto in un rapporto da una prigione per prostitute:

"Per prima cosa l'addetto alle docce le costringe a spogliarsi, porta via i loro vestiti, le obbliga a fare la doccia e consegna le uniformi del carcere - un paio di scarpe nere senza tacchi, due paia di calzini rammendati, tre vestiti di cotone, due sottovesti di cotone, due paia di mutande e un paio di reggiseni. I reggiseni sono praticamente piatti e del tutto inutili. Non sono consegnati né busti né cinture.
Non c'è niente di più triste che vedere alcune di queste grasse detenute che - quand'erano «fuori» - riuscivano, se non altro, ad apparire decenti, quando si trovano, per la prima volta, a guardarsi infagottate negli abiti della prigione" (22).

In aggiunta alla mutilazione personale che deriva dall'essere privati del "corredo per la propria identità", vi può essere la deturpazione fisica dovuta ad una mutilazione reale nel corpo, come nel caso di marchi a fuoco o di amputazione di arti. Sebbene questa mortificazione corporea del sé sia riscontrabile in poche istituzioni totali, la perdita del senso di sicurezza personale è tuttavia molto comune, ed è la base di uno stato di ansietà circa la propria integrità fisica. Le punizioni, la terapia di shock, o, negli ospedali psichiatrici, un'operazione chirurgica - qualunque sia il motivo per cui lo staff ritiene necessario tale intervento - possono dare l'impressione ai ricoverati di trovarsi in un ambiente che non garantisce la loro integrità fisica.
Al momento dell'ammissione, la perdita di ciò che è la propria identità, può impedire all'individuo di presentare agli altri la sua usuale immagine di "sé". Dopo l'ammissione l'immagine di sé che egli propone viene "attaccata" in altro modo. Dato il linguaggio espressivo di una particolare società civile, alcune espressioni, atteggiamenti o gesti comportano, come conseguenza, un'immagine sgradevole dell'individuo, così che sarà evitato come persona degna di poca considerazione. Ogni regola, imposizione o ordine che spinga l'individuo ad adottare queste espressioni o questi atteggiamenti, può mortificare il suo sé. Nelle istituzioni totali sono numerosissime simili costrizioni di carattere fisico. Negli ospedali psichiatrici, per esempio, i pazienti possono essere costretti a mangiare solo con il cucchiaio (23). Nelle carceri militari i detenuti sono obbligati a mettersi sull'attenti ogni qualvolta un ufficiale entra nella prigione (24). Nelle istituzioni religiose ci sono alcuni gesti di penitenza come il baciare i piedi (25) e la posizione obbligatoria per un monaco colpevole che deve

"... portarsi sulla porta dell'oratorio in silenzio, gettandosi col volto a terra ed il corpo piegato, ai piedi di tutti coloro che escono dall'oratorio" (26).

In alcune case penali si trova l'umiliazione del piegarsi in avanti per ricevere le vergate di punizione (27).
Così come può essere richiesto di mettersi in posizioni umilianti, possono venire imposte reazioni verbali altrettanto umilianti. Ne è un esempio il tipo di deferenza e di rispetto che si esige nelle istituzioni totali; gli internati sono spesso obbligati a definire il tipo di rapporto sociale che li lega allo staff con espressioni di deferenza, come quella del rivolgersi loro chiamandoli «signore». Altro esempio è il dover implorare, importunare o domandare umilmente per poter ottenere piccole cose, come accendere una sigaretta, un bicchiere d'acqua o il permesso di usare il telefono. In corrispondenza alle umiliazioni verbali o alle imposizioni di atteggiamenti particolari fatte all'internato, vi sono anche umiliazioni prodotte dal modo in cui gli altri lo trattano. Gli esempi classici sono espressioni verbali o gesti di dispregio: lo staff o i compagni chiamano l'internato con nomi osceni, lo maledicono, mettono a fuoco i suoi lati negativi, lo prendono in giro, parlano di lui o di qualche amico come se non fosse presente alla conversazione.
Qualunque sia la forma o l'origine di questi diversi tipi di umiliazione, l'individuo deve sempre impegnarsi in attività le cui implicazioni simboliche sono incompatibili con il concetto che egli ha di se stesso. Un esempio più frequente di questo tipo di mortificazione, lo si vede quando viene imposto all'individuo un ciclo di vita giornaliera che egli considera estraneo - ciò per poter fargli assumere un ruolo in cui non abbia ad identificarsi. Nelle prigioni, l'impossibilità di aver rapporti eterosessuali può indurre la paura di perdere la propria mascolinità (28). Nelle istituzioni militari il lavoro apertamente senza senso che i soldati sono costretti a fare con enormi fatiche, può far sentire che il loro tempo e i loro sforzi sono del tutto privi di valore (29). Nelle istituzioni religiose vi sono regole particolari tendenti a garantire che tutti gli internati assolvano, a turno le mansioni più servili del loro ruolo di servi (30). Un caso limite è l'abitudine - tipica dei campi di concentramento - di richiedere ai prigionieri stessi di occuparsi delle frustate da dare agli altri prigionieri (31).
Esiste inoltre un'altra forma di mortificazione nelle istituzionI totali: una sorta di «esposizione contaminante» che incomincia al momento dell'ammissione. Nel mondo esterno l'individuo può contare su oggetti che gli dànno un sentimento di sé - il suo corpo, le sue azioni immediate, i suoi pensieri, ciò che possiede - il tutto libero da contatti con elementi estranei e contaminanti. Ma nelle istituzioni totali questi territori appartenenti al "sé" sono violati, la frontiera che l'individuo edifica fra ciò che è e ciò che lo circonda è invasa e la incorporazione del "sé" profanata.
Per prima la violazione della difesa del proprio mondo privato. Al momento dell'ammissione sono raccolti e trascritti in un dossier accessibile allo staff, i riferimenti alla condizione sociale dell'internato, al suo comportamento passato e in particolare i fatti più screditanti. Successivamente, nella misura in cui la esplicita finalità dell'istituzione consiste nell'alterare le tendenze alla propria determinazione personale dell'internato, vi possono essere confessioni di gruppo o individuali - di carattere psichiatrico, politico, militare o religioso a seconda della natura dell'istituzione. In queste occasioni l'internato è costretto ad esporre fatti e sentimenti relativi al sé ad un pubblico che gli è estraneo. Gli esempi più clamorosi di queste costrizioni ad «esporsi» vengono forniti dai campi di confessione comunisti e dalle riunioni con denunce di colpa nelle istituzioni religiose cattoliche (32). Le dinamiche di questi processi sono state esplicitamente considerate da coloro che lavorano nella cosiddetta «socioterapia d'ambiente».
Un pubblico in un certo senso estraneo, non soltanto viene a conoscenza di fatti che abitualmente si tende a nascondere, ma si trova nella possibilità di percepirli direttamente. I detenuti e i malati mentali non possono impedire che i loro visitatori li colgano in circostanze umilianti (33). Un altro esempio è la targhetta per l'identificazione del luogo di provenienza, applicata sulle spalle dei prigionieri nei campi di concentramento (34). Durante le visite mediche e di controllo l'internato è spesso obbligato a denudarsi, talvolta di fronte a persone di entrambi i sessi; un'umiliazione simile viene imposta quando si è costretti a dormire in dormitori collettivi o a servirsi di gabinetti senza porte (35). Forse un caso limite può essere quello del malato mentale autodistruttivo che viene completamente denudato, in vista di ciò che è ritenuto il suo «bene», e rinchiuso in una cella con la luce costantemente accesa, dove chiunque passi nel reparto può spiarlo attraverso la grata. Naturalmente l'internato non è mai, in genere, completamente solo; è sempre a portata d'occhio o di orecchio di qualcuno, anche se si tratta soltanto di un altro ricoverato (36). Le celle in uso nelle carceri, con sbarre al posto del muro, sono un perfetto esempio di questo genere di esposizione.
Forse il tipo più ovvio di questo esporsi contaminante è di natura fisica - la contaminazione e la violazione del proprio corpo o di qualcosa di strettamente identificabile con il sé. A volte ciò implica una rottura degli ordinamenti che servono abitualmente a distanziare la fonte della propria contaminazione, così come il dover vuotare i propri bisogni (37) o dover subordinare la propria evacuazione ad un orario stabilito, come per esempio nelle carceri politiche cinesi.

"Un aspetto del regime di isolamento particolarmente penoso per i prigionieri occidentali, è tutto ciò che riguarda l'eliminazione di urina e feci. Il «vaso» che c'è sempre nelle celle russe, spesso non c'è in quelle cinesi. E' usanza cinese permettere la defecazione e l'urinazione soltanto una o due volte al giorno - abitualmente al mattino, dopo colazione. Il detenuto è spinto fuori dalla cella da un guardiano e costretto ad accelerare i tempi nel lungo corridoio; gli vengono dati approssimativamente due minuti per accovacciarsi e fare i suoi bisogni, su una latrina cinese aperta. La fretta e il fatto di essere esposte agli occhi di tutti rendono la cosa particolarmente difficile alle donne. Se i prigionieri non riescono a finire nei due minuti concessi, sono brutalmente trascinati via e respinti nelle loro celle" (38).

Una forma molto diffusa di contaminazione fisica è evidente nei reclami su cibo sporco, alloggiamenti disordinati, asciugamani sudici, scarpe e vestiti impregnati del sudore di chi li ha usati in precedenza, gabinetti senza sedili, bagni sporchi (39). I commenti di Orwell sul suo collegio ne possono dare un esempio:

"Le fondine di stagno in cui si mangiava il porridge, avevano i bordi sporgenti, sotto i quali i residui di porridge acido potevano venire sfaldati in lunghe strisce compatte. Il porridge stesso conteneva una tale quantità di grumi, capelli, cose nere indefinibili da non potersi immaginare, ammenocché qualcuno non si occupasse di metterli intenzionalmente. Non era mai il caso di incominciare a mangiare prima di aver fatto un'investigazione preventiva. Poi c'era l'acqua limacciosa della vasca - era lunga circa 12 o 15 piedi, ogni mattina tutta la scuola sarebbe dovuta entrarci ed io dubito che l'acqua fosse cambiata spesso - e gli asciugamani sempre umidi, con il loro odore di formaggio... E l'odore di sudore dello spogliatoio con i lavandini unti e - di fronte - la fila di gabinetti decrepiti che non avevano chiavistelli o chiusure di alcun genere, così quando te ne stavi lì seduto, eri certo che qualcuno si sarebbe precipitato dentro. Non è facile per me pensare al periodo della scuola senza avere l'impressione di respirare un'aria fredda e maleodorante - una mescolanza di calze sudice, asciugamani sporchi, tanfo da gabinetto lungo i corridoi, forchette con il cibo vecchio rimasto fra i denti, arrosto di collo di montone, porte di gabinetti che sbattono e il rumore dei vasi da notte nei dormitori" (40).

Vi sono ancora altre fonti di contaminazione fisica, come ci viene suggerito dalla descrizione di un ospedale in un campo di concentramento:

"Eravamo in due in ogni letto. Il che era veramente orribile. Per esempio, se qualcuno moriva non si poteva smuoverlo prima che fossero passate ventiquattr'ore perché il «capo» voleva ottenere la sua razione di pane e la minestra. Per questa ragione si comunicava ventiquattr'ore dopo la morte di un compagno, in modo che la sua razione potesse venir prima distribuita. Così si doveva dormire nello stesso letto con un morto per tutto quel tempo" (41).

"Noi eravamo sulla fila di mezzo. La cosa era veramente macabra, specialmente la notte. Prima di tutto, gli uomini morti erano terribilmente emaciati e orribili. In molti casi si sporcavano al momento della morte e non si trattava certo di una cosa estetica. Ho visto di frequente casi del genere nel Lager, nelle baracche dei malati. Gente che moriva di flemmoni, piaghe in suppurazione, con i letti inondati di pus, doveva dividere il letto con qualcuno la cui malattia poteva avere un esito più favorevole o che aveva una piccola piaga che si sarebbe ora infettata" (42).

La contaminazione relativa al dover giacere vicino ai moribondi è stata citata in rapporti presentati dagli ospedali psichiatrici (43), mentre la contaminazione chirurgica è stata riferita nei documenti delle prigioni:

"Gli strumenti chirurgici e le garze sono esposte all'aria e alla polvere nello spogliatoio. George aspettava gli fosse tolto - da un inserviente - un foruncolo sul collo; gli fu inciso con un bisturi che era stato usato un momento prima per il piede di un uomo, e non era stato sterilizzato dopo l'uso" (44).

Infine, in alcune istituzioni totali, l'internato è obbligato, che lo voglia o no, a prendere medicine, a fare iniezioni endovenose e a mangiare anche se il cibo è immangiabile. Se qualcuno rifiuta il pasto, può venirgli praticata una violenta contaminazione fisica per mezzo della «sonda».
Ho detto che l'internato è soggetto ad una mortificazione del "sé" prodotta da un'esposizione contaminante di carattere fisico, ma questo concetto deve essere ampliato: quando chi produce la contaminazione è un essere umano, l'internato è contaminato in sovrappiù da un contatto intenzionale imposto e, di conseguenza, da un rapporto sociale forzato. (Nello stesso modo, quando l'internato perde il controllo su chi sta esaminando la sua situazione o viene a conoscenza del suo passato, è contaminato da un tipo di rapporto forzato, dato che esso implica la percezione e la conoscenza dei suoi fatti privati).
Si presume che il modello delle contaminazioni interpersonali nella nostra società sia violento: benché casi di aggressione sessuale siano frequenti nelle istituzioni totali, vi sono molti altri esempi meno drammatici. Dopo l'ammissione, i propri beni personali vengono manipolati e palpati da un addetto, come se stesse facendone l'inventario per immagazzinarli. Lo stesso internato può venire frugato e perquisito fino al punto di praticargli - così come viene riportato nella letteratura - un'ispezione rettale (45).
Più tardi, durante il suo soggiorno, possono venirgli imposte perquisizioni personali o del proprio letto, sia come regola di routine che in occasione di incidenti particolari. In questi casi è colui che perquisisce, così come la perquisizione stessa, che penetra nelle riserve private dell'individuo e viola i territori del "sé". Perfino le ispezioni di routine possono avere un effetto analogo, secondo quanto suggerisce Lawrence:

"Nei tempi passati i soldati dovevano - settimanalmente - togliersi stivali e calze per sottoporre i piedi all'ispezione dell'ufficiale. Ti prendevano a calci sulla bocca se ti chinavi a guardare. Per il turno del bagno, un certificato del tuo sottufficiale testimoniava che lo avevi fatto durante la settimana. Un bagno! E le ispezioni del sacco, le ispezioni della stanza, le ispezioni dell'equipaggiamento, tutte scuse buone agli ufficiali per nascondere la loro stupidità sotto la maschera della rigidità, e ai pignoli per abbrutirsi. Oh, occorrerebbe il tatto più discreto per comandare un povero uomo senza offenderlo" (46).

Inoltre, l'abitudine di mescolare nelle prigioni e negli ospedali psichiatrici gruppi di età, provenienza etnica e razziale diversi, può far sentire all'ìnternato di essere contaminato dal contatto con compagni indesiderabili. Un prigioniero - educato in una scuola privata - descrivendo il suo ingresso in prigione, ce ne dà un esempio:

"Un altro guardiano venne avanti con un paio di manette e, mi legò ad un piccolo ebreo, che continuava a lamentarsi sottovoce in yiddish..." (47).

"All'improvviso mi venne il pensiero che forse avrei dovuto dividere la cella con quel piccolo ebreo e fui preso dal panico. Quel pensiero mi ossessionò in modo tale da escludere dalla mente ogni altro" (48).

La vita di gruppo richiede, ovviamente, un rapporto reciproco ed un reciproco esporsi fra gli internati. Nel caso limite delle celle per i prigionieri politici cinesi questo rapporto può essere estremamente ravvicinato.

"Durante il periodo di detenzione, il carcerato può finire in una cella con più di otto prigionieri. Se all'inizio era stato isolato e interrogato, questo trasferimento potrebbe avvenire subito dopo la prima «confessione», ma molti detenuti sono messi in cella con gruppi di altri prigionieri, fin dal momento del loro ingresso. Le celle sono abitualmente spoglie, e grandi da poter a mala pena contenere il gruppo di persone che vi è rinchiuso. Vi può essere un posto per dormire, ma normalmente i detenuti dormono per terra, e quando sono tutti distesi, ogni centimetro di pavimento risulta occupato. L'atmosfera è terribilmente promiscua. Non esiste uno spazio personale" (49).

Lawrence ce ne offre un esempio di carattere militare, illustrando le difficoltà da lui incontrate nel legare con i compagni aviatori, con cui viveva nelle baracche:

"Vede, io non posso partecipare ai giochi degli altri: una timidezza innata mi impedisce di condividere il loro cameratismo da... quel loro continuo fare scherzi, dare pizzicotti, prender roba a prestito, parlar sporco: ciò, nonostante la mia simpatia per la spontaneità di espressione che li caratterizza. Nei nostri alloggi affollati, siamo inevitabilmente costretti a spartire anche quei piccoli pudori fisici che, nel mondo civile, si tende a tenere in ombra. L'ingenuo si vanta della propria attività sessuale, e ogni anomalia dell'appetito o di un organo viene stranamente ostentata. Le autorità incoraggiano questo modo di agire. Tutte le latrine hanno perso le porte. «Falli..., dormire e... mangiare in compagnia, - sogghignò il vecchio Jack Mackay, il più anziano degli istruttori, - e ce li troveremo addestrati insieme, in modo del tutto naturale»" (50).

Un esempio tipico di questo rapporto contaminante è il modo di rivolgersi agli internati. Lo staff e gli altri internati si assumono, automaticamente, il diritto di trattare intimamente, o comunque, senza la minima formalità, il nuovo internato; ad un borghese ciò inibisce il diritto di distanziarsi dagli altri, per mezzo di un tipo di rapporto formale (51). Quando qualcuno è costretto a mangiare del cibo che ritiene ripugnante e sporco, la contaminazione deriva talvolta dalla connessione che egli scopre fra il cibo e alcune persone; il che viene molto ben dimostrato dalla penitenza della «minestra mendicata», praticata in alcuni conventi:

"Posò la ciotola alla sinistra della Madre Superiora, s'inginocchiò, giunse le mani e attese finché le furono versati nella ciotola da mendicante due cucchiai di minestra, poi passò alla suora più vicina in ordine di età, poi alla successiva, finché la ciotola si riempì... Quando, alla fine, la ciotola fu colma, ritornò al suo posto e inghiottì la minestra - come sapeva di dover fare - giù fino all'ultima goccia; cercando di non pensare al modo in cui le era stata versata da una dozzina di altre ciotole, nelle quali altre persone avevano già mangiato" (52).

Un altro tipo di esposizione contaminante è il fatto che un estraneo venga a trovarsi in contatto con ciò che lega un individuo ad altri, a lui strettamente vicini. Ad esempio, può succedere che ad un internato si legga e si censuri la posta, e persino che lo si prenda in giro al proposito (53). Un altro esempio è il carattere forzatamente pubblico delle visite, così come lo si rileva da alcuni rapporti carcerari:

"Ma che tipo di organizzazione sadica hanno per queste visite! Un'ora al mese - o due mezze ore - in una grande stanza con una ventina di altre coppie, i guardiani che vanno su e giù per assicurarsi che non ci si scambi piani, o arnesi di fuga. Ci si incontrava da un capo all'altro di una tavola larga sei piedi, al centro della quale correva una specie di ringhiera alta sei pollici in grado di impedire che anche i nostri germi comunicassero fra di loro. Ci veniva concessa un'igienica stretta di mano all'inizio della visita e una alla fine; per il resto del tempo potevamo solo sedere e guardarci mentre urlavamo l'un l'altro al di là dell'enorme distanza che ci separava" (54).

"Le visite hanno luogo in una stanza presso l'entrata principale. C'è una tavola di legno, ad un lato della quale siede il detenuto, all'altro il visitatore. Il guardiano siede a capotavola e ascolta ogni parola pronunciata, vede ogni gesto ed ogni sfumatura nell'espressione. Il mondo privato è assolutamente inesistente e ciò anche quando un uomo incontra la moglie, che forse non vede da anni. Nessun contatto è concesso fra il detenuto e il visitatore e, ovviamente, nessun oggetto può passare da una mano all'altra" (55).

Una versione, ancora più penetrante, di questo tipo di esposizione contaminante» si verifica - come ho già detto - nel caso di confessioni istituzionalmente organizzate. Quando una persona che ci è cara viene denunciata (ciò soprattutto nel caso la persona sia fisicamente presente al momento della denuncia), il confessare ad estranei il rapporto che ci lega ad essa, può significare un'intensa contaminazione del rapporto stesso, e per suo tramite del "sé".
La descrizione di ciò che accade in un convento di suore ce ne dà un esempio:

"Le più coraggiose fra quelle emotivamente vulnerabili, erano due sorelle che non esitavano ad incolparsi, accusandosi di essere state troppo vicine l'una all'altra, o di aver parlato fra loro durante la ricreazione, escludendo le altre compagne. Il fatto di aver riconosciuto la tormentata e chiaramente esplicita affinità che le univa, aveva dato il "colpo di grazia" che da sole non sarebbero state in grado di dare; l'intera comunità, infatti, si sarebbe incaricata da quel momento a far sì che l'una fosse tenuta lontana dall'altra. La coppia sarebbe stata così aiutata a staccarsi da uno di quegli affetti personali spontanei che spesso, all'interno di una comunità, crescono inaspettati come i fiori selvaggi che, di tanto in tanto, spuntano nelle aiuole, rigidamente disegnate a forma geometrica, dei giardini dei chiostri" (56).

Un esempio analogo può essere riscontrato negli ospedali psichiatrici imperniati su un'intensa terapia d'ambiente, dove coppie di pazienti legati da un rapporto affettivo, devono discuterlo nelle riunioni di gruppo. Nelle istituzioni totali, il dover esporre i legami che ci uniscono a qualcuno può verificarsi in forme ancor più drastiche, dato che vi possono essere occasioni nelle quali si è testimoni di una aggressione fisica, fatta ai danni di un amico, e si è costretti a continuare a soffrire la mortificazione di non averne preso le difese (essendo contemporaneamente contenti di non averlo fatto). E' ciò che si apprende da un ospedale psichiatrico:

"Questa conoscenza [della terapia di shock] è basata sul fatto che alcuni internati del reparto n. 30 assistevano i medici, che praticavano lo shock ai pazienti, tenendoli fermi, aiutandoli a legarli ai letti o sorvegliandoli dopo che si erano acquietati. Lo shock è spesso praticato nel reparto, sotto gli occhi di spettatori interessati. Le convulsioni del paziente somigliano sovente all'agonia della vittima di un incidente e sono accompagnate da sospiri soffocati, talvolta da uno sbocco schiumoso di saliva alla bocca. Il paziente a poco a poco si riprende, senza ricordare nulla dell'accaduto, ma intanto ha offerto agli altri una rappresentazione paurosa di ciò che può facilmente capitare anche a loro" (57).

Un racconto di Melville sulla fustigazìone, a bordo di una nave da guerra dell'Ottocento, ce ne dà un altro esempio:

"Per quanto si desideri non assistere alla scena, si è obbligati a guardare, o comunque ad essere nei paraggi; il regolamento impone infatti la presenza di tutto l'equipaggio, dal capitano al più piccolo dei mozzi che suona la campana" (58).

L'inevitabilità della propria presenza allo spettacolo; il braccio che ti trascina di forza in vista della sferza e ti tiene lì, finché tutto è finito: e costringe i tuoi occhi disgustati e la tua anima davanti alle sofferenze e ai lamenti di uomini che hanno vissuto familiarmente con te, mangiato con te, fatto la guardia con te, uomini della tua stessa classe e grado, - tutto questo dà un terribile senso dell'autorità onnipotente sotto la quale si vive (59).
Lawrence ce ne dà un esempio militare:

"Stanotte il rumore del bastone sulla porta della baracca, al momento dell'appello, fu terribile; la porta sbatté violentemente quasi uscendo dai cardini. A grandi passi entrò nella luce Baker (Victorial Cross), un caporalmaggiore che godeva nel campo di grande prestigio a causa della sua decorazione di guerra. Venne avanti dal lato della baracca dove mi trovavo io, controllando tutti i letti. Il piccolo Nobby, preso di sorpresa, aveva uno stivale su e uno no. Il caporalmaggiore Baker si fermò. «Che cosa succede?» «Sto tirando fuori un chiodo che mi fa male al piede». «Infila immediatamente lo stivale. Il tuo nome?» Passò oltre fino alla porta in fondo e si girò sbuffando, «Clarke». Nobby rispose «Caporale» e zoppicò correndo - bisogna sempre correre quando si è chiamati - nel corridoio che divideva i letti, per rimettersi sull'attenti davanti a lui. Una pausa e poi seccamente: «Torna al tuo letto».
Il caporale era ancora lì che aspettava, e così dovevamo aspettare anche noi, allineati accanto ai nostri letti. Poi di nuovo la sua voce acuta «Clarke». La scena fu ripetuta ancora e ancora, mentre tutti noi eravamo lì a guardare, immobilizzati dalla vergogna e dalla disciplina. Eravamo uomini, ed un uomo era lì che stava degradando se stesso e la sua specie nel degradare un altro uomo. Baker cercava guai e tentava di provocare qualcuno di noi a reagire con atti o parole sui quali avrebbe poi potuto basare qualche accusa" (60).

Un esempio limite di questo tipo di esperienze mortificanti è riscontrabile ovviamente nella letteratura sui campi di concentramento:

"Un ebreo di Breslau di nome Silbermann dovette star lì, senza far niente, mentre il sergente Hone delle S.S. stava brutalmente torturandone a morte il fratello. Silbermann a quella vista impazzì, e la notte provocò il panico urlando fuori di sé che le baracche si stavano incendiando" (61).

3.
Ho considerato una delle aggressioni al "sé" più elementari e più dirette - forme diverse di profanazione e di contaminazìone, per mezzo delle quali il significato simbolico degli eventi, nell'esistenza dell'internato, fallisce drammaticamente lo scopo di rinforzare il suo precedente concetto di sé. Vorrei ora considerare una fonte di mortificazione, meno diretta nei suoi effetti, il cui significato è meno facile da valutare: la rottura della relazione abituale fra l'individuo che agisce e i suoi atti.
Il primo fenomeno da considerare è il «circuito»: ciò che provoca una reazione difensiva da parte dell'internato, prende questa stessa reazione come bersaglio del suo attacco successivo. L'individuo prova così che la reazione difensiva agli assalti del sé cui è soggetto, viene divorata dalla situazione: nel senso che egli non può difendersi nel modo abituale, stabilendo una distanza fra sé e la situazione mortificante.
L'abitudine al rispetto imposta nelle istituzioni totali, ci offre un esempio dell'effetto del «circuito». In una società civile, quando un individuo è costretto ad accettare circostanze o imposizioni che contrastano con il concetto che ha di se stesso, gli è consentito un margine di reazioni espressive con cui difendersi: muso lungo, sospensione dei segni di deferenza abituali, parlar male degli altri sottovoce, o mostrare qualche fugace espressione di disprezzo, ironia o derisione. E' probabile allora che la remissività si accompagni ad un'attitudine personale che non è soggetta allo stesso tipo di pressione cui è sottoposto colui che si vuole ridurre ad essa.
Sebbene nelle istituzioni totali sia usuale questo tipo di difesa del "sé" attraverso reazioni espressive e stimoli umilianti, il personale curante potrebbe punire direttamente l'internato, avvalendosi esplicitamente del «risentimento» o dell'arroganza, come occasioni per una successiva punizione. Per questo Kathryn Hulme, nel descrivere la contaminazione del "sé" che deriva dal dover mangiare la minestra nella ciotola da mendicante, così dice del suo personaggio:

"... Cancellò dalla faccia l'espressione di ripulsa che le era affiorata dal fondo del suo disgusto, mentre beveva la pozione. Sapeva che un solo sguardo di ribellione sarebbe bastato a farle ripetere quell'esperienza umiliante che, era certa, non sarebbe riuscita a sopportare una seconda volta, neppure per amore di Dio Santissimo" (62).

Il processo di unificazione crea, nelle istituzioni totali, altri esempi di circuito. Nella società civile, per quanto riguarda il normale svolgersi dei rapporti, la distanza fra il proprio ruolo e il pubblico di fronte al quale lo si recita, evita che le dichiarazioni o le implicite affermazioni fatte sul proprio conto in una particolare sfera di attività, vengano rapportate e confrontate al proprio comportamento in altre situazioni (63). Nelle istituzioni totali le diverse sfere d'azione sono unificate in modo che la condotta dell'internato in un particolare settore, gli viene ritorta dal personale curante, sotto forma di commento o di verifica del suo comportamento in un contesto diverso. Lo sforzo che un paziente fa per presentarsi, in modo ben orientato e non polemico, durante una consultazione diagnostica o un trattamento, potrebbe essere reso più difficile dall'essere confrontato all'apatia dimostrata durante la ricreazione; o dal fatto che gli vengano ricordati gli aspri commenti da lui fatti alla lettera di un fratello - lettera che avrà dovuto consegnare al direttore dell'ospedale, per essere inclusa nel suo dossier personale, e che verrà tirata fuori al momento della consultazione.
Le organizzazioni psichiatriche di tipo avanzato ci offrono eccellenti esempi di questo "circuito", da quando l'invito alla confidenza può essere eretto a dottrina terapeutica di base. L'atmosfera permissiva può essere vissuta dall'internato come l'invito a «proiettare» o a esporre le proprie difficoltà personali, che saranno poi riproposte alla sua attenzione durante le sedute di terapia di gruppo (64).
Attraverso questo "circuito", la reazione dell'internato alla propria situazione personale, viene dunque a ribattersi sulla situazione stessa, e non gli è consentito mantenere la distanza usuale fra le diverse fasi d'azione. Si può ora citare un secondo tipo di aggressione ai danni dell'internato nel suo ruolo di «agente» - aggressione per lo più descritta sotto le categorie dell'irreggimentazione o del tiranneggiamento.
Nella società civile, quando l'individuo diventa adulto, ha già incorporato modelli di riferimento socialmente accettabili per la maggior parte delle sue attività: il risultato della correttezza delle sue azioni si evidenzia soltanto a certe scadenze, come, ad esempio, quando viene giudicata la sua produttività. A parte questo, può fare ciò che vuole. Non occorre continui a guardarsi alle spalle per vedere se è oggetto di critiche o di approvazioni. Inoltre, molte delle sue azioni saranno ritenute affari strettamente personali, con facoltà, da parte sua, di scegliere fra una gamma di possibilità specificatamente consentite. In molte attività il giudizio e l'azione dell'autorità sono mantenuti a distanza e la persona può starsene per suo conto (65). In queste occasioni l'individuo può programmare, in vista di un maggior profitto, le proprie attività, in modo che l'una si inserisca nell'altra. Si tratta qui di una sorta di «personale economia d'azione», come quando ad esempio si ritarda di qualche minuto il pranzo per finire ciò che si sta facendo, o si tralascia il lavoro per pranzare con un amico. In un'istituzione totale, invece, anche i più piccoli segmenti dell'attività di una persona, possono essere soggetti alle regole e ai giudizi del gruppo curante; la vita dell'internato è penetrata da una costante interazione dell'altro che tende ad una costante sanzione, ciò soprattutto nel periodo iniziale, quando l'internato non ha ancora irriflessivamente accettato le regole dell'istituto. Ogni regola priva l'individuo dell'opportunità di equilibrare i suoi bisogni e i suoi obiettivi in un modo personalmente efficace, e lo fa entrare nel terreno delle sanzioni. E' in questo senso che l'autonomia dell'azione viene violata.
Sebbene questo controllo sociale sia presente in ogni società organizzata, si tende a dimenticare quanto esso sia dettagliato e decisamente restrittivo nelle istituzioni totali. Il ritmo di vita riferito come abituale in un carcere per minorenni ce ne offre un esempio impressionante:

"Venivamo svegliati alle 5,30 e dovevamo saltar giù dal letto e metterci sull'attenti. Quando la guardia gridava «uno» ci si toglieva la camicia da notte, al «due» la si doveva piegare, al «tre» dovevi farti il letto. (Due minuti per farlo in modo difficile e complicatissimo). I tre guardiani intanto gridavano: «Presto», «Fate alla svelta».
Anche per vestirsi lo si faceva a comando: la camicia all'«uno», le mutande al «due», le calze al «tre», le scarpe al «quattro». Qualsiasi rumore, una scarpa che cadeva o che strisciava sul pavimento, bastava per farti punire... Una volta giù tutti si mettevano sull'attenti di fronte al muro, mani ai fianchi, pollici sulle cuciture, testa in su, spalle indietro, stomaco in dentro, talloni uniti, occhi avanti, non ci si poteva grattare né portare le mani alla faccia, né sulla testa né si potevano muovere le dita" (66).

Una prigione per adulti ce ne dà un altro esempio:

"Il sistema del silenzio fu rinforzato. Non si poteva parlare fuori cella, né durante i pasti né sul lavoro. Non era permesso tenere fotografie in cella. Non si poteva guardarsi attorno durante i pasti. Si potevano lasciare le croste di pane solo alla sinistra del piatto. I detenuti erano obbligati a stare sull'attenti, il berretto in mano, finché qualsiasi ufficiale, visitatore o guardia, si fosse allontanato dalla vista" (67).

E un campo di concentramento:

"Nelle baracche un gran numero di nuove, confuse impressioni sopraffaceva i prigionieri. Fare i letti era un'occasione speciale per i cavilli delle S.S. Pagliericci arruffati senza forma dovevano essere tesi piatti come tavole, le lenzuola con i bordi paralleli, i cuscini tirati ad angolo retto" (68).

"Le S.S. prendevano la più piccola infrazione come occasione per punire: tenere le mani in tasca col freddo, alzare il bavero del cappotto sotto la pioggia e il vento, avere qualche bottone in meno, una piccola goccia o una macchiolina di sporco sul vestito, scarpe non lucidate... le scarpe troppo lucide indicavano che colui che le indossava schivava il lavoro, omissione di saluto, il che includeva anche la cosiddetta «posizione scomposta»... la più piccola irregolarità nel mettersi in fila e nel sistemarsi in ordine di grandezza, o una spinta, un colpo di tosse, uno starnuto: tutto ciò poteva provocare un eccesso selvaggio nelle S.S." (69).

Dall'ambiente militare proviene un esempio dei possibili ordini sulla sistemazione dell'equipaggiamento:

"La casacca doveva essere piegata in maniera che la cintura formasse una linea retta. Per coprirla, i calzoni, squadrati in modo da ricoprire l'esatta superficie della casacca, con le quattro pieghe a fisarmonica girate in avanti. Gli asciugamani dovevano essere piegati una, due, tre volte e messi di fianco a questa torre blu. Di fronte ad essa andava il maglione piegato a rettangolo. Ad ogni lato una fascia arrotolata, le camicie impaccate, e distese a due a due come mattoni di flanella. Di fronte le mutande. In mezzo, ordinate palle di calze, ben rimboccate. I nostri sacchi erano spalancati con coltello, forchetta, cucchiaio, rasoio, pettine, spazzolino da denti, pennello da barba, scorta di bottoni, tutti stesi in questo ordine" (70).

Un'ex suora riferisce di aver dovuto imparare a tenere le mani ferme (71), nascoste, e ad accettare il fatto che fosse permesso avere in tasca soltanto sei oggetti specificati (72). Un ex malato mentale parla dell'umiliazione di dover ricevere la carta igienica in quantità limitata, ad ogni richiesta (73).
Come si è già detto, uno dei modi più espliciti di rompere l'economia d'azione di un individuo, è obbligarlo a chiedere il permesso o a domandare aiuto per attività minori che, fuori dalla istituzione, potrebbe portare a termine da solo: fumare, farsi la barba, andare al gabinetto, telefonare, spendere soldi o imbucare una lettera. Il dover chiedere, non soltanto mette l'individuo nel ruolo, «innaturale» per un adulto, di essere sempre sottomesso e supplice, ma mette anche le sue azioni in balia del personale curante. Invece di ottenere ciò che domanda e che la cosa gli sia automaticamente garantita, l'internato può essere preso in giro, gli può venire rifiutata la richiesta e può trovarsi a doverla ripetere più volte senza essere ascoltato o, come riferisce un ex malato mentale, può essere semplicemente mandato via:

"Forse chi non ha vissuto una simile situazione di impotenza non può rendersi conto delle umiliazioni cui va incontro una persona, per altro sana, una volta privata dell'autorizzazione a fare il più piccolo passo da sola, costretta a chiedere continuamente, anche per le più piccole necessità come avere biancheria pulita, fuoco per la sigaretta, ad un'infermiera che la scosta dicendo «te la do subito, cara» e se ne va lasciandola a mani vuote. Gli stessi inservienti del bar sembravano dell'opinione che fosse inutile essere cortesi con dei «matti» e li lasciavano aspettare indefinitamente mentre chiacchieravano fra loro" (74).

Ho accennato che nelle istituzioni totali l'autorità agisce su un gran numero di elementi - aspetto, comportamento, forma - che si verificano costantemente e che costantemente si trovano sottoposti a giudizio. L'internato non può sfuggire facilmente alla pressione del giudizio ufficiale e all'azione inglobante della situazione. Un'istituzione totale è come una scuola di alta classe, che abbia molti perfezionamenti ma che in realtà risulti poco rifinita. Vorrei ora commentare due aspetti di questa tendenza all'allargamento del dominio attivamente imposto.
Primo, le imposizioni sono spesso strettamente legate all'obbligo di portare a termine un'attività, regolata all'unisono con gruppi di compagni internati. Ciò è talvolta definito come irreggimentazione.
Secondo, questo genere di dominazione a vasto raggio, si manifesta in sistemi autoritari di tipo militare: qualsiasi membro appartenente alla classe dello staff ha certi diritti per disciplinare qualsiasi membro appartenente alla classe degli internati, aumentando in modo evidente la probabilità di un sistema di sanzioni. (Si tratta, come si può notare, dello stesso diritto riconosciuto in alcune piccole città americane, a qualsiasi adulto di correggere qualsiasi bambino che non sia sotto l'immediato controllo dei genitori, e di chiedergli piccoli servizi). L'adulto nella nostra società viene a trovarsi abitualmente, per quanto riguarda il lavoro, sotto l'autorità di un unico superiore diretto, o sotto l'autorità della moglie per ciò che riguarda i doveri domestici; l'unica autorità che deve affrontare - la polizia - non è di solito sempre presente, eccetto forse nel caso dell'applicazione delle norme del traffico.
Una volta data un'autorità di tipo militare e una regolamentazione che sia applicata a tutti i livelli e severamente imposta, gli internati - e in particolare le nuove reclute - vivono in uno stato d'ansia insopportabile nella paura di infrangere le regole, e nell'attesa delle conseguenze di una simile infrazione - violenze fisiche e morte nei campi di concentramento; eliminazione nelle scuole militari per ufficiali, o spostamento di reparto in un ospedale psichiatrico:

"Anche nella libertà apparente e nel clima di benevolenza di un reparto «aperto», continuavo ad avvertire un fondo di minaccia, che mi faceva sentire qualcosa fra un prigioniero e un mendicante. La più piccola infrazione, da un sintomo nervoso all'urtare personalmente la suora, si risolveva con la minaccia di essere rimandati in un reparto chiuso. Il fatto che sarei dovuto ritornare al reparto se non mangiavo, mi veniva riproposto così costantemente che diventò per me un'ossessione, tanto che anche i cibi che sarei riuscito ad inghiottire, mi ispiravano una repulsione fisica; mentre altri pazienti erano costretti a fare lavori inutili o comunque a loro non congeniali, spinti dalla stessa paura" (75).

Nelle istituzioni totali, evitare i guai richiede uno sforzo costante e consapevole. L'internato potrebbe anche arrivare a rinunciare a certi livelli di socialità con i compagni, per evitare possibili incidenti.

4.
A conclusione di questa descrizione dei processi di mortificazione, si devono puntualizzare tre problemi di carattere generale.
Primo, le istituzioni totali spezzano o violentano proprio quei fatti che, nella società civile, hanno il compito di testimoniare a colui che agisce e a coloro di fronte ai quali si svolge l'azione, che egli ha un potere sul suo mondo - che si tratta cioè di persona che gode di autodeterminazione, autonomia e libertà d'azione «adulte». Il mancato mantenimento di questo tipo di maturità e di abilità a livello esecutivo (o almeno di elementi che possano simbolicamente ricordarle) può produrre nell'internato la paura di essere sradicato dal sistema, secondo il quale ad ogni età corrisponde un graduale sviluppo nella maturità dell'individuo (76).
Un'espressione del proprio comportamento (personalmente scelto) - antagonismo, affetto, indifferenza - è simbolo del proprio modo personale di autodeterminarsi.
Questa prova della propria autonomia viene indebolita da certi obblighi specifici, come il dover scrivere una lettera alla settimana a casa, o il doversi trattenere dall'esprimere tristezza. Inoltre essa viene indebolita quando questo settore del comportamento sia usato come l'evidenza della propria posizione psichiatrica, religiosa o politica.
Ci sono alcuni agi, molto importanti per l'individuo, che vengono perduti al momento dell'ingresso in una istituzione totale - per esempio un letto morbido (77) o la tranquillità durante la notte (78). Una tale perdita può anche tramutarsi in una riduzione di autodeterminazione, poiché l'individuo tende ad assicurarsi questo tipo di agi, quando ne ha i mezzi (79). La perdita di autodeterminazione sembra essere stata ritualizzata nei campi di concentramento: ci sono infatti atroci racconti di prigionieri costretti a rotolarsi nel fango (80), a stare ritti sulla testa sulla neve, a fare lavori comicamente senza senso, imprecare contro se stessi (81) o, nel caso di prigionieri ebrei, cantare canzoni antisemite (82). Se ne trova una versione più moderna negli ospedali psichiatrici dove si riferisce che alcuni inservienti obbligassero un paziente che chiedeva una sigaretta, a dire «per piacere» e a fare un salto per ottenerla. In tutti questi casi l'internato è costretto a mostrare apertamente la perdita della propria volontà. Meno ritualizzato, ma altrettanto drammatico è l'impedimento alla propria autonomia, conseguente all'essere chiuso in un reparto, stretto in un corsetto bagnato, o legato in una camicia di forza e impedito in ogni più piccolo movimento.
Altra espressione evidente dell'impotenza personale nelle istituzioni totali, è riscontrabile nell'uso del linguaggio da parte dell'internato.
Un'implicazione dell'uso del linguaggio, come mezzo per trasmettere indicazioni su azioni da intraprendere, è che colui che riceve un ordine sia ritenuto in grado di ricevere un messaggio, e di tradurlo in un'azione che concreti il suggerimento o la consegna. Ciò significa che nel momento in cui esegue l'atto, può presumere di essere in grado di autodeterminarsi. Rispondendo ad una domanda con parole proprie, egli può mantenere la convinzione di essere una persona che viene presa in considerazione, anche se in modo limitato. Inoltre, dato che sono parole ad intercorrere fra lui e gli altri, riesce a conservarne, per quanto sgradevole sia l'ordine o l'imposizione, una distanza fisica.
All'internato di un'istituzione totale può essere negato perfino questo tipo di distanza e di azione autodifensiva. Negli ospedali psichiatrici, in particolare, e nelle prigioni politiche, le affermazioni fatte dall'internato possono venir considerate semplicemente come sintomi di malattia, da parte di uno staff che presta maggior attenzione agli aspetti non verbali delle sue risposte (83). Spesso la sua condizione istituzionale viene considerata di livello troppo basso perché l'internato possa essere ritenuto degno di un saluto, e tanto meno di attenzione (84), oppure viene usata nei suoi confronti una sorta di linguaggio retorico: domande come «Ti sei già lavato?» o «Hai infilato tutte e due le calze?» possono essere contemporaneamente accompagnate dal tentativo, da parte dello staff, di descrivere mimicamente i fatti, rendendo superflue le domande verbali. Invece di essere invitato a muoversi in una particolare direzione, ad una data velocità, l'internato può trovarsi spinto da una guardia o tirato (come nel caso di malati mentali gravi) o trascinato carponi. Infine come si dirà più oltre, egli può riscontrare che esiste un duplice linguaggio poiché per le sanzioni disciplinari che lo riguardano viene usato un gergo ideale tradotto dallo staff che ne altera, schernendolo, l'uso normale.
La seconda considerazione di carattere generale è la logica che viene usata per le aggressioni del "sé". Questo argomento tende a suddividere le istituzioni totali e i loro internati in tre diversi gruppi.
Nelle istituzioni religiose si riconoscono esplicitamente le implicazioni per il "sé" insito nelle strutture ambientali.

"Questo è il significato della vita di clausura e di tutte le piccole regole apparentemente senza senso, le pratiche, i digiuni, l'obbedienza, le penitenze, le umiliazioni, le fatiche, che formano la routine dell'esistenza in un monastero di clausura: tutto serve a ricordarci ciò che siamo e chi è Dio - ad avere orrore di noi e a rivolgerci a Lui: alla fine Lo troveremo in noi stessi, nella nostra natura purificata, che diventerà lo specchio della Sua tremenda Divinità e del Suo amore senza fine..." (85).

Gli stessi internati, così come lo staff, perseguono attivamente questo restringimento del sé: la mortificazione è completata dalla automortificazione, le limitazioni dalla rinuncia, le punizioni dalla autoflagellazione, l'inquisizione dalla confessione. Dato che gli ordini religiosi sono esplicitamente interessati al processo di mortificazione, hanno un valore particolare per lo studioso dell'argomento. Nei campi di concentramento e, in un'estensione minore, nelle prigioni, alcuni tipi di mortificazione sembrano essere fatti solamente, o principalmente, per il loro potere mortificante, come quando si urina addosso al detenuto: nel qual caso, tuttavia, l'internato non aiuta né facilita la propria autodistruzione.
In molte delle rimanenti istituzioni totali, le mortificazioni sono ufficialmente razionalizzate in settori diversi, come l'igiene (per quanto riguarda la pulizia delle latrine); la responsabilità nei confronti della vita degli internati (per quanto riguarda il costringerli a mangiare per forza); la capacità di combattere (per quanto riguarda le regole militari circa l'aspetto personale); la «sicurezza» (per quanto riguarda le regole restrittive delle prigioni).
Tuttavia nelle istituzioni totali di tutti e tre i tipi, le diverse giustificazioni razionali alle mortificazioni del sé sono spesso pure razionalizzazioni, prodotte dal tentativo di manipolare l'attività giornaliera di un gran numero di persone, in uno spazio ristretto e con un numero limitato di risorse. Inoltre, questo restringimento del "sé" si verifica in tutti e tre i tipi, anche nel caso che l'internato sia docile e che l'istituto si prefigga di occuparsi del suo benessere.
Si devono ora considerare due punti: il senso di impotenza dell'internato e il rapporto fra i suoi desideri e la finalità della istituzione. La connessione fra questi punti è variabile. Alcune persone possono scegliere volontariamente di entrare in un'istituzione totale ma, dopo un tale passo, cessano - loro malgrado - di essere in condizione di prendere decisioni altrettanto importanti. In altre circostanze, in particolare nel caso di religiosi, gli internati possono avere all'inizio, e mantenere anche in seguito, un violento desiderio di essere spogliati e liberati della loro volontà personale. Le istituzioni totali sono fatali per il "sé civile" dell'internato, benché il grado di interesse per questo "sé civile" possa variare considerevolmente.
I processi di mortificazione fin qui considerati sono strettamente legati alle implicazioni inerenti il "sé" che le persone, orientate verso un particolare idioma espressivo, possono trarre dall'aspetto, dalla condotta e dalla situazione generale di un individuo. In questo contesto voglio infine considerare un terzo punto: il rapporto fra questa struttura di interazione simbolica (che tende a considerare il destino del "sé") e quella convenzionale psico-fisiologica centrata sul concetto di "stress".
I fatti principali inerenti il "sé" sono qui presentati in una prospettiva sociologica, che tende a riferirsi alla descrizione degli ordinamenti istituzionali che definiscono le prerogative personali di ciascun membro. E' ovviamente implicato anche un presupposto di carattere psicologico, oltre naturalmente ad alcuni processi conoscitivi, dato che gli ordinamenti sociali devono essere «letti» dall'individuo e dagli altri, attraverso l'immagine di sé che ne riflettono. Ma, come ho dimostrato, il rapporto fra questo processo conoscitivo e gli altri processi psicologici è piuttosto variabile; secondo il linguaggio espressivo in uso nella nostra società, l'avere la testa rapata è, ad esempio, facilmente vissuto come una diminuzione di sé, ma mentre questo tipo di mortificazione umilia il malato mentale, piace invece al monaco.
La mortificazione o il restringimento del "sé" implica, generalmente, un acuto senso di tensione, ma ad un uomo stanco di vivere o privo di colpa può dare sollievo psicologico. Inoltre, la tensione psicologica spesso provocata dalle aggressioni al "sé", può anche essere determinata da qualcosa che non viene percepito come strettamente legato ai territori del "sé" - ad esempio perdita del sonno, cibo insufficiente, o impossibilità di prendere decisioni. Un alto livello di ansietà o il fatto di non poter ricorrere a mezzi di natura fantastica, come cinema o libri, può quindi aumentare l'effetto psicologico della violazione delle proprie barriere personali, anche se questi fattori non hanno niente a che fare con la mortificazione del "sé". Praticamente, quindi, lo studio dello stress sarà spesso strettamente legato a quello dell'invasione del "sé", mentre, dal punto di vista analitico, saranno coinvolte due differenti strutture.

5.
Mentre procede il processo di mortificazione, l'internato incomincia a ricevere istruzioni, formali ed informali, su ciò che qui chiameremo il «sistema dei privilegi». Dal momento in cui il processo di spoliazione dell'istituzione agisce sull'internato, indebolendo la relazione che egli ha con il proprio sé, è il sistema dei privilegi che gli fornisce una struttura su cui fondare la propria riorganizzazione personale. Bisogna qui puntualizzarne tre elementi base.
Primo, ci sono le «regole di casa», un sistema di prescrizioni e proibizioni, relativamente esplicite e formali, che definiscono lo schema dei bisogni dell'internato. Queste regole ne prescrivono l'intero, severo ciclo di vita. Le procedure di ammissione che spogliano la recluta dei sostegni su cui contava in precedenza, possono essere ritenute il modo istituzionale di prepararlo a vivere in accordo con le regole di casa.
Secondo, in questa rigidità d'ambiente viene offerto un esiguo numero di compensi o di privilegi, esplicitamente definiti come tali, in cambio dell'obbedienza - materiale e psicologica -allo staff. E' importante notare che molte di queste gratificazioni potenziali sono ricavate dall'insieme dei sostegni che l'internato considerava - prima - come garantiti. Nel mondo esterno, ad esempio, egli era in grado di decidere, senza pensarci troppo, come bere un caffè, se fumare una sigaretta e quando parlare, diritti che, all'interno di un'istituzione, possono invece risultare problematici. Presentate all'internato come possibili, queste piccole conquiste sembrano avere un effetto reintegrante, dato che stabiliscono un rapporto con il mondo perduto e riducono i sintomi che testimoniano il ritiro del paziente da quel mondo e dal suo stesso sé. L'attenzione dell'internato - soprattutto all'inizio - viene a fissarsi su queste gratificazioni sostitutive, da cui resta tanto ossessionato da passare l'intera giornata, come un fanatico, pensando al modo di ottenerle, o in attesa del momento in cui sa che gli saranno concesse. Un racconto di Melville sulla vita di mare, ce ne dà un esempio tipico:

"Nella marina da guerra americana la legge consente una mezza pinta di alcool al giorno per ciascun marinaio, da servirsi in due volte, prima di colazione e prima di pranzo. Al rullo del tamburo, i marinai si riuniscono attorno ad un grosso barile o a una botte piena di alcool; quando sono chiamati dal guardiamarina, si fanno avanti e si gustano la bibita in una piccola misura di latta detta «tot». Nessun buongustaio che si accinga a servirsi un bicchiere di tokay dalla sua dispensa ben fornita, schiocca le labbra con maggior gusto del marinaio di fronte al suo tot. A molti di loro, infatti, il pensiero dei tot giornalieri offre una perpetua visione di paesaggi incantevoli che continuano a sfumare in lontananza. E' questa la loro grande «speranza». Togliete loro il grog, e la vita non avrà più alcun fascino" (86).

In marina, una delle punizioni più comuni per la più banale delle infrazioni è proibire il grog per un giorno o per una settimana. Dato che la maggior parte dei marinai tiene tanto al suo grog, il fatto di perderlo è generalmente sentito come una gravissima punizione. Li sentirai spesso dire: «Preferirei perdere il vento, piuttosto che il grog» (87).

La costruzione di un mondo attorno a questi privilegi forse non è uno degli elementi più importanti della cultura dell'internato, e tuttavia è qualcosa che non può essere facilmente capita da chi vive nel mondo esterno, anche se si tratta di persone che hanno avuto, in precedenza, esperienze analoghe. Questo interesse e questo bisogno di privilegi porta talvolta chi li ottiene a dividerli generosamente, ma più spesso all'abitudine di mendicare anche per piccole cose come sigarette, caramelle e giornali. La conversazione fra internati si accentra, frequentemente e in modo ben comprensibile, su una «fantasia festosa sulla dimissione», una sorta di rappresentazione di ciò che faranno durante la «licenza» o nei giorni di permesso dall'istituto. Queste fantasie sono collegate al loro percepire che gli uomini «liberi» non apprezzino quanto sia meravigliosa la loro vita (88).
Il terzo elemento nel sistema dei privilegi è costituito dalle punizioni, che sono designate come la conseguenza di un'infrazione alle regole. Una serie di queste consiste nel ritirare, temporaneamente o definitivamente, i privilegi, o nell'abrogare il diritto ad ottenerli. Generalmente le punizioni cui l'internato va incontro nelle istituzioni totali sono più dure di qualsiasi esperienza egli abbia avuto nel proprio mondo familiare. Ad ogni modo le condizioni in cui un piccolo numero di privilegi facilmente controllati risulta così importante, sono le stesse nelle quali il fatto che tali piccoli privilegi possano mancare, assume un significato cruciale.
Ci sono alcuni aspetti del sistema dei privilegi che dovremmo qui analizzare.
Primo, punizioni e privilegi sono essi stessi modalità organizzative, tipiche delle istituzioni totali. Di qualunque grado sia la loro severità, le punizioni sono conosciute nel mondo familiare dell'internato come mezzi usati abitualmente nei confronti di animali e bambini: infatti questo sistema, tendente a condizionare il comportamento, non è altrettanto largamente usato con gli adulti, dato che l'incapacità a mantenere il modello di vita richiesto porta di solito a svantaggi indiretti ad essa conseguenti, non certo ad una punizione specifica immediata (89). Bisogna inoltre notare che nelle istituzioni totali i privilegi non corrispondono a ciò che si considera come privilegio nel mondo esterno (profitti, favori o valori) ma semplicemente all'assenza di privazioni cui nessuno presume, abitualmente, di dover sottostare. Il concetto stesso di punizione e di privilegio non corrisponde a al significato che esso assume nel mondo «civile».
Secondo, la questione della dimissione da un'istituzione totale è anch'essa elaborata all'interno del sistema dei privilegi. Alcune azioni vengono considerate come capaci di provocare un aumento o una diminuzione del periodo di degenza, mentre altre vengono ritenute come mezzi atti a ridurre la pena.
Terzo, punizioni e privilegi vengono inglobati in una sorta di sistema di lavoro di tipo residenziale. I luoghi dove gli internati lavorano e i reparti dove abitualmente dormono, vengono esplicitamente definiti come luoghi nei quali si possono ottenere alcuni tipi e gradi diversi di privilegi. Gli internati sono spesso visibilmente spostati da un luogo all'altro, secondo il capriccio del personale sanitario, al solo scopo di dare la punizione o il compenso conseguenti al loro livello di collaborazione. Sono mobili gli internati ma non il sistema. Così si può individuare una sorta di specializzazione dello spazio, nel senso che un reparto o una cella acquistano la reputazione di un luogo di punizione per internati particolarmente violenti, mentre altri trasferimenti vengono intesi come punizioni per il personale.
Il sistema dei privilegi consiste in un numero relativamente esiguo di elementi - messi insieme con un certo intento logico - chiaramente espliciti a tutti coloro che vi partecipano. Il risultato principale è che si ottiene un certo grado di collaborazione, da persone che spesso avrebbero buone ragioni per non collaborare (90). Un esempio di questo universo-modello può essere preso da uno studio recente su un ospedale psichiatrico di stato:

"L'autorità del sorvegliante nell'attuazione del suo sistema di controllo, viene sostenuta sia dal suo potere positivo che da quello negativo. Questo suo potere è un elemento essenziale nel controllo del reparto, poiché è in grado di concedere al paziente alcuni privilegi, o di punirlo. I privilegi consistono nell'ottenere un buon lavoro, le stanze e i letti migliori, piccoli piaceri come il caffè in reparto, un margine di vita personale più ampio di quanto non sia consentito alla maggior parte dei pazienti, poter uscire dal reparto senza controllo, godere - più di quanto non faccia la media dei ricoverati - della compagnia del sorvegliante o del personale sanitario come, ad esempio, il medico ' usufruire di tutte queste piccole cose impalpabili ma vitali, come essere trattato, di persona, con gentilezza e rispetto.
Le punizioni che possono essere imposte dal sorvegliante di reparto, sono la sospensione di tutti i privilegi, maltrattamenti psicologici, come il prendere in giro maliziosamente e mettere in ridicolo, punizioni fisiche talvolta modeste, talvolta pesanti, rinchiudere il paziente in una cella isolata, impedirgli o rendergli difficile l'incontro con il personale sanitario, minacciare di segnarlo sulla lista della terapia di shock, trasferirlo in reparti indesiderabili, e affidargli regolarmente compiti sgradevoli come pulire i malati sudici" (91).

Situazione analoga è quella delle prigioni britanniche dove è applicato il «sistema dei quattro stadi» con un aumento, ad ogni stadio, del pagamento del lavoro, del tempo da passare in compagnia con altri prigionieri, delle possibilità di ottenere giornali, di mangiare in gruppo, e di avere occasioni ricreative (92).
Associati al sistema dei privilegi ci sono, nella vita delle istituzioni totali, alcuni importanti processi.
Viene a costituirsi un «gergo istituzionale» per mezzo del quale gli internati descrivono gli eventi cruciali del loro particolare mondo. Anche il personale, specialmente quello meno qualificato, conosce questo linguaggio e lo usa quando parla con gli internati, riprendendo il suo modo di parlare abituale quando si rivolge ad un superiore o a qualche visitatore. Insieme con il gergo, gli internati vengono a conoscenza dei vari gradi ufficiali, di un cumulo di fatti sull'istituto, e di alcune informazioni sulla vita di altre istituzioni totali simili alla loro.
Inoltre lo staff e gli internati saranno perfettamente consci di ciò che si intende, negli ospedali psichiatrici, nelle prigioni e nelle caserme, per «fare azioni di disturbo». E «far azioni di disturbo» involve un processo assai complesso. Significa: impegnarsi in attività proibite (talvolta vengono compresi anche i tentativi di fuga), esser colti sul fatto, e ricevere una grave punizione. Di solito c'è una alterazione dei privilegi, simbolizzata nella frase «far retrocedere». Le infrazioni tipiche che vengono considerate nel generico «far azioni di disturbo» sono: risse, ubriachezza, tentato suicidio, bocciatura agli esami, gioco d'azzardo, insubordinazione, omosessualità, uscite senza permesso e partecipare a sommosse collettive. Sebbene queste infrazioni siano abitualmente ascritte alla perversità, alla villania, o alla «malattia» del colpevole, esse costituiscono, di fatto, un elenco limitato di azioni istituzionali, così che le stesse azioni di disturbo possono verificarsi per ragioni completamente diverse. Gli internati e il personale possono tacitamente concordare, per esempio, sul fatto che fare una certa azione di disturbo è un modo di dimostrare, da parte dell'internato, il suo risentimento contro una situazione avvertita come ingiusta, secondo l'accordo informale fra staff e internati (93); o un modo di rimandare la dimissione senza dover ammettere, di fronte ai compagni, di non voler andare a casa. Qualunque sia il significato attribuito a questo «disturbo» esso assume un'importante funzione sociale per l'istituzione, poiché tende a ridurre la rigidità che si verificherebbe, se il sistema dei privilegi fosse unicamente basato sull'anzianità; inoltre le retrocessioni conseguenti alle «azioni di disturbo» mettono vecchi internati a contatto con i nuovi in posizioni non privilegiate, assicurando così una corrente di informazioni sul sistema in generale e sulle persone in esso incluse.
Nelle istituzioni totali esiste anche un sistema di quelli che possono definirsi come «adattamenti secondari», cioè un insieme di pratiche che, pur senza provocare direttamente lo staff, consentono agli internati di ottenere qualche soddisfazione proibita, o di ottenerne altre permesse con mezzi proibiti. Queste pratiche sono diversamente riferite come «riuscire a farcela», «saper cavarsela», «fare connivenze», «conoscere i trucchi del mestiere», «gli affari» o «i segreti interni». Tali adattamenti raggiungono - ovviamente - la loro maggiore fioritura nelle prigioni, ma, naturalmente, anche le altre istituzioni totali ne sono ricche (94).
Gli adattamenti secondari sono, per l'internato, la prova del suo essere ancora padrone di sé, capace di un certo controllo sul suo comportamento: talvolta un adattamento secondario diventa quasi un margine di difesa del "sé", una «churinga» nella quale si sente che l'anima risiede (95).
Si può già presumere, dalla presenza di adattamenti secondari, che il gruppo degli internati sviluppi un codice particolare e alcuni mezzi di controllo sociale a carattere informale, in modo da prevenire che un compagno metta al corrente il personale sugli adattamenti secondari dell'altro. Analogamente si può pensare che una dimensione sociale tipica degli internati o fra gli internati, sia la necessità di sicurezza che porta a definire gli altri come «spie», «traditori», «crumiri», o «uccelli da richiamo» da un lato, e «brave persone» dall'altro. Quando qualche nuovo internato può giocare un ruolo nel sistema degli adattamenti secondari (come nell'essere un nuovo elemento di fazione o un nuovo oggetto sessuale), allora il «benvenuto» che gli viene riservato può essere inizialmente una sequela di indulgenze e seduzioni, anziché un rincrudimento di privazioni (96). A causa di questi adattamenti secondari, si è in grado di trovare anche i «Kitchen strata», una sorta di stratificazione rudimentale e largamente informale, basata sul diverso grado di accesso a certi beni illeciti disponibili; ritroviamo quindi ancora una tipologia sociale per designare le persone importanti nel sistema informale del mercato (97).
Mentre il sistema dei privilegi sembra fornire lo schema principale entro il quale ha luogo la ricostruzione del "sé", vi sono altri fattori che portano, caratteristicamente, verso la stessa direzione generale, pur partendo da strade diverse. Uno di questi è la libertà da responsabilità economiche e sociali - ritenuta come uno degli aspetti terapeutici degli ospedali psichiatrici - benché in molti casi risulti molto più significativo l'effetto disorganizzante di questo periodo moratorio.
Più importante come influenza riorganizzativa è il processo di fraternizzazione, attraverso il quale persone socialmente diverse si trovano a sviluppare un mutuo appoggio e una maggiore possibilità di opporsi al sistema che li costringe ad una forzata intimità e ad un unico destino comune, uguale per tutti (99).
La nuova recluta spesso inizia la sua carriera con un errato giudizio - suggeritogli dallo staff - sul carattere degli altri internati, ma si trova poi a scoprire che gran parte dei compagni sono degli esseri umani normali, spesso brave persone, degne di simpatia e di aiuto. Ciò che l'internato ha fatto, «fuori» dell'ospedale, cessa di assumere un significato reale, capace di influenzare il giudizio sulle sue qualità personali - lezione questa che gli obiettori di coscienza, ad esempio, pare abbiano imparato nelle prigioni (100). Inoltre, se l'internato è accusato di aver commesso un crimine, o qualcosa del genere, contro la società, il nuovo entrato - benché spesso senza alcun motivo personale - può giungere a dividere sia il sentimento di colpa del compagno, che le difese elaborate contro questo suo stesso sentimento. Si tende a sviluppare un senso di ingiustizia comune a tutti e di amarezza contro il mondo esterno, il che segna un passo molto importante nella carriera morale dell'internato. Questa reazione al sentimento di colpa e di privazione totale risulta forse più chiara nella vita carceraria:

"Secondo il loro modo di pensare, dopo essere stato soggetto ad un'ingiustizia, ad una punizione eccessiva o ad un trattamento più degradante di quello prescritto dalla legge, il colpevole stesso incomincia a giustificare l'azione compiuta, che non aveva giustificato quando la compiva. Decide allora di far pagare caro l'ingiusto trattamento subìto in prigione e, alla prima occasione favorevole, di vendicarsi con nuovi crimini.
<E' con questa decisione che diventa un criminale>".

Un detenuto obiettore di coscienza, ne dà un esempio simile, riferendo la sua esperienza personale:

"Un punto che voglio qui precisare è la strana difficoltà che io stesso ho nel considerarmi innocente. Mi trovo facilmente portato a convincermi di essere qui a pagare per i medesimi misfatti di cui sono accusati gli altri prigionieri, e devo talvolta ricordare a me stesso che un governo che crede veramente nella libertà di coscienza, non dovrebbe mettere gli uomini in prigione perché abbiano ad imparare a metterla in pratica. L'indignazione che provo verso la prigione e le sue regole non è quindi l'indignazione dell'innocente perseguitato o del martire, ma quella del colpevole il quale sente che la punizione che lo ha colpito va oltre ciò che merita, e che <gli viene inflitta da chi non è certamente privo di colpe>. Quest'ultimo fatto è sentito molto fortemente da tutti i detenuti ed è l'origine del profondo cinismo che pervade la prigione" (102).

Una constatazione di carattere più generale è suggerita da due studiosi dello stesso tipo di istituzioni totali:

"In un certo senso il sistema sociale degli internati può essere visto come un sistema che provvede un modo di vita tendente a rendere l'internato incapace di evitare gli effetti psicologici distruttivi dell'interiorizzazione e della conversione del rifiuto sociale in rifiuto di sé.
In effetti, ciò permette all'internato di rifiutare coloro che l'hanno rifiutato, più che rifiutare se stesso" (103).

Qui naturalmente c'è dell'ironia su una politica in qualche modo terapeutica e permissiva - l'internato diventa meno capace di proteggere il suo io, dirigendo l'ostilità verso bersagli esterni (104).
C'è poi un adattamento secondario, che riflette molto chiaramente il processo di fraternizzazione e il rifiuto dello staff, vale a dire il prendere in giro collettivo. Benché il sistema del «bastone e la carota» sia direttamente legato ad infrazioni individuali, riconoscibili come la causa prima che lo mette in moto, la solidarietà degli internati può essere abbastanza forte da riuscire ad attuare piccoli gesti di sfida anonimi e collettivi. Per esempio: urlare motti (105), far versi (106), pestare vassoi, rifiutare il cibo in massa, e altri piccoli atti di sabotaggio (107). Queste azioni tendono a prendere la forma di una rivolta: un sorvegliante, una guardia, un infermiere, - o anche tutto lo staff - vengono presi in giro, tormentati, o fatti oggetto di altre forme minori di insulti, finché perdono il controllo e ingaggiano un'inutile opposizione.
Oltre alla fraternizzazione fra gli internati si assiste anche al formarsi di un legame di natura un po' più differenziata. A volte, particolari tipi di solidarietà si estendono in un terreno fisicamente delimitato, come un reparto o un padiglione, i cui abitanti percepiscono di essere regolati come una singola unità, e quindi avvertono di essere soggetti ad un destino comune. Lawrence ci dà un esempio di gruppi dipendenti dalla aviazione:

"Un velo dorato di risate - anche se di risate sciocche - aleggia nella nostra baracca. Mescola insieme cinquanta ragazzi che non si conoscono, provenienti da classi diverse, in una camerata chiusa, per venti giorni: costringili ad una nuova disciplina, del tutto arbitraria, falli faticare in lavori sporchi, senza senso, inutili ma pesanti... non c'è stata una sola parola dura fra qualcuno di noi. Questa condizione di liberalità nel corpo e nello spirito, questo vigore attivo, questo nitore e questo buon umore non si sarebbero certo mantenuti in una comune condizione di servitù" (108).

Naturalmente si riscontrano unità ancora più piccole: combriccole, legami sessuali più o meno stabili e - ciò che sembra forse più importante - si assiste al formarsi di amicizie, per mezzo delle quali due internati vengono riconosciuti dagli altri come «camerati» o «la coppia», e incominciano ad appoggiarsi l'un l'altro, trovando il modo di assistersi reciprocamente e sostenersi emotivamente (109). Benché queste amicizie a due possano essere riconosciute quasi ufficialmente (così come quando a bordo di una nave il capitano fa in modo di far fare la guardia assieme a due amici) (110), il fatto che si creino dei legami profondi può scontrarsi con una sorta di proibizione dell'incesto istituzionale, che tende a prevenire la coppia dal formare un proprio mondo all'interno dell'istituzione. Infatti, in alcune istituzioni totali, il personale sente che la solidarietà fra gruppi di internati può servire di base per progettare attività proibite dalle regole: in questo senso si tenta, consapevolmente, di impedire il formarsi di gruppi primari.

6.
Sebbene ci siano tendenze al crearsi di un livello di solidarietà, come la fraternizzazione e il formarsi di combriccole, si tratta tuttavia di fenomeni limitati. Le costrizioni che mettono gli internati in condizione di simpatizzare e comunicare fra di loro, non portano necessariamente ad un alto spirito di gruppo e di solidarietà. In alcuni campi di concentramento e in campi per prigionieri di guerra, l'internato non può fidarsi del compagno che potrebbe derubarlo, aggredirlo o tradirlo, giungendo così ad una condizione definita da alcuni studiosi come «anomia» (111). Negli ospedali psichiatrici le «coppie» o i «terzetti» possono essere tenuti nascosti alle autorità, ma non una sola cosa nota ad un intero reparto di pazienti riesce a sfuggire all'orecchio del sorvegliante. (Nelle prigioni, l'organizzazione dei detenuti è stata talvolta tanto forte da provocare sommosse e insurrezioni di breve durata; nei campi. per prigionieri di guerra, è stato talvolta possibile organizzare gruppi di prigionieri per trovare il modo di fuggire (112); nei campi di concentramento ci sono state periodiche organizzazioni sotterranee (113); sulle navi si sono avuti ammutinamenti; ma queste azioni di gruppo sembrano essere l'eccezione più che la regola). Tuttavia, benché nelle istituzioni totali vi sia abitualmente una scarsa lealtà di gruppo, il fatto che tale lealtà debba prevalere sul resto, fa parte della cultura degli internati e sottolinea l'ostilità con cui trattano chi rompe la solidarietà del gruppo.
Il sistema dei privilegi e i processi di mortificazione fin qui trattati, rappresentano le condizioni cui l'internato deve adattarsi, per fronteggiare le quali escogita mezzi individuali, oltre alle azioni eversive di carattere collettivo. Lo stesso internato userà forme diverse di adattamento, nelle diverse fasi della sua carriera morale, quando addirittura non ne alternerà i modi contemporaneamente.
Primo punto è il «ritiro dalla situazione». L'internato «ritira» apparentemente l'attenzione da tutto, riducendola ai soli eventi relativi al proprio corpo, eventi che vede in una prospettiva completamente diversa dagli altri. Questa massiccia riduzione del proprio coinvolgimento negli eventi che richiedono una partecipazione rispondente, è conosciuta - negli ospedali psichiatrici - sotto il nome di «regressione». La «psicosi carceraria» o l'«istituzionalizzazione carceraria» rappresentano lo stesso tipo di adattamento (114); così come alcune forme di «depersonalizzazione acuta» descritta nei campi di concentramento, e le «tankeriti» riscontrate tra i vecchi marinai delle navi mercantili (115). Non penso si sappia se questa linea di adattamento formi un continuum unico di gradi diversi di regressione, o se ve ne siano livelli standardizzati. Date le pressioni evidentemente necessarie per smuovere un internato dalla sua condizione, e date le abituali, limitate possibilità di farlo, questa linea di adattamento in realtà risulta spesso irreversibile.
Secondo punto è la «linea intransigente»: l'internato sfida intenzionalmente l'istituzione rifiutando, apertamente, di cooperare con il personale (116). Ne risulta un'intransigenza costantemente espressa e talvolta un alto spirito individualistico. In molti grandi ospedali psichiatrici, ad esempio, vi sono reparti nei quali prevale appunto questo spirito. Il fatto di continuare a rifiutare l'istituzione totale richiede spesso di mantenere un certo interesse nei confronti della sua organizzazione formale, e quindi - paradossalmente - un tipo profondo di coinvolgimento nell'intera istituzione. Analogamente, quando lo staff decide che l'internato intransigente deve essere domato (così come spesso accade negli ospedali psichiatrici quando si prescrive l'elettroshock (117), o nei tribunali militari quando prescrivono il carcere), allora l'istituzione dimostra tanta devozione al ribelle, quanta egli ne ha dimostrata nei suoi confronti. Infine, benché si sappia come alcuni prigionieri di guerra abbiano conservato una posizione permanentemente intransigente durante tutto il periodo della detenzione, l'intransigenza è, di solito, una fase iniziale e temporanea di reazione, quando l'internato tende a ritirarsi dalla situazione e si sposta verso altre forme di adattamento.
Un terzo tipo di adattamento nel mondo istituzionale è la «colonizzazione»: la parte di realtà di cui l'organizzazione provvede l'internato, è da questi vissuta come se si trattasse di tutta la realtà: viene cioè a costruirsi un'esistenza stabile e relativamente felice, basata sul massimo delle soddisfazioni che l'istituzione può offrire (118). Il mondo esterno serve come punto di riferimento per dimostrare quanto la vita istituzionale sia desiderabile, e la tensione usuale fra queste due dimensioni viene a ridursi sensibilmente, essendone impedite le motivazioni, dato che esse sono basate sul divario fra il mondo esterno, riconosciuto come peculiare di tutte le istituzioni totali. Di solito colui che accetta troppo facilmente questa linea di adattamento, viene accusato dai compagni di «aver trovato casa» o che «le cose non gli sono mai andate così bene». Il personale stesso può talvolta risultare vagamente imbarazzato dall'uso che viene fatto dell'istituzione, rendendosi conto che, in qualche modo, si sciupano le possibilità positive della situazione. I coloni possono sentirsi obbligati a negare il grado di soddisfazione con cui sono legati all'istituto, anche solo per essere solidali con gli altri internati. Potrebbe essere necessario «far baccano» proprio poco prima della loro già stabilita dimissione, trovando così il modo - apparentemente involontario - di continuare la detenzione. Quelli dello staff che tentano di rendere più sopportabile la vita nelle istituzioni totali, devono dunque comprendere che - così facendo - si possono trovare ad aumentare le attrattive e il possibile desiderio di una colonizzazione.
Un quarto modo di adattamento al sistema di un'istituzione totale è quello della «conversione»: il paziente sembra assumere su di sé il giudizio che in genere lo staff ha di lui, e tenta di recitare il ruolo del perfetto ricoverato. Mentre l'internato colonizzato si costruisce un mondo, per quanto gli è possibile, libero, sfruttando i pur limitati vantaggi ottenibili, l'internato che si è «convertito» segue una linea più disciplinata, più moralistica e monocromatica, presentandosi come colui che mette a completa disposizione dello staff il suo entusiasmo istituzionale. Nei campi per prigionieri di guerra cinesi troviamo americani che sono diventati dei «Pros» (proseliti) avendo interamente sposata la causa comunista (119). Sotto le armi ci sono reclute che dànno l'impressione di «fare i leccapiedi» per ottenere una promozione. Nelle carceri vi sono i «dritti». Nei campi di concentramento tedeschi, i vecchi prigionieri talvolta arrivavano ad adattare il vocabolario, gli svaghi, l'espressione aggressiva, il modo di vestire a quelli della Gestapo, recitando con rigore militare il loro ruolo di «uomini di paglia» (120). Alcuni ospedali psichiatrici differiscono da altri nell'offrire due diverse possibilità di conversione - una per il nuovo entrato, che può adottare dopo un certo travaglio interno per arrivare ad assumere il giudizio psichiatrico fatto su di lui; l'altra per il cronico, che adotta il modo di fare e di vestire dei sorveglianti aiutandoli anche a trattare gli altri pazienti con una severità che supera talvolta quella dei sorveglianti stessi. Naturalmente nei corsi per ufficiali si trovano reclute che diventano velocemente «G.I.» imponendo a se stessi un sacrificio che saranno presto in grado di imporre ad altri (121).
A questo proposito le istituzioni totali differiscono fra loro in modo assai significativo: molte infatti - come gli ospedali psichiatrici più moderni, le navi mercantili, i sanatori per T.B.C., e campi per il lavaggio del cervello - offrono all'internato l'opportunità di vivere su un modello di comportamento che è, insieme, ideale e raffigurato dallo staff; modello che viene naturalmente ritenuto, da chi lo propone, come escogitato nell'interesse di coloro ai quali viene proposto. Altre istituzioni totali, come alcuni campi di concentramento e alcune prigioni, non offrono, invece, ufficialmente un ideale di comportamento che l'internato debba far proprio.
I modi di adattamento fin qui discussi rappresentano tracce coerenti da seguire, ma pochi internati sembrano seguirne, a lungo, soltanto una. Nella maggior parte delle istituzioni totali, la maggioranza degli internati segue la linea che alcuni definiscono come «il prendersela calma». Il che significa una sorta di opportunistica combinazione di adattamenti secondari, conversione, colonizzazione, e senso di lealtà al gruppo, così che l'internato si trova a disporre - in particolari circostanze - del massimo di opportunità per poter uscirne fisicamente e psicologicamente indenne (122). Quando poi si troverà con i compagni ne appoggerà le ribellioni, nascondendo loro come sia docile quando si trovi solo con lo staff (123). Gli internati che «se la prendono calma» subordinano i loro rapporti con i compagni ad una finalità più alta, che è quella del «tenersi lontani dai guai»; in nessun caso si offrono volontari, e possono anche imparare a tagliare i legami col mondo esterno, quel tanto che basta per dare una realtà culturale al loro mondo interno, ma non tale da spingerli alla colonizzazione.
Ho fin qui suggerito alcuni adattamenti cui gli internati ricorrono per far fronte alle pressioni presenti nelle istituzioni totali. Ognuno di essi rappresenta il modo di dominare la tensione fra il mondo familiare e quello istituzionale. Tuttavia, talvolta il mondo familiare dell'internato è stato, di fatto, tale da immunizzarlo contro il desolato mondo istituzionale: a queste persone non occorrono particolari schemi di adattamento. Alcuni ricoverati di ospedali psichiatrici delle classi più povere, che abbiano passato la loro vita in orfanotrofi, riformatori e prigioni, tendono a vedere l'ospedale esattamente come un'altra istituzione totale, cui possono applicare le tecniche di adattamento, imparate e perfezionate in istituzioni analoghe. Per queste persone «prendersela calma» non rappresenta uno slittamento nella loro carriera morale, quanto piuttosto un adattamento già naturale. Analogamente i giovani dell'isola di Shetland, reclutati nel servizio mercantile britannico, non sembrano molto spaventati dalla vita di bordo pesante e faticosa, dato che la vita cui sono abituati nell'isola è ancora più stentata. Essi sono dei marinai che non si lamentano, semplicemente perché non hanno di che lamentarsi.
Qualcosa simile ad un effetto di immunizzazione viene raggiunto da alcuni internati che trovano, nell'istituzione, particolari compensi o qualche mezzo per risultare inattaccabili alla sua azione distruttiva. Nel primo periodo dei campi di concentramento nazisti, sembrava che i criminali trovassero un certo compenso nel vivere con prigionieri politici di ceto medio (124). Analogamente, il linguaggio borghese usato nella psichiatria di gruppo e l'ideologia interclassista dei concetti psicodinamici possono - nel caso di pazienti mentali delle classi più povere - offrire il più stretto contatto che essi siano mai riusciti ad avere, con quel mondo raffinato. Forti convinzioni religiose e forti convinzioni politiche sono servite ad isolare il vero credente dall'azione distruttiva di un'istituzione totale. L'impossibilità di parlare il linguaggio dello staff può spingere lo staff stesso a rinunciare ai suoi sforzi di ricupero, lasciando colui che non parla libero da ogni pressione (125).

7.
Vorrei ora prendere in esame alcuni temi dominanti della cultura dell'internato.
Primo, in molte istituzioni totali viene a formarsi un tipo ed un livello particolari di giudizio di sé. La posizione di debolezza, rispetto a quella di cui godevano nel mondo esterno, cui gli internati giungono attraverso l'iniziale processo di spoliazione, crea un'atmosfera di fallimento personale in cui viene costantemente riproposta la propria caduta in disgrazia. Come reazione, l'internato tende a costruirsi una storia, un precedente, una triste biografia - una sorta di lamentazione e di apologia - da raccontare continuamente ai compagni, per giustificare in qualche modo lo stato di degradazione in cui si trova. Il "sé" del ricoverato diventa, di conseguenza, il punto focale della sua conversazione e dei suoi interessi, molto più di quanto non succeda nel mondo esterno, così da spingerlo ad un notevole grado di pietà per se stesso (126). Benché lo staff discrediti costantemente queste storie gli altri ascoltatori tendono a mantenere un certo tatto, nascondendo le perplessità e la noia provocate da questi racconti. Così scrive un ex detenuto:

"Ancora più commovente risulta la delicatezza quasi generale con cui si indagano i misfatti degli altri, ed il rifiuto di determinare il rapporto sulla base del loro passato" (127).

Analogamente, negli ospedali psichiatrici di stato americani, il protocollo consente che un paziente chieda ad un altro in quale reparto o servizio si trovi, e da quanto duri la sua degenza; mentre domande relative alla causa per cui è ricoverato, non vengono subito richieste, e, nel caso vengano formulate, si tende ad accettarne la versione alterata che, quasi inevitabilmente, viene presentata.
Secondo, in molte istituzioni totali, è molto diffusa fra gli internati la sensazione che il tempo passato nell'istituto sia sprecato, inutile, o derubato dalla propria vita; si tratta di un tempo che deve essere cancellato; di qualcosa che deve essere «passato» o «segnato» o «accelerato» o «ritardato». Nelle prigioni e negli ospedali psichiatrici, un modo generale di giudicare il livello di adattamento dell'internato all'istituto, può essere espresso in termini di come passa il tempo, se bene o male (128). Si tratta di un tempo messo tra parentesi, da coloro che lo hanno vissuto, con un intendimento costante e consapevole, difficilmente riscontrabile nel mondo esterno. Come risultato, l'internato tende a sentire che per la durata del suo internamento - la sua condanna, appunto - egli è stato completamente esiliato dalla vita (129). E' in questo contesto che si può comprendere quale influenza demoralizzante possa avere la condanna per un tempo indefinito o per un tempo molto lungo (130).
Tuttavia, per quanto dure siano le condizioni di vita nella istituzione totale, la sola durezza del trattamento non può dare questo senso di vita sprecata; dobbiamo piuttosto guardare alla frattura sociale provocata dall'ingresso nell'istituto e dall'impossibilità usuale di ottenere, all'interno dell'istituzione, profitti trasferibili nel mondo esterno - denaro guadagnato, relazioni matrimoniali contratte, diplomi rilasciati per corsi seguiti. Uno dei vantaggi della teoria secondo la quale i «manicomi» sono ospedali per il trattamento di persone malate, è che i ricoverati che abbiano perso tre o quattro anni di vita in questa specie di esilio, possano tentare di convincersi di aver contribuito alla loro stessa cura; quindi, una volta guariti, il tempo speso nel trattamento può apparire ai loro occhi come un investimento utile e ragionevole.
Questo senso di «tempo morto» che incombe come una cappa di piombo può forse spiegare il compenso ricercato in quelle che possono definirsi attività di rimozione; vale a dire attività volontarie, non serie, che siano abbastanza interessanti e divertenti da allontanare da sé chi le fa, facendogli dimenticare, per il momento, la situazione nella quale vive. Se dunque si può dire che nelle istituzioni totali le attività normali torturano il tempo, queste attività lo uccidono pietosamente.
Alcune attività di rimozione sono collettive: i giochi nei prati, i balli, l'orchestra, la banda, il coro, la lettura, corsi d'arte (131), o di falegnameria, i giochi a carte; altre invece sono individuali, pur basandosi su materiale collettivo, come ad esempio leggere (132), o guardare da soli la televisione (133). Naturalmente sarebbe anche da includere ogni tipo di fantasia personale, così come Clemmer suggerisce, nella sua descrizione del «sovrappiù di fantasticheria» che si riscontrerebbe nei prigionieri (134). Alcune di queste attività possono essere ufficialmente permesse dallo staff; altre - non ufficialmente permesse - costituiscono un tipo di adattamento secondario: per esempio il gioco a carte, l'omosessualità, le «alzate di gomito» o le «sbornie» ottenute bevendo alcool industriale, spezie eccitanti o ginger (135). Che siano permesse ufficialmente o no, qualora alcune di queste attività diventino troppo interessanti o continue, è probabile che lo staff vi si opponga - come succede spesso con l'alcool, il sesso, e il gioco a carte - finché l'istituzione, e non qualche altra entità sociale compresa nell'istituzione, si impadronirà dell'internato.
Ogni istituzione totale può essere considerata come una sorta di mare morto, nel mezzo del quale pullulano piccole isole di attività vitali e molto stimolanti. Queste attività possono aiutare l'individuo a sostenere la tensione psicologica generalmente prodotta dagli attacchi al "sé". Tuttavia è proprio nell'insufficienza di queste attività che si può riconoscere l'effetto di privazione determinato dalle istituzioni totali. Nella società civile, un individuo costretto ad uno dei suoi ruoli sociali ha - di solito - l'opportunità di scivolare via in qualche zona protetta, dove poter abbandonarsi a fantasie consumistiche - cinema, T.V., radio, letture, - o servirsi di piccole «consolazioni» come fumare o bere. Nelle istituzioni totali, e in particolare subito dopo l'ammissione, queste opportunità possono risultare inaccessibili. Così, nel momento in cui si sente maggiormente la necessità di avere un rifugio su cui contare, può risultare più difficile ottenerlo (136).

8.
In questa analisi sul mondo dell'internato ho preso in esame i processi di mortificazione, le influenze tendenti alla ristrutturazione, le linee di difesa assunte dagli internati e l'ambiente culturale che viene a svilupparsi. Ora vorrei aggiungere un commento conclusivo su ciò che accade, abitualmente, quando l'internato viene dimesso e rimandato nel mondo esterno.
Sebbene i ricoverati progettino feste d'addio e tengano conto di minuto in minuto del tempo che li separa dalla loro dimissione, accade spesso che coloro i quali stanno per lasciare l'ospedale entrino in ansia di fronte a questa eventualità, tanto che taluni giungono - come si è già visto - a commettere qualche guaio per essere trattenuti ed evitare la dimissione. L'ansietà che l'internato prova di fronte alla possibilità di essere dimesso, assume spesso la forma di una domanda che egli pone a se stesso e agli altri: «Ce la farò fuori?» Il che mette in evidenza come la vita civile sia qualcosa che produce ansia e preoccupazioni. Ciò che, per coloro che vivono nel mondo esterno, è uno sfondo non percepito per figure percepite, all'internato appare invece come una figura su uno sfondo più vasto. Questa prospettiva è forse scoraggiante, dato che coincide con uno dei motivi per cui gli ex ricoverati vedono spesso come possibile il loro «rientro» nell'istituto, e un numero considerevole vi fa realmente «ritorno».
Le istituzioni totali presentano, abitualmente, una finalità riabilitante; tendono cioè a ricomporre i meccanismi regolatori del "sé" del paziente, così che egli - una volta lasciato l'istituto - si troverà a conservarne spontaneamente i valori. (Ci si aspetta infatti che lo staff agisca realmente nel processo di ristrutturazione del "sé" di colui che entra nell'istituzione totale, dividendo in ciò, con altri tipi di organizzazioni, l'idea che basti soltanto impararne la procedura). In realtà, questi mutamenti si realizzano raramente e, anche quando si verificano alterazioni di una certa durata, esse spesso non corrispondono a ciò che lo staff presume di produrre. Se si eccettua il caso di alcune istituzioni religiose, né i processi di spoliazione né quelli tendenti alla ristrutturazione, sembrano avere effetti duraturi (137), ciò a causa - in un certo limite - della possibilità di mettere in atto adattamenti secondari, dell'esistenza di controregole, e della tendenza da parte degli internati ad escogitare ogni mezzo per sopravvivere.
Naturalmente, subito dopo le dimissioni, l'internato troverà meravigliosi la libertà e i piaceri della vita che coloro che vivono nel mondo civile abitualmente non ritengono affatto eccezionali - l'aspro odore dell'aria fresca, il poter parlare quando se ne ha voglia, l'usare un intero fiammifero per accendere una sigaretta, prendere uno spuntino da solo ad un tavolo pronto per quattro persone (138). Una malata mentale, di ritorno in ospedale dopo un fine settimana passato a casa, racconta la sua esperienza ad un crocchio di amiche che l'ascoltano attentamente:

"La mattina mi sono alzata, sono scesa in cucina, e mi sono fatta il caffè; era meraviglioso. Alla sera abbiamo preso un paio di birre, e mangiato del chili; è stato magnifico, veramente magnifico. E non ho scordato un solo istante di essere libera" (139).

Tuttavia, poco dopo la dimissione, l'ex internato dimentica in gran parte ciò che era stata la sua vita nell'istituto, e ricomincia a prendere per garantiti i privilegi attorno ai quali si organizzava la vita di segregazione. Il senso di ingiustizia, l'amarezza, l'alienazione, così tipicamente prodotti dall'esperienza dell'internamento e che così comunemente segnavano le tappe della sua carriera morale, sembrano mano a mano indebolirsi.
Ma ciò che l'ex internato conserva della sua esperienza istituzionale, ci può dire qualcosa di molto importante sulle istituzioni totali. Spesso il momento del ricovero significa, per la recluta, essere assunto in ciò che si potrebbe definire una condizione predeterminante: ciò significa che non soltanto la sua posizione all'interno dell'istituto risulta radicalmente diversa da ciò che era «fuori»; ma, come egli si troverà ad imparare (se e quando sarà dimesso) la sua posizione sociale nel mondo esterno non potrà mai più essere quella che era, prima del ricovero. Nelle situazioni in cui la condizione predeterminante sia relativamente favorevole (come per coloro i quali si diplomano all'accademia militare, o in collegi e monasteri di élite eccetera) le allegre riunioni ufficiali hanno il significato di annunciare, con un certo orgoglio, la propria appartenenza alla scuola di origine. Ma qualora la condizione predeterminante sia sfavorevole, così come lo è per coloro che provengono dalle prigioni o dagli ospedali psichiatrici, si può usare il termine «stigmatizzazione», presumendo che l'ex internato si sforzi di nascondere il suo passato e tenti di «passare oltre».
Secondo quanto suggerisce uno studioso (140), l'azione determinante dello staff consiste nel suo potere di concedere il tipo di dimissione che riduca il livello di stigmatizzazione dell'internato. Gli ufficiali delle prigioni militari possono dimostrare che il recluso è in grado di essere reintegrato nel suo posto di lavoro e quindi, potenzialmente, può avere una scarcerazione onorevole; il direttore di un ospedale psichiatrico può consegnare un «certificato di guarigione» (dimesso come guarito) oltre a raccomandazioni personali. Da ciò deriva il fatto che gli internati, in presenza dello staff curante, fingano talvolta un certo entusiasmo per ciò che l'istituto fa per loro.
Ritorniamo ora a considerare l'ansia della dimissione. Essa potrebbe essere ritenuta il risultato della mancanza di volontà dell'internato, che è ancora troppo «malato» per far fronte alle responsabilità dalle quali l'istituzione totale lo ha liberato. Ma la mia esperienza personale nell'indagine di un tipo di istituzione totale - l'ospedale psichiatrico - tende a minimizzare questo fattore. Più importante sembra invece la disculturazione, cioè la perdita o la mancanza di cognizioni circa alcune abitudini ritenute indispensabili nella società libera. Altro fattore è la stigmatizzazione. Qualora un individuo abbia assunto una condizione predeterminante vergognosa per il fatto di essere stato internato in un ospedale psichiatrico, trova nel mondo esterno un'accoglienza gelida, che avvertirà nel momento (difficile anche per chi non sia soggetto ad alcuno stigma) in cui chiederà lavoro o un luogo per vivere. Inoltre, la dimissione giunge spesso nel momento in cui l'internato ha finalmente imparate le regole dell'istituto ed è riuscito ad ottenere quei privilegi che - come ha faticosamente appreso - sono tanto importanti nella realtà istituzionale. Egli può dunque avvertire che essere dimesso significa precipitare dalla sommità di un piccolo mondo, al fondo di un mondo più grande. Inoltre, quando ritorna nella comunità esterna, può trovarsi a dover vivere limitato nella propria libertà. Per esempio alcuni campi di concentramento richiedevano al prigioniero di firmare l'atto di scarcerazione, testimoniando di essere stato trattato correttamente, avvisato delle conseguenze cui sarebbe andato incontro qualora avesse sparlato del sistema (141). In alcuni ospedali psichiatrici un internato pronto per la dimissione, può essere interrogato un'ultima volta, per scoprire se egli nutra o no risentimento nei confronti dell'istituzione, o verso i responsabili del suo ricovero; ed è diffidato dal creare guai al riguardo. Inoltre dovrà spesso promettere di chiedere aiuto qualora «si senta ancora male» o si trovi in difficoltà. Spesso l'ex malato mentale viene a conoscenza del fatto che la famiglia e il datore di lavoro sono stati invitati a mettersi in contatto con le autorità ospedaliere, nel caso dovesse esservi qualcosa che non va. Per colui il quale esce di prigione, vi può essere un impegno formale, con l'obbligo di presentarsi regolarmente al controllo, e di tenersi lontano dai circoli dai quali proveniva prima dell'arresto.


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