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Il capro espiatorio 12.
IL RINNEGAMENTO DI PIETRO.


Per descrivere l'effetto che la passione produrrà su di loro, Gesù cita ai suoi discepoli il profeta Zaccaria: «Io percuoterò il pastore e le pecore si disperderanno» (Zac., 13, 7; Marco, 14, 27). Subito dopo l'arresto, avviene lo sbandamento. L'unico a non fuggire è Pietro. Egli segue a distanza il corteo e finisce con l'introdursi nel cortile del sommo sacerdote, mentre Gesù viene brutalmente interrogato nello stesso palazzo. Pietro riesce a penetrare in quel cortile grazie alla raccomandazione di un frequentatore abituale del posto, «un altro discepolo» che si è unito a lui. L'«altro discepolo» non è nominato ma si tratta probabilmente dello stesso apostolo Giovanni.
Pietro, ci dice Marco, aveva seguito Gesù da lontano, «fino all'interno del palazzo del sommo sacerdote e se ne stava seduto insieme ai servi, scaldandosi al fuoco» (Marco, 14, 54). Niente di più naturale di questo fuoco in una notte di marzo a Gerusalemme. «I servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo e stavano lì a scaldarsi. Anche Pietro era lì con loro e si scaldava » (Giov., 18,18).
Pietro fa quello che fanno gli altri, per le stesse ragioni degli altri. Imita già gli altri, ma in questo non c'è niente di strano, a quanto sembra. Fa freddo e tutti i presenti si stringono intorno al fuoco. Pietro fa lo stesso, insieme con loro. Sembra davvero che non occorra aggiungere altro. I dettagli concreti, tuttavia, sono tanto più significativi quanto più un testo ne è avaro. Tre evangelisti su quattro parlano di questo fuoco. Devono avere buone ragioni per farlo. E' nel testo di Marco, il più "primitivo", come viene sempre detto, che bisogna provare a scoprirle.
Mentre Pietro era giù nel cortile, giunse una delle serve del sommo sacerdote. Vedendo Pietro che stava lì a scaldarsi, lo fissò e gli disse:

«'Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù'. Ma egli negò: 'Non so, non capisco quello che vuoi dire'. Andò quindi fuori verso il vestibolo. La serva, avendolo visto, ricominciò a dire ai presenti: 'Ecco uno di quelli'. Ma egli negò di nuovo. Dopo un poco, a loro volta, i presenti dissero a Pietro: 'Tu sei certo uno di quelli; e d'altronde sei Galileo'. Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: 'Non conosco l'uomo di cui parlate'. E, immediatamente, per la seconda volta, cantò un gallo. E Pietro si ricordò delle parole che Gesù gli aveva detto: 'Prima che il gallo canti due volte, tu mi rinnegherai tre volte'. E scoppiò in pianto» (Marco, 14, 66-72).

Si pensa subito che Pietro menta sfrontatamente, e il rinnegamento di Pietro deriverebbe da questa menzogna; ma niente è più raro della menzogna pura e semplice e qui, a pensarci bene, i suoi contorni non sono affatto chiari. Che cosa viene chiesto a Pietro, in sostanza? Gli viene chiesto di confessare che è con Gesù. Ora, dal momento dell'arresto, appena avvenuto, non c'è più nessuno intorno a Gesù, né discepoli né comunità. Né Pietro né altri, ormai, è veramente con Gesù. Come sappiamo tutti, i filosofi esistenziali hanno visto nell'"essere con" una modalità importante dell'essere. Martin Heidegger usa per essa il termine "Mitsein" che, letteralmente, si traduce "essere con".
L'arresto sembra distruggere ogni possibilità di futuro all'"essere con Gesù" e Pietro ha perduto, a quanto sembra, persino il ricordo del suo essere passato. Risponde un po' come in sogno, come un uomo che veramente non sa più che cosa gli stia succedendo: "Non so, non capisco quello che vuoi dire". Forse è vero, che non capisce. Si trova in uno stato di indigenza e di spossessione tale che è ridotto a una esistenza vegetativa, limitata ai riflessi elementari: fa freddo ed egli si gira verso il fuoco. Farsi largo con i gomiti per avvicinarsi al fuoco, tendere le mani verso il fuoco insieme con gli altri, significa agire come se fosse già uno di loro, come se fosse con loro. I gesti più semplici hanno una loro logica, che è sempre una socio-logica, una bio-logica, e tanto più imperiosa quanto più si pone molto al di sotto della coscienza.
Pietro aspira soltanto a scaldarsi con gli altri ma, privo com'è di "Mitsein", a causa del crollo del suo universo, non può scaldarsi senza aspirare oscuramente all'essere che brilla lì, in quel fuoco, ed è proprio questo essere che indicano silenziosamente tutti gli occhi che lo guardano, tutte le mani che si protendono insieme verso il fuoco.
Un fuoco nella notte è molto di più di una fonte di calore e di luce. Appena si accende, ci si dispone in cerchio intorno a esso; gli esseri e le cose si riformano. Un attimo prima non c'era che un semplice raggruppamento, una specie di folla in cui ognuno era solo con se stesso ed ecco che ora vi è un accenno di comunità. Le mani e i volti si protendono verso la fiamma e in cambio ne sono rischiarati; è come la risposta benevola di un dio alla preghiera che gli viene rivolta. Per il fatto stesso di guardare tutti il fuoco, gli uomini non possono più evitare di guardarsi gli uni gli altri; e possono ora scambiare sguardi e parole; si stabilisce lo spazio per una comunione e per una comunicazione.
A causa di questo fuoco, sorgono nuove, vaghe possibilità di "Mitsein". L'"essere con" si profila di nuovo per Pietro, ma in un altro luogo, con altri compagni.
Marco, Luca e Giovanni nominano il fuoco una seconda volta, nel momento in cui, in Marco e Luca, la serva interviene per la prima volta. Si direbbe che è la presenza di Pietro vicino a quel fuoco, piuttosto che la sua presenza nel cortile, a suscitare questo intervento: "Vedendo Pietro che stava a scaldarsi, la serva lo fissò e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù»".
Pietro si è probabilmente fatto largo tra gli altri, ed eccolo vicinissimo alla fiamma, in piena luce, dove tutti possono vederlo. Pietro, come sempre, ha agito troppo in fretta, si è spinto troppo in avanti. Il fuoco permette alla serva di riconoscerlo nell'oscurità; ma il punto importante non è questo. La serva probabilmente non capisce bene che cosa la scandalizzi nell'atteggiamento di Pietro, che cosa la spinga a rivolgersi a lui con insolenza, è comunque qualcosa che, nel vangelo di Marco, ha a che fare con il fuoco. Il compagno del Nazareno si comporta come se fosse a casa sua, come se avesse già un proprio posto intorno a quel fuoco. In assenza del fuoco, la serva non proverebbe quella sorta di indignazione che la spinge contro Pietro. Il fuoco è molto di più di un semplice scenario. L'"essere con" non può diventare universale senza perdere il proprio valore. Per questo poggia su esclusioni. La serva parla soltanto dell'"essere con Gesù", ma vi è un secondo "essere con" ed è l'essere intorno al fuoco, proprio quello che interessa la serva perché è il suo, lei intende chiaramente difendere la sua integrità; perciò rifiuta a Pietro il diritto di scaldarsi intorno a questo fuoco.
Giovanni fa della serva una portinaia, la guardiana del portone d'entrata. E' lei che autorizza Pietro a penetrare nel cortile grazie alla raccomandazione dell'altro discepolo, e fa veramente la parte d'una guardiana. In se stessa, l'idea è eccellente, ma porta l'evangelista a sostenere che Pietro viene riconosciuto subito, prima ancora che si avvicini al fuoco. Dunque non è più alla luce di quel fuoco che la serva riconosce l'intruso, non è più il carattere intimo e rituale della scena che suscita la sua indignazione. In Giovanni, d'altronde, non è il coro di tutti i servi a interpellare Pietro per la terza volta, ma un individuo presentato come parente di colui al quale Pietro aveva tagliato l'orecchio (in un vano sforzo di difendere con la violenza Gesù nel momento del suo arresto). Giovanni dà la preferenza all'interpretazione tradizionale che vede nel rinnegamento un solo motivo, la paura. Pur senza escludere del tutto la paura, ovviamente, non bisogna comunque lasciare ad essa un ruolo decisivo. A ben vedere, del resto, le quattro versioni, persino quella di Giovanni che dapprima sembrerebbe confermarla, si oppongono a questa lettura. Se Pietro temesse veramente per la sua vita, come fa notare la maggior parte dei commentatori, non sarebbe mai entrato in questo cortile, soprattutto se fosse stato riconosciuto prima ancora di entrarvi. Si sarebbe sentito subito minacciato e sarebbe fuggito.
Al richiamo della serva, certo, la cerchia perde il suo carattere fraterno e Pietro vorrebbe sgusciare via senza essere visto. Ma c'è molta gente dietro di lui, è troppo vicino al centro e la serva non ha difficoltà a seguirlo con lo sguardo durante la sua ritirata verso il vestibolo. Una volta giunto lì, lui prende tempo, aspetta il seguito degli avvenimenti. La sua condotta non è quella di un uomo che ha paura. Pietro si allontana dalla luce e dal calore perché intuisce oscuramente ciò che preoccupa la serva, ma non va via. Proprio per questo la serva può tornare alla carica. Non cerca di terrorizzare Pietro, ma di metterlo in imbarazzo per costringerlo a sloggiare.
Vedendo che Pietro non se ne va, la serva ci prende gusto ed enunciando una seconda volta il suo messaggio, proclama l'appartenenza di Pietro al gruppo dei discepoli: «Ecco uno di quelli! ». La prima volta si è rivolta direttamente a Pietro, pur indirizzandosi già a quelli del suo gruppo, a quelli che si scaldano intorno al fuoco, i membri della comunità minacciata dall'invasione di un estraneo. Voleva mobilitarli contro l'intruso. Questa volta si rivolge direttamente a loro e ottiene il risultato sperato; sarà l'intero gruppo a ripetere in coro a Pietro: "Sei uno di quelli!" Il tuo "essere con" non è qui, è con il Nazareno. Nello scambio che segue, è Pietro che alza il tono, è lui che comincia "a imprecare e a giurare". Se temesse per la sua vita, o persino per la sua libertà, parlerebbe a voce più bassa.
La superiorità di Marco, in questa scena, sta nel fatto che fa parlare due volte di seguito la stessa serva, invece di dare subito la parola ad altri personaggi. La sua serva ha più spessore. Dà prova di iniziativa, è lei che scuote tutto il gruppo. Diremmo oggi che ha qualità di "leader". Ma come sempre bisogna diffidare dello psicologismo; non è la personalità della serva ciò che interessa Marco, ma il modo in cui lei fa scattare un meccanismo di gruppo, il modo in cui aziona il mimetismo collettivo.
Già la prima volta, come dicevo, cerca di risvegliare il gruppo intorpidito dall'ora tarda e dal calore del fuoco. Vuole che il suo esempio sia seguito e, siccome non lo è, è lei stessa che lo segue per prima. La sua lezione non ha avuto esito, ne dà una seconda che è inevitabilmente una ripetizione della prima. I capi sanno che bisogna trattare da bambini coloro che li seguono; bisogna sempre suscitare l'imitazione. Il secondo esempio rafforza l'effetto del primo e questa volta funziona, tutti i presenti ripetono con bella sintonia: "Tu sei certo uno di quelli; e d'altronde sei Galileo".
Il mimetismo non è caratteristico soltanto di Marco, la scena del rinnegamento è completamente mimetica in tutti e quattro i Vangeli, ma in Marco la molla mimetica si evidenzia meglio, già in partenza, nella funzione del fuoco e in quella della serva. Marco è l'unico a costringere la serva ad agire per ben due volte per innescare la macchina mimetica. Essa si pone come modello e per renderlo più efficace lo imita per prima, mette in rilievo il proprio carattere di modello, precisa, mimeticamente, quello che si aspetta dai compagni.
Gli alunni ripetono ciò che dice la loro maestra. Le parole della serva vengono dunque ripetute alla lettera, ma viene aggiunto qualcosa che rivela mirabilmente ciò che si svolge sulla scena del rinnegamento: "e d'altronde sei Galileo". Illuminato dapprima dal fuoco e rivelato dall'aspetto, Pietro è definitivamente riconosciuto per il suo linguaggio. Matteo mette i puntini sulle i come al solito, facendo dire ai persecutori di Pietro: "e d'altronde il tuo linguaggio ti tradisce". Tutti coloro che si scaldano intorno al fuoco con la coscienza a posto sono di Gerusalemme. Dunque essi "sono dei nostri". Pietro ha parlato solo due volte, e ogni volta per dire soltanto poche parole, ma questo basta perché i suoi interlocutori riconoscano infallibilmente in lui il forestiero, il provinciale sempre un po' disprezzabile, il Galileo. Chi parla con un altro accento, "non è mai uno dei nostri". Il linguaggio è il segnale più sicuro dell'"essere con". Proprio per questo Heidegger e quelli delle scuole affini danno grande importanza alla dimensione linguistica dell'essere. La specificità della lingua nazionale o regionale è fondamentale. Ovunque si ripete che l'essenziale, in un testo o anche in una lingua, ciò che dà ad esso il suo valore, è intraducibile. I Vangeli sono sentiti come inessenziali perché scritti in un greco imbastardito, cosmopolita e privo di prestigio letterario. Sono inoltre perfettamente traducibili e si dimentica presto, leggendoli, in quale lingua li si legga, per poco che la si conosca, sia essa l'originale greco, la vulgata latina, il francese, il tedesco, lo spagnolo, l'inglese, eccetera. Quando si conoscono i Vangeli, la loro traduzione in una lingua sconosciuta è un eccellente mezzo per penetrare, a buon mercato, nell'intimità di quella lingua. I Vangeli sono tutto per tutti quanti; non hanno accento perché hanno tutti gli accenti.
Pietro è un adulto e il suo modo di parlare è fissato una volta per tutte. Non può cambiarlo. Non riesce a imitare perfettamente l'accento della capitale. Avere il "Mitsein" voluto non significa semplicemente dire le stesse cose che dicono gli altri, ma dirle nello stesso modo. La minima sfumatura nell'intonazione può tradirvi. Il linguaggio è un'ancella traditrice o troppo fedele, che non smette di gridare l'identità reale di chiunque provi a nasconderla.
Tra Pietro e i suoi interlocutori scatta una rivalità mimetica nella quale è in gioco il "Mitsein" che danza tra le fiamme. Pietro cerca furiosamente di 'integrarsi', ossia di dimostrare l'eccellenza della sua imitazione, ma i suoi antagonisti si dirigono senza esitare verso l'aspetto più inimitabile del mimetismo culturale, il linguaggio, appunto, che appartiene alle regioni inconsce della psiche.
Più l'appartenenza è radicata, 'autentica', non sradicabile, più riposa su idiotismi che paiono profondi, ma che forse sono insignificanti, vere e proprie idiozie, non solo nel senso che la parola ha oggi ma anche nel senso del greco "idios", che significa «proprio». Più una cosa ci appartiene in proprio e più di fatto le apparteniamo; questo non vuol dire che essa sia particolarmente 'inesauribile'. Accanto al linguaggio vi è la sessualità. Giovanni ci comunica che la serva è giovane, ed è forse un dettaglio significativo.
Siamo tutti dei posseduti, sia dal linguaggio sia dal sesso. Certamente, ma perché dirlo sempre con il tono del posseduto? Potremmo fare di meglio. Pietro vede ormai chiaramente che non inganna nessuno e se si accanisce a rinnegare il suo maestro, non è più per convincere, bensì per troncare i legami che lo univano a Gesù e nello stesso tempo stringerne altri con quelli che lo circondano: "Pietro cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco l'uomo di cui parlate»".
Si tratta di un legame propriamente religioso, da "religare", legare, ed è per questo che Pietro ricorre alle "imprecazioni" - come Erode con la sua offerta esorbitante a Salomè. La violenza e i moti di collera non prendono di mira gli interlocutori di Pietro, ma Gesù stesso. Pietro fa di Gesù la sua vittima per non essere più una specie di vittima subalterna in cui è trasformato prima dalla serva e poi dall'intero gruppo. Ciò che costoro fanno a Pietro, Pietro vorrebbe farlo a loro. Ma non può: non è abbastanza forte per vincere con la vendetta. Cerca dunque di conciliarsi i suoi nemici facendo lega con loro contro Gesù, trattando Gesù, secondo la loro intenzione e davanti a loro, esattamente come loro stessi lo trattano. Agli occhi di questi servi leali, Gesù non può essere che un delinquente, se si è creduto opportuno arrestarlo, se lo si interroga con brutalità. Il miglior modo di farsi degli amici, in un universo ostile, è sposare le inimicizie, adottare i nemici degli altri. Ciò che diciamo a questi altri, in quei casi, non varia mai molto, e il senso delle nostre parole è sempre questo; «Siamo tutti della stessa famiglia, di un solo e identico gruppo perché abbiamo lo stesso capro espiatorio».
All'origine del rinnegamento c'è forse una certa paura, ma c'è soprattutto la vergogna. Come l'arroganza di Pietro poco fa, la vergogna è un sentimento mimetico, è senz'altro il sentimento mimetico per eccellenza. Per provarlo, bisogna che io mi guardi con gli stessi occhi di chi mi fa vergogna. Bisogna dunque immaginare intensamente, il che equivale a imitare servilmente. Immaginare, imitare, in verità questi due termini sono la stessa cosa. Pietro ha vergogna di quel Gesù che tutti disprezzano, vergogna del modello che si è dato, vergogna, di conseguenza, di ciò che lui stesso è.
Il desiderio di essere accettato aumenta in proporzione agli ostacoli che gli vengono frapposti. Pietro è dunque pronto a pagare a caro prezzo l'ammissione che la serva e i suoi amici gli rifiutano, ma l'intensità del suo desiderio è del tutto circoscritta e temporanea, suscitata dall'accanimento del gioco. E' questa una delle piccole vigliaccherie nelle quali tutti cadono e che, dopo, nessuno si ricorda di avere commesso. Che Pietro tradisca il suo maestro, in modo così meschino, non dovrebbe dunque sorprenderci; lo facciamo tutti. Ciò che sorprende, invece, è la struttura persecutoria e sacrificale che ritroviamo intatta nella scena del rinnegamento, ritrascritta tutta quanta, e altrettanto fedelmente, come nell'episodio dell'assassinio di Giovanni Battista o nel racconto della passione.
E' alla luce di questa identità strutturale, penso, che bisogna interpretare certe parole di Matteo; il loro significato legale è solo un'apparenza. Ciò che Gesù comunica realmente agli uomini è l'equivalenza strutturale di tutti i comportamenti persecutorii:

«Avete appreso che è stato detto agli antichi: "Non uccidere"; e chi avrà ucciso ne risponderà a un tribunale. Ebbene, io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello ne risponderà a un tribunale; ma chi dice a suo fratello: 'Raqa!', ne risponderà al Sinedrio, e chi gli dice: 'Rinnegato!', ne risponderà nel fuoco della Geenna» (Matteo, 5, 21-22).

Per non farsi crocifiggere, il modo migliore è, in ultima analisi, di fare come tutti gli altri e partecipare alla crocifissione. Il rinnegamento è dunque un episodio della passione, una specie di risucchio, un breve vortice nella vasta corrente del mimetismo vittimario che spinge tutti verso il Golgota.
La temibile potenza del testo viene subito verificata dal fatto che non si può misconoscerne il vero significato senza subirne il contraccolpo, senza riprodurre la struttura del rinnegamento stesso. Il più delle volte ciò sfocia in una «psicologia del principe degli Apostoli». Fare la psicologia di qualcuno è sempre, in qualche modo, fare il suo processo. Quello di Pietro finisce con un'assoluzione velata da un certo biasimo. Benché non del tutto cattivo, Pietro non è neppure del tutto buono. Non si può contare su di lui. E' un tipo mutevole, impulsivo, con un carattere un po' debole. Assomiglia a Pilato, insomma, e Pilato assomiglia discretamente a Erode, il quale assomiglia a chiunque. Niente di più monotono, in ultima analisi, niente di più semplicistico di questa psicologia mimetica dei Vangeli. Forse non è nemmeno una psicologia. Vista da lontano, è simile all'infinita varietà delle persone, tanto divertente, avvincente, ricca; vista da vicino, è sempre fatta degli stessi elementi, come la nostra personale esistenza, che a dire il vero non ci diverte molto.
Insomma, intorno al fuoco, risorge la religione di sempre, inevitabilmente accompagnata da sacrifici, quella che difende l'integrità del linguaggio e dei Lari, la purezza del culto familiare. Pietro è attratto da tutto questo ed è una cosa 'naturale': anche noi ne siamo attratti se rimproveriamo al dio biblico di volercene privare. Per pura cattiveria, diciamo. Bisogna essere davvero cattivi per rivelare la dimensione persecutoria di questa religione immemoriale che ci tiene ancora avvinti con vincoli indicibili. E' vero: il Vangelo non è affatto tenero verso i turpi persecutori, quali noi tutti restiamo. Mette a nudo fin nei nostri più banali comportamenti, oggi stesso, intorno al fuoco, il gesto antico dei sacrificatori aztechi e dei cacciatori di streghe che precipitavano le loro vittime nelle fiamme.
Come tutti i transfughi, Pietro dimostra la sincerità della sua conversione accanendosi sui suoi amici di una volta. Se vediamo le implicazioni morali del rinnegamento, bisogna anche vederne la dimensione antropologica. Con le sue bestemmie e imprecazioni, Pietro suggerisce a quelli che lo circondano di formare insieme a lui una congiura. Qualsiasi gruppo di uomini legati da un giuramento forma una "congiura", ma questo termine viene usato preferibilmente quando, all'unanimità, il gruppo si dà come scopo la morte o la scomparsa di un individuo importante. E lo si applica anche ai riti di espulsione demoniaca, alle pratiche magiche destinate a combattere la magia.
In numerosi riti di iniziazione, la prova consiste in un atto di violenza: l'uccisione di un animale, a volte anche quella di un uomo sentito come avversario del gruppo nel suo insieme. Per conquistare l'appartenenza, bisogna trasformare questo avversario in vittima. Pietro ricorre ai giuramenti, ossia a formule religiose, per dare forza iniziatica al suo rinnegamento di fronte ai persecutori.
Per interpretare in maniera corretta il rinnegamento, inoltre, bisogna tener conto di tutto ciò che lo precede nei Vangeli sinottici e in particolare delle due scene che più direttamente lo preparano e lo annunciano. Sono i due principali annunci della passione fatti dallo stesso Gesù. La prima volta, Pietro non vuole sentire niente: «Dio te ne scampi, Signore! No, questo non ti accadrà mai!». Questa reazione corrisponde all'atteggiamento di tutti i discepoli. All'inizio, come è inevitabile, l'ideologia del successo domina questo piccolo mondo. Ci si contende i posti migliori nel regno di Dio. Ci si sente "mobilitati" per la buona causa. Tutta la comunità è travagliata dal desiderio mimetico e, di conseguenza, incapace di vedere la vera natura della rivelazione. In Gesù vede soprattutto il taumaturgo, il trascinatore di folle, il capo politico.
La fede dei discepoli resta impregnata di messianesimo trionfante. Non per questo è meno reale. Pietro lo ha ben mostrato, ma una parte di lui misura ancora l'avventura che sta vivendo col metro del buon esito mondano. Che senso può avere un impegno che va soltanto verso la sconfitta, la sofferenza e la morte?
In quell'occasione, Pietro viene severamente redarguito: "Indietreggia, Satana! tu mi scandalizzi" [mi sei di ostacolo] (Matteo, 16, 23). Quando gli si fa osservare che si sbaglia, Pietro cambia subito direzione e si mette a correre nell'altro senso alla stessa velocità di prima. Al secondo annuncio della passione, soltanto poche ore prima dell'arresto, Pietro reagisce in modo completamente diverso dalla prima volta. Gesù disse loro: "Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia, questa notte stessa".

«E Pietro prese la parola e gli disse: 'Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai'. Gli disse Gesù: 'In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte'. Pietro gli rispose: 'Anche se dovessi morire con te, no, non ti rinnegherò'. Lo stesso dissero tutti i discepoli» (Matteo, 26, 33-35).

L'apparente fermezza di Pietro è tutt'uno con l'intensità del suo mimetismo. Il 'discorso' si è capovolto dopo il primo annuncio, ma il fondo non è cambiato, e la stessa cosa avviene in tutti i discepoli, che ripetono sempre quello che dice Pietro perché sono tutti mimetici come lui. Imitano Gesù per il tramite di Pietro.
Gesù vede che questo zelo è gravido del futuro abbandono. Dopo il suo arresto, lo sa bene, il suo prestigio mondano crollerà, ed egli non potrà più offrire ai suoi discepoli il tipo di modello offerto fino a quel momento. Tutte le sollecitazioni mimetiche verranno da individui e da gruppi ostili alla sua persona e al suo messaggio. I discepoli, e soprattutto Pietro, sono troppo influenzabili per non essere nuovamente influenzati. Il testo evangelico ce lo ha ben mostrato nei passi che ho appena commentato. Il fatto che il modello sia lo stesso Gesù non significa nulla, finché esso viene imitato secondo i modi dell'avidità di conquista, sempre identica fondamentalmente all'alienazione del desiderio.
Il primo voltafaccia di Pietro non ha niente di condannabile in sé, naturalmente, ma non è privo di desiderio mimetico, cosa di cui Gesù si accorge. Vi legge l'annuncio di un nuovo voltafaccia, che assumerà inevitabilmente la forma di un rinnegamento, vista la catastrofe che si prepara. Il rinnegamento è dunque razionalmente prevedibile. E Gesù, prevedendolo, non fa che trarre per il futuro più vicino le conseguenze di ciò che ha già osservato. Gesù fa insomma la stessa analisi che facciamo noi: confronta le successive reazioni di Pietro all'annuncio della passione per dedurne la probabilità del tradimento. La prova che le cose stanno così è che la profezia del rinnegamento costituisce una risposta diretta alla seconda esibizione mimetica di Pietro, e il lettore, per formare il proprio giudizio, dispone degli stessi dati di Gesù. Se si capisce il desiderio mimetico, non si può non giungere alle stesse conclusioni. Si è dunque portati a pensare che il personaggio chiamato Gesù capisca questo desiderio così come lo capiamo noi. E' questa comprensione a rivelare la razionalità del legame tra tutti gli elementi della sequenza formata dai due annunci della passione, la profezia del rinnegamento e il rinnegamento stesso.
Si tratta proprio del desiderio mimetico, nella prospettiva di Gesù, giacché Gesù ricorre ogni volta al termine che indica questo desiderio, lo "scandalo", per descrivere le reazioni di Pietro, compreso il rinnegamento: "Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia, questa notte stessa". E quanto più vittime dello scandalo siete già, tanto più sicuramente vi scandalizzerete. La vostra stessa certezza di non esserlo, la vostra illusione di invulnerabilità parla chiaramente della vostra condizione reale e dell'avvenire che si prepara. Il mito della differenza individuale che Pietro difende dicendo "io" è anch'esso mimetico. Pietro si sente il più autentico di tutti i discepoli, il più capace di essere il vero emulo di Gesù, unico vero proprietario del suo modello ontologico.
Rivaleggiando sotto i suoi occhi in false espressioni di affetto, le cattive gemelle del re Lear convincono il padre di amarlo appassionatamente. L'infelice s'illude che è il puro affetto a nutrire la loro rivalità, mentre è il contrario. E' la pura rivalità a suscitare una parvenza di affetto. Gesù non cade mai nel cinismo, ma neppure soccombe di fronte a questo genere di illusioni. Senza confondere Pietro con una gemella di Lear, si deve riconoscere in lui la marionetta di un desiderio analogo, dal quale egli non sa di essere posseduto proprio poiché lo è; solo più tardi egli intravede la verità, quando, dopo il rinnegamento, scoppia a piangere al pensiero del suo maestro e della sua predizione.
In questa scena mirabile dove Pietro e i discepoli danno prova di un falso ardore per la passione, i Vangeli ci propongono una satira "ante litteram" di un certo fervore religioso che, dobbiamo riconoscerlo, è specificamente 'cristiano'. I discepoli inventano un nuovo linguaggio religioso, il linguaggio della passione. Rinunciano all'ideologia della felicità e del successo, ma trasformano la sofferenza e l'insuccesso in un'ideologia molto simile, in una nuova macchina mimetica e sociale che funziona esattamente nello stesso modo del trionfalismo precedente.
Tutti i tipi di adesione che gli uomini in gruppo possono dare a una impresa qualsiasi sono dichiarati indegni di Gesù. E sono proprio gli atteggiamenti che vediamo succedersi circolarmente, interminabilmente, lungo tutto il cristianesimo storico, e in particolare nella nostra epoca. I discepoli seconda maniera ricordano l'antitrionfalismo trionfante di certi ambienti cristiani attuali, il loro anticlericalismo sempre clericale. Il fatto che questo genere di atteggiamenti sia già stigmatizzato nei Vangeli dimostra che nessuno può ridurre la più alta ispirazione cristiana ai propri sottoprodotti psicologici e sociologici.

L'unico miracolo nell'annuncio del rinnegamento è questa scienza del desiderio che si manifesta nelle parole di Gesù. Ed è l'incapacità degli evangelisti di comprendere fino in fondo questa scienza, temo, ciò che li ha portati a farne un miracolo in senso stretto.
"Questa notte stessa, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte". Una precisione tanto miracolosa nell'annuncio profetico getta nell'ombra la razionalità superiore che l'analisi dei testi permette di trarre. Bisogna forse concludere che questa razionalità in verità non c'è, e che l'ho semplicemente sognata? Non credo, i dati che la suggeriscono sono troppo numerosi e il loro accordo è troppo perfetto. Le convergenze tra la sostanza delle parti narrative e la teoria dello "skandalon", ossia la teoria del desiderio mimetico, non possono essere fortuite. Bisogna dunque chiedersi se gli autori dei Vangeli colgano veramente, fino in fondo, i meccanismi di questo desiderio che "tuttavia i loro testi rivelano".
L'importanza straordinaria attribuita al gallo, dapprima dagli evangelisti stessi e, in seguito, da tutta la posterità, fa pensare a una comprensione insufficiente. E' questa relativa incomprensione, credo, che trasforma il gallo in una specie di animale feticcio intorno al quale si cristallizza una specie di 'miracolo'.
Nella Gerusalemme dell'epoca, il primo e il secondo canto del gallo, ci dicono gli esperti, indicavano semplicemente alcune ore della notte. All'origine, dunque, il riferimento al gallo non aveva forse niente a che vedere con l'animale reale che i Vangeli fanno cantare. Nella sua traduzione latina, Girolamo fa addirittura cantare quel gallo una volta in più rispetto all'originale greco. Uno dei due canti previsti dal programma non è stato menzionato, e il traduttore, di propria iniziativa, corregge un'omissione che gli sembra inammissibile, scandalosa.
Gli altri tre evangelisti sospettano, credo, che Marco dia al gallo un'importanza eccessiva. Per rimettere questo gallo al suo posto, lo fanno cantare una volta sola, ma non osano sopprimerlo. Perfino Giovanni finisce col parlarne, benché abbia eliminato l'intero annuncio del rinnegamento, senza il quale il gallo non ha più alcuna ragione di essere.
Non è necessario considerare miracolosa una predizione che si spiega in modo perfettamente ragionevole, a meno che, naturalmente, non si sia riusciti a cogliere appieno le ragioni sempre mimetiche del rinnegamento e dei suoi antecedenti nel comportamento di Pietro.
Per quale motivo un autore dovrebbe trasformare in miracolo una previsione che si spiega in modo razionale? Probabilmente perché egli stesso non afferra o afferra male questa razionalità. E' quel che avviene, credo, nel racconto del rinnegamento. Lo scrittore vede chiaramente che, al di là delle discontinuità apparenti del comportamento di Pietro, esiste una continuità, ma non sa quale. Vede l'importanza della nozione di scandalo, ma, poiché non ne padroneggia l'applicazione, si accontenta di ripetere parola per parola ciò che ha sentito in proposito da Gesù stesso o da un primo intermediario. Inoltre, non capisce la funzione del gallo nella vicenda. La cosa è meno grave, ma le due incomprensioni tendono naturalmente ad attrarsi e a combinarsi, per sfociare poi nel miracolo del gallo. Le due opacità si corrispondono e si riflettono, cosicché ciascuna, in fin dei conti, sembra spiegare la presenza dell'altra, ma in modo necessariamente sovrannaturale. Così, il gallo, inspiegabile ma tangibile, polarizza l'inspiegato diffuso in tutta la scena. In ogni sapere che sfugge alla loro comprensione, gli uomini tendono a vedere in qualche modo un miracolo, e basta un particolare apparentemente misterioso, ma molto concreto, perché si realizzi una cristallizzazione mitologica. Ecco che il gallo diventa un feticcio.
La mia analisi è necessariamente speculativa. Ma nei Vangeli vi sono alcune indicazioni che la incoraggiano. Gesù si mostra critico verso il gusto eccessivo per i miracoli dimostrato dai discepoli e verso la loro incapacità di comprendere l'insegnamento che viene loro impartito. Sono due difetti abbastanza gravi, o meglio, sono le due facce di un unico difetto, che bisogna postulare se si vuole comprendere l'inserimento di una specie di miracolo in una scena che non ne ha affatto bisogno. La presenza superflua di questo miracolo nuoce alla scena del rinnegamento perché oscura la meravigliosa comprensione dei comportamenti umani che scaturisce dal testo. Il miracolo favorisce la pigrizia intellettuale, e persino spirituale, sia nei credenti sia nei miscredenti.
Il testo dei Vangeli è stato elaborato nell'ambiente dei primi discepoli. Benché rettificata dall'esperienza della Pentecoste, la testimonianza della prima generazione di cristiani, e della seconda anche, ha potuto risentire di certe deficienze, segnalate del resto dallo stesso Gesù. Non è certo per umiliare i discepoli della prima ora o per sminuirli agli occhi della posterità, che i testi sottolineano persino nei migliori l'inintelligenza della rivelazione; se lo fanno è, piuttosto, per suggerire la distanza che separa Gesù e il suo spirito da coloro che ricevettero per primi il suo messaggio e ce lo hanno trasmesso. E' un'indicazione, questa, che a parer mio non va trascurata, quando ci mettiamo a interpretare i Vangeli, duemila anni più tardi, in un mondo che non possiede certo maggiore intelligenza naturale rispetto all'epoca di Gesù, ma che nondimeno è in grado, per la prima volta, di intendere certi aspetti della sua dottrina perché ne è stato lentamente permeato nel corso dei secoli. Questi aspetti non sono necessariamente quelli che ci vengono in mente quando pensiamo al «cristianesimo» o anche ai «Vangeli», ma è necessario ricordarli se vogliamo capire meglio certi passi, come appunto la scena del rinnegamento.
Se ho ragione, se gli evangelisti non capiscono molto bene la razionalità del rinnegamento e della predizione che ne avrebbe fatto Gesù, allora il nostro testo è prodigioso poiché riporta simultaneamente il miracolo imposto alla scena da redattori che non ne capiscono del tutto la logica e i dati che ci permettono oggi di individuare questa logica. I Vangeli ci mettono fra le mani, insomma, tutti i documenti di un dossier che non sono completamente in grado di interpretare, giacché sostituiscono un'interpretazione irrazionale all'interpretazione razionale che noi, partendo dagli stessi dati, riusciamo a mettere in evidenza. Non possiamo dire niente su Gesù che non provenga dai Vangeli, questo non lo dimentico mai.
Il nostro testo introduce una spiegazione miracolosa in una scena che è più facile interpretare senza l'aiuto di questo miracolo. Bisogna dunque che, a dispetto della loro incapacità di capire tutto, i redattori dei Vangeli abbiano messo insieme e ritrascritto i documenti del dossier con un'esattezza notevole. Se ho ragione, le loro deficienze in alcuni punti sono compensate da una straordinaria fedeltà in tutti gli altri punti.
Di primo acchito, questa combinazione di qualità e difetti sembra difficile da conciliare, ma basta rifletterci su e ci si accorge che essa è assolutamente verosimile, e persino probabile, considerando che l'elaborazione dei Vangeli è avvenuta proprio sotto l'influenza di questo mimetismo, sempre rimproverato da Gesù ai suoi primi discepoli che con il loro comportamento ne rivelano la presenza, ed è normale che pur con la miglior volontà del mondo essi non ne afferrino fino in fondo il funzionamento, giacché non sono riusciti a sbarazzarsene completamente.
La cristallizzazione mitica intorno al gallo nascerebbe, se la mia lettura è esatta, da un fenomeno di esasperazione mimetica analogo a quelli di cui i Vangeli stessi ci danno altri esempi. Nell'assassinio di Giovanni Battista, ad esempio, il motivo della testa sul vassoio viene da un'imitazione troppo letterale. Per essere veramente fedele, il passaggio da un individuo a un altro, la traduzione da una lingua a un'altra, esige una certa distanza. Il copista troppo vicino al suo modello perché troppo assorbito da esso ne riproduce tutti i dettagli con una mirabile precisione, ma di tanto in tanto è soggetto a cedimenti propriamente mitologici. E' da un'attenzione mimetica onnipotente, e da un'estrema concentrazione sulla vittima-modello, che deriva la sacralizzazione primitiva, la divinizzazione del capro espiatorio la cui innocenza non è stata riconosciuta.
Le qualità e i difetti della testimonianza evangelica si ritrovano in una forma particolarmente netta e contrastata quando si parla della nozione chiave per la lettura mimetica: lo scandalo.
Gli usi più interessanti di "skandalon" e di "skandalizein" sono tutti attribuiti a Gesù e si presentano sotto forma di frammenti distribuiti in modo un po' arbitrario. Certe frasi importanti non si succedono sempre logicamente, e il loro ordine differisce frequentemente da un Vangelo all'altro. Quest'ordine, come hanno dimostrato gli esperti, può essere determinato dalla presenza in una frase di una semplice parola che trascina con sé un'altra frase, unicamente perché vi appare la stessa parola. Si può pensare a qualcosa di simile alla recitazione di frasi imparate a memoria e legate fra loro con mezzi mnemotecnici.
Di conseguenza, per riconoscere il valore esplicativo dello scandalo, bisogna riorganizzare tutte queste frasi, metterle insieme correttamente come i pezzi di quel puzzle che è la teoria mimetica stessa. Ho cercato di darne una dimostrazione in "Des choses cachées depuis la fondation du monde".
Abbiamo dunque a che fare con un insieme di una coerenza straordinaria, ma mai capita dagli esegeti perché gli elementi che lo compongono sono ingarbugliati e, a volte, persino un po' deformati per l'insufficiente padronanza degli autori. Quando sono lasciati in balìa di se stessi, questi autori ci dicono vagamente che Gesù "sa ciò che è nell'uomo", ma chiariscono male questo sapere. Tutti i dati sono nelle loro mani ma un po' disorganizzati e contaminati dai miracoli poiché essi li dominano soltanto in parte.
Esiste una dimensione irriducibilmente sovrannaturale dei Vangeli e io non cerco di negarla né di eroderla. In nome di questa dimensione sovrannaturale non bisogna tuttavia rifiutare le forme di comprensione ormai a nostra disposizione ed esse, se sono veramente tali, non possono che diminuire la parte del miracoloso. Per definizione, il miracoloso è l'inintelligibile; non è dunque il vero lavoro dello spirito in senso evangelico. Assistiamo a un miracolo più grande del miracolo in senso stretto, quando diventa intelligibile ciò che non lo era, quando l'opacità mitologica diventa trasparente.
Di fronte al testo evangelico, tutti i fanatismi del pro e del contro vogliono vedere soltanto il miracolo, e condannano senza appello anche gli sforzi più legittimi per mostrare che il suo ruolo può essere esagerato. Il sospetto, in questo caso, non ha niente di antievangelico: i Vangeli stessi ci mettono in guardia contro l'abuso del miracoloso.
La razionalità che ho evidenziata - il mimetismo dei rapporti umani - è troppo sistematica per quanto riguarda il suo principio, troppo complessa nei suoi effetti e troppo visibilmente presente, sia nei passi 'teorici' sullo scandalo sia nei racconti interamente dominati da questo, per trovarsi lì casualmente. Eppure questa razionalità non è completamente pensata, dunque certamente non costruita dalle persone che l'hanno messa nel testo. Se la comprendessero del tutto, non frapporrebbero tra i loro lettori e le scene che abbiamo appena letto lo schermo un po' grossolano del gallo miracoloso.
In queste condizioni, non si può credere che i Vangeli siano il prodotto di un'elaborazione unicamente interna all'ambiente effervescente dei primi cristiani. All'origine del testo ci deve essere realmente qualcuno esterno al gruppo, un'intelligenza superiore che domina i discepoli e che ispira i loro scritti. Sono le tracce di questa intelligenza che noi incontriamo, e non le riflessioni dei discepoli, quando riusciamo a ricostituire la teoria mimetica in una sorta di andirivieni tra le parti narrative e i passi teorici, cioè le parole attribuite allo stesso Gesù.
Tra noi e colui che essi chiamano Gesù, gli evangelisti sono degli intermediari obbligati. Ma, nell'esempio del rinnegamento di Pietro e in tutti i suoi antecedenti, le loro deficienze stesse si trasformano in qualcosa di positivo. Esse accrescono la credibilità e la potenza della testimonianza. L'incapacità degli evangelisti di comprendere alcune cose, sommata alla loro estrema esattezza nella maggior parte dei casi, ne fa degli intermediari in qualche modo passivi. Superata questa loro incomprensione relativa, non possiamo non pensare di entrare in contatto diretto con un potere di comprensione superiore al loro. Abbiamo dunque l'impressione di una comunicazione senza intermediari. Non è a un'intelligenza intrinsecamente superiore che dobbiamo questo privilegio, ma a duemila anni di una storia lentamente modellata dai Vangeli stessi.
Questa storia non ha affatto bisogno di svolgersi in conformità con i princìpi di condotta enunciati da Gesù; non è necessario che essa si trasformi in utopia per renderci accessibili alcuni aspetti del testo evangelico che erano inaccessibili ai primi discepoli; basta che sia caratterizzata da una presa di coscienza lenta ma continua della rappresentazione persecutoria che, di fatto, non smette mai di approfondirsi senza per altro impedirci, ahimè, di praticare noi stessi la persecuzione.
In questi passi che si illuminano di colpo, il testo evangelico ci appare come una parola d'ordine che ci sia giunta per il tramite di persone non partecipi del segreto, e noi, i destinatari, l'accogliamo con tanto maggior gratitudine in quanto l'ignoranza dei messaggeri ci garantisce l'autenticità del messaggio: abbiamo dunque la gioiosa certezza che niente di essenziale può essere stato falsificato. Ma questa mia immagine non è buona: infatti, perché un segno qualsiasi si trasformi in parola d'ordine, basta modificarne il senso per decisione convenzionale; invece, qui, è tutto un insieme di segni finora inerti e offuscati che tutto a un tratto divampano e brillano di intelligenza senza alcuna convenzione preliminare. E' una festa di luce che si accende intorno a noi per celebrare la resurrezione di un significato di cui ignoravamo persino che fosse morto.

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