indice


Il capro espiatorio 11.
LA DECOLLAZIONE DI SAN GIOVANNI BATTISTA.


Se ho parlato così a lungo dell'errore di interpretazione di cui è oggetto il mio lavoro, non l'ho fatto per puro spirito polemico, ma perché questo errore ripete, aggravandolo, un errore almeno trisecolare nella nostra interpretazione dei rapporti tra la Bibbia e tutto il religioso. Ed è un errore comune ai cristiani e ai loro avversari: sulla sostanza sia gli uni che gli altri si comportano sempre in modo rigorosamente simmetrico, da bravi fratelli nemici quali sono e intendono rimanere. Essi tengono veramente soltanto alla loro controversia, perché non vivono che di essa. State alla larga, altrimenti li avrete tutti addosso.
Anticristiani e cristiani si assomigliano in questo: hanno la stessa concezione dell'originalità. Dai romantici in poi, lo sappiamo bene, essere originale significa non dire la stessa cosa che dice il vicino, fare sempre qualcosa di nuovo nel senso della novità tipica delle scuole e delle mode: praticare l'innovazione, secondo il linguaggio odierno dei nostri burocrati e ideologi in un mondo ormai incapace persino di rinnovare le proprie etichette, che oscilla ininterrottamente fra 'moderno' e 'nuovo', non essendo in grado di immaginare una terza soluzione.
Questa concezione dell'originale domina la disputa attorno ai Vangeli. Perché i Vangeli e quindi la religione cristiana fossero veramente originali, bisognerebbe che dicessero qualcosa di diverso da tutte le altre religioni. Ora, essi dicono esattamente la stessa cosa. Da secoli i nostri etnologi e storici del religioso non dicono altro, ed è questa l'ispirazione profonda di tutta la loro scienza.
Guardate come sono primitivi i Vangeli, ci ripetono in tutti i modi i nostri eruditi, dall'alto della loro sapienza. Guardate questo supplizio collettivo, come nei miti più selvaggi, e questa storia del capro espiatorio, poi! - Ebbene non è incredibile? Quando si tratta di miti detti «etnologici», guai a parlare di violenza; vietato anche usare espressioni come «primitivo» o, soprattutto, «selvaggio» per qualsiasi mito o religione. Si disconosce ogni pertinenza a questa «problematica etnocentrica». Ma ecco che ridiventa possibile e persino lodevole ricorrere a questi termini quando si tratta dei Vangeli.
A me, questo modo di vedere va benissimo, e applaudo con entusiasmo a queste affermazioni dei nostri etnologi. Essi hanno infatti perfettamente ragione quando sostengono che i Vangeli trattano dello stesso evento dei miti, di quell'assassinio fondatore che è presente nel cuore stesso di ogni mitologia, e così pure quando sostengono che i miti più simili ai Vangeli sono proprio quelli più primitivi, perché sono gli unici, in genere, a parlare esplicitamente di questo assassinio. I miti più evoluti lo hanno cancellato con cura, quando non l'hanno trasfigurato.
Se i Vangeli trattano dello stesso evento dei miti, così ragionano poi gli etnologi, essi devono essere immancabilmente mitici. I nostri amici hanno dimenticato un'unica cosa. Si può parlare dello stesso assassinio senza parlarne allo stesso modo. Se ne può parlare come ne parlano gli assassini e come ne parla non una vittima qualsiasi, ma quella vittima incomparabile che è il Cristo dei Vangeli. E questa vittima la si può definire incomparabile anche al di fuori di ogni sentimentalismo religioso perché non soccombe mai, su nessun punto, alla prospettiva persecutoria, né positivamente concordando apertamente con i suoi carnefici, né negativamente adottando nei loro confronti il punto di vista della vendetta, che è sempre la riproduzione rovesciata della prima rappresentazione persecutoria, la sua ripetizione mimetica.
Questo è ciò che conta, questa assenza totale di complicità positiva o negativa con la violenza, affinché possa rivelarsi sino in fondo il sistema della sua rappresentazione, il sistema di ogni rappresentazione al di fuori dei Vangeli stessi.
Eccola la vera originalità, è questo ritorno all'origine, un ritorno che annulla l'origine mentre la rivela. La ripetizione costante dell'origine, che caratterizza la falsa originalità dell'innovazione, poggia sulla dissimulazione e il mascheramento di questa origine.
I cristiani non hanno compreso l'autentica originalità dei Vangeli. Essi condividono la concezione dei loro avversari. Pensano che i Vangeli sarebbero originali solo se parlassero di tutt'altra cosa rispetto ai miti. Si rassegnano dunque alla non-originalità dei Vangeli; adottano un vago sincretismo e il loro credo personale è molto indietro rispetto a quello di Voltaire. Oppure cercano vanamente di provare l'esatto contrario di ciò che provano gli etnologi, sempre all'interno dello stesso sistema di pensiero. E sempre vanamente si sforzano di dimostrare che la passione ha introdotto qualcosa di radicalmente nuovo sotto tutti gli aspetti.
Tendono a vedere nel processo di Gesù, nell'intervento della folla, nella crocifissione, un evento in se stesso incomparabile in quanto evento del mondo. I Vangeli, al contrario, dicono che Gesù occupa lo stesso posto di tutte le vittime passate, presenti e future. Per i teologi si tratta soltanto di metafore, più o meno metafisiche e mistiche. Essi non prendono alla lettera i Vangeli e tendono a fare della passione di Cristo un feticcio. Senza accorgersene, fanno invece il gioco dei loro avversari e di ogni mitologia. Ri-sacralizzano la violenza desacralizzata dal testo evangelico.
La prova che bisogna mutare atteggiamento ce la fornisce l'esistenza, nel testo stesso dei Vangeli, di un secondo esempio di assassinio collettivo, diverso riguardo ai singoli fatti, ma assolutamente identico alla passione per quanto riguarda i meccanismi in gioco e i rapporti tra i partecipanti.
Si tratta dell'assassinio di Giovanni Battista. Analizzerò il racconto che ne fa Marco. Benché di dimensioni ridotte, questo testo conferisce un sorprendente rilievo ai desideri mimetici, alle rivalità mimetiche e infine all'effetto di capro espiatorio che risulta dall'insieme. E' impossibile considerare questo testo come un semplice riflesso o un doppione della passione. Le differenze sono troppo grandi per poter giungere alla conclusione che i due racconti abbiano una sola e identica origine o persino che l'uno abbia subìto l'influenza dell'altro. Le somiglianze si spiegano meglio grazie alla struttura identica degli eventi rappresentati e ad un'estrema e continua padronanza di una sola e identica concezione dei rapporti individuali e collettivi che compongono i due eventi: la concezione mimetica.
L'assassinio di Giovanni Battista fornirà una sorta di controprova alla mia analisi della passione. Inoltre, ci permetterà di verificare il carattere sistematico del pensiero evangelico sulla questione dell'assassinio collettivo e del suo ruolo nella genesi del religioso non cristiano.
Erode desiderava sposare in seconde nozze Erodiade, moglie di suo fratello. Il profeta aveva condannato questa unione. A quanto sembra, Erode lo aveva fatto imprigionare più per proteggerlo che per castigare la sua audacia. Erodiade si accaniva a chiedere la sua testa, mentre Erode opponeva un netto rifiuto. Infine la moglie l'ebbe vinta facendo danzare sua figlia durante un banchetto in presenza di Erode e dei suoi convitati. Addottrinata dalla madre e sostenuta dagli ospiti, la figlia chiese la testa di Giovanni Battista e Erode non osò rifiutargliela (Marco, 6,14-28).
Cominciamo dall'inizio:

«Erode aveva fatto arrestare e incatenare Giovanni nelle sue prigioni a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata. Giovanni infatti diceva a Erode: 'Non ti è permesso avere la moglie di tuo fratello'».

Non è sulla stretta legalità del matrimonio che il profeta mette l'accento. Nella frase "Non ti è permesso avere la moglie di tuo fratello", il verbo "echein", «avere», non ha connotazione legale. Il dogma freudo-strutturalista favorisce un tipo d'interpretazione che non si addice ai Vangeli. Non inseriamo il legalismo pedante in luoghi ove non ha mai regnato, con il pretesto di fustigarlo. Lo spirito e la lettera del testo evangelico vi si oppongono.
Di che cosa si tratta in realtà? Di fratelli nemici. I fratelli sono votati alla rivalità dalla loro stessa prossimità; si contendono la stessa eredità, la stessa corona, la stessa sposa. Tutto incomincia, come in un mito, con una storia di fratelli nemici. Hanno gli stessi desideri perché si assomigliano oppure si assomigliano perché hanno gli stessi desideri? E' il rapporto di parentela a determinare nei miti il gemellaggio dei desideri oppure è il gemellaggio dei desideri a determinare una somiglianza definita fraterna?
Nel nostro testo sembrerebbe che queste proposizioni siano tutte vere contemporaneamente. Erode e suo fratello costituiscono sia il simbolo del desiderio al quale si interessa Marco, sia un esempio storico reale degli effetti di questo desiderio. Erode aveva realmente un fratello al quale aveva realmente sottratto la sposa, Erodiade. Sappiamo da Giuseppe Flavio che il piacere di soppiantare suo fratello valse a Erode gravi amarezze; il nostro testo non ne parla, ma esse sono comunque nello stile delle complicazioni mimetiche e di conseguenza nello spirito dell'ingiunzione profetica. Erode aveva una prima moglie che dovette ripudiare e il padre dell'abbandonata decise di punire l'incostanza di suo genero infliggendogli una cocente disfatta.
Per Erode, "avere" Erodiade, impossessarsene, è un male non in virtù di qualche regola formale, ma perché il suo possesso non può essere ottenuto se non a spese del fratello che deve esserne spossessato. Il profeta mette in guardia il suo regale interlocutore contro gli effetti nefasti del desiderio mimetico. I Vangeli non si fanno illusioni sulle possibilità di arbitrato tra i fratelli.
Confronteremo allora questo avvertimento con un passo brevissimo ma rivelatore del vangelo di Luca:

«Uno della folla [...] disse a Gesù: 'Maestro, di' a mio fratello di spartire con me la nostra eredità'. Egli rispose: 'Amico mio, chi mi ha costituito giudice sopra di voi o arbitro delle vostre spartizioni?'» (Luca, 12, 13-14).

Attorno all'eredità indivisibile, i fratelli si dividono. Gesù si dichiara incompetente. La formula "Chi mi ha costituito giudice sopra di voi o arbitro delle vostre spartizioni?" ricorda una frase dell'inizio dell'Esodo. Mosè interviene una prima volta tra un egiziano e un ebreo. Uccide l'egiziano che maltrattava l'ebreo. Interviene una seconda volta tra due ebrei e l'interpellato gli chiede: "Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi come hai ucciso l'egiziano?" Colpisce il fatto che Gesù riprenda su di sé ciò che dice l'ebreo per contestare l'autorità di Mosè, e non ciò che quest'ultimo dice. Gesù fa capire che la domanda non ha risposta, nel suo caso, come non la aveva avuta nel caso di Mosè. Nessuno lo ha costituito, né lo costituirà mai, giudice sopra i due fratelli e arbitro delle loro spartizioni.
Ciò significa forse che Gesù protesta contro l'idea di essere incaricato di una missione divina come lo fu Mosè? Certo che no: Gesù vuol far capire che la sua missione è molto diversa da quella di Mosè. Il tempo del legislatore e liberatore nazionale è passato. Non è più possibile separare i fratelli nemici con una violenza organizzata che metterebbe fine alla loro. La contestazione dell'ebreo che ricorda a Mosè il suo assassinio del giorno prima è ormai universalmente valida. Non è più possibile alcuna distinzione tra violenza legittima e violenza illegittima. Non ci sono che fratelli nemici e li si può soltanto mettere in guardia contro il loro desiderio mimetico sperando che vi rinuncino. E' quello che fa Giovanni, e il suo avvertimento ricorda la predicazione del regno di Dio durante la carriera di Gesù.
Difatti, nel testo evangelico, se si esclude il profeta, restano soltanto fratelli nemici e gemelli mimetici: la madre e la figlia, Erode e suo fratello, Erode e Erodiade. I due ultimi nomi suggeriscono foneticamente il gemellaggio e sono costantemente ripetuti, in alternanza, all'inizio del nostro testo, mentre quello della danzatrice non vi appare, probabilmente perché non c'è niente che gli faccia da eco, non apporta niente sotto il profilo degli effetti mimetici.
Il fratello, ovvero il fratellastro al quale Erode cercava di sottrarre Erodiade, non si chiamava Filippo, come afferma Marco per sbaglio, si chiamava anch'egli Erode, aveva lo stesso nome di suo fratello; Erodiade si trova presa tra due Erodi. Se Marco lo avesse saputo, avrebbe probabilmente giocato su questa omonimia. La realtà storica è ancora più bella del testo.
L'avvertimento di Giovanni alla fine della nostra citazione designa il tipo di rapporto che domina l'insieme del racconto e che, nel momento del parossismo, sfocia nell'assassinio del profeta. Il desiderio cresce e si esaspera, perché Erode non tiene conto dell'avvertimento profetico e tutti seguono il suo esempio. Tutti i particolari del testo illustrano la sequenza di questo desiderio: ogni momento è prodotto dalla logica demente di un rilancio che si nutre dell'insuccesso dei momenti anteriori.
La prova che Erode desidera innanzitutto trionfare sul fratello sta nel fatto che, dopo essere stata posseduta, Erodiade perde ogni influenza diretta su suo marito. Non riesce nemmeno a ottenere che lui faccia morire un piccolo, insignificante profeta. Per giungere al suo scopo, Erodiade deve ricostituire, servendosi della figlia, una configurazione triangolare analoga a quella che aveva assicurato il suo ascendente su Erode, facendo di lei stessa la posta in gioco tra i fratelli nemici. Il desiderio mimetico si spegne in un punto ma solo per riapparire in un altro punto in forma più virulenta.
Erodiade si sente negata, annullata dalle parole di Giovanni, non in quanto essere umano, ma in quanto posta in gioco mimetica. E' anche lei troppo assorbita dal mimetismo per poter distinguere. Sottraendo il profeta alla vendetta di Erodiade, Erode si comporta secondo le leggi del desiderio: verifica l'annuncio profetico, e l'odio dell'abbandonata raddoppia. Attratto da Giovanni poiché se ne sente respinto, il desiderio diventa desiderio di distruzione, scivola subito nella violenza.
Imitando il desiderio di mio fratello, io desidero quello che lui desidera: ci impediamo così, a vicenda, di soddisfare il nostro desiderio comune. Più cresce la resistenza da una parte e dall'altra, più il desiderio si rafforza; più il modello diventa ostacolo, più l'ostacolo diventa modello, cosicché alla fine il desiderio s'interessa soltanto a ciò che lo contrasta. E' sedotto soltanto dagli ostacoli che lui stesso suscita. Giovanni Battista è l'ostacolo: inflessibile, inaccessibile a qualsiasi tentativo di corruzione; ed è questo che affascina Erode e ancor più Erodiade. Erodiade è sempre il divenire del desiderio di Erode.
Più il mimetismo si esaspera, più aumenta la sua duplice potenza di attrazione e repulsione, più si trasmette rapidamente da un individuo all'altro secondo la modalità dell'odio. Il seguito costituisce un'illustrazione straordinaria di questa legge.

«Entrata la figlia della stessa Erodiade, danzò e piacque a Erode e ai suoi commensali. Allora il re disse alla ragazzina: 'Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò'. E le fece un giuramento: 'Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, foss'anche la metà del mio regno!'. Lei uscì e disse alla madre: 'Che cosa bisogna chiedere?'. 'La testa di Giovanni il Battista' rispose costei. Rientrata immediatamente e di corsa dal re, la ragazzina gli fece questa richiesta: 'Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni Battista'».

L'offerta di Erode fa scattare qualcosa di strano. Ovvero lo strano è che non fa scattare niente. Invece di enumerare le cose preziose o folli che si presume i giovani desiderino, Salomè rimane silenziosa. Né Marco né Matteo danno un nome alla danzatrice. Noi la chiamiamo Salomè perché lo storico Giuseppe Flavio parla di una figlia di Erodiade così chiamata.
Salomè non ha alcun desiderio da esprimere. L'essere umano non ha desideri che siano propriamente suoi; gli uomini sono estranei ai loro desideri; i bambini non sanno che cosa desiderare e hanno bisogno di farselo insegnare. Erode non suggerisce niente a Salomè giacché le offre di tutto e ogni cosa. Proprio per questo Salomè lo pianta in asso e va da sua madre a chiedere che cosa convenga desiderare.
Ma è veramente un desiderio quello che la madre trasmette alla figlia? Salomè sarebbe soltanto un'intermediaria passiva, una brava bambina che esegue docilmente i terribili incarichi della madre? No, lei è molto di più, prova ne sia la sua precipitazione non appena la madre ha finito di parlare. La sua incertezza scompare e lei cambia completamente. Osservatori attenti come padre Lagrange hanno notato questa differenza nel comportamento, ma non ne hanno capito il significato:

«Rientrata immediatamente e di corsa dal re, la ragazzina gli fece questa richiesta: 'Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni Battista'».

"Immediatamente, di corsa, subito"... Non è senza intenzione che un testo così avaro di dettagli moltiplichi i segni di febbrile impazienza. Salomè è preoccupata che il re, rotto l'incantesimo della danza e uscita la danzatrice, possa ripensarci. E in lei è il desiderio che si preoccupa; il desiderio di sua madre è diventato il suo. Il fatto che il desiderio di Salomè sia in tutto e per tutto la copia di un altro desiderio, non toglie niente alla sua intensità; al contrario, l'imitazione è ancora più frenetica dell'originale.
La figlia di Erodiade è una bambina. Nell'originale greco non troviamo la parola "kore", fanciulla, ma il diminutivo "korasion", fanciulletta. La "Bible de Jérusalem" traduce correttamente con il termine "fillette", ragazzina. Bisogna dimenticare la concezione che fa di Salomè una professionista della seduzione. Il genio del testo evangelico non ha niente a che vedere con la cortigiana di Flaubert, con la danza dei sette veli e il ciarpame orientaleggiante. Benché ancora bambina, o forse proprio perché ancora bambina, Salomè passa istantaneamente dall'innocenza al parossismo della violenza mimetica. Non si può immaginare sequenza più illuminante di questa. Dapprima, in risposta alla offerta esorbitante del monarca, vi è il silenzio della figlia, poi la domanda alla madre, quindi la risposta della madre, il desiderio della madre e infine l'assunzione di questo desiderio da parte della figlia, il desiderio della figlia. Il bambino chiede all'adulto di supplire non a una mancanza, che sarebbe desiderio, ma alla "mancanza del desiderio stesso". Siamo di fronte a una rivelazione dell'imitativo come pura essenza del desiderio, incompresa e sempre incomprensibile perché troppo insolita, altrettanto estranea alle concezioni filosofiche dell'imitazione quanto alle teorie psicoanalitiche del desiderio.
Vi è certamente qualcosa di schematico in questa rivelazione. Essa si compie a spese di un certo realismo psicologico. Per quanto folgorante possa essere la trasmissione di un desiderio da un individuo all'altro, è difficile immaginare che essa poggi soltanto sulla breve risposta della madre alla domanda della figlia. Questo schematismo sconcerta tutti i commentatori: Matteo per primo lo ha accantonato; tra l'offerta di Erode e la risposta di Salomè egli ha soppresso lo scambio di battute tra madre e figlia; ne ha percepito la rozzezza, non ne ha riconosciuto la genialità o ne ha giudicato l'espressione eccessivamente ellittica per essere ricordata. Egli ci dice semplicemente che la figlia è stata «addottrinata dalla madre», ed è l'interpretazione corretta di ciò che succede in Marco, ma ci fa perdere lo spettacolo impressionante di una Salomè di colpo metamorfosata, mimeticamente, in una seconda Erodiade.
Dopo essere stata 'contagiata' dal desiderio materno, la figlia non si distingue più dalla madre. La due donne recitano successivamente la stessa parte presso Erode. Il nostro culto del desiderio ci impedisce di riconoscere questo processo di uniformazione, esso scandalizza i nostri modi consueti di pensare. Gli adattatori moderni sono anch'essi divisi tra chi esalta la sola Erodiade e chi esalta la sola Salomè, facendo di volta in volta dell'una o dell'altra l'eroina del desiderio più intenso e quindi, secondo loro, più singolare, più spontaneo, più liberato, più liberatore, e cioè tutto quello contro cui il testo di Marco insorge con una potenza e una semplicità che sfuggono completamente alla volgarità - nell'accezione letterale del termine - degli strumenti di analisi che ci siamo forgiati, psicoanalisi, sociologia, etnologia, storia delle religioni, eccetera.
Dividendosi tra Erodiade e Salomè, i moderni che hanno il culto del desiderio ristabiliscono silenziosamente quella verità che il loro culto è destinato a negare, cioè che lungi dall'individualizzare, il desiderio sempre più mimetico rende coloro che esso possiede sempre più intercambiabili, sempre più sostituibili l'uno all'altro, in proporzione alla sua intensità.
Prima di parlare della danza, bisogna evocare ancora una nozione che impregna il nostro testo, anche se non viene mai nominata in modo esplicito. E' lo scandalo, ovvero la pietra d'inciampo. Derivato da "skazein" che significa zoppicare, "skandalon" indica l'ostacolo che respinge per attirare e attira per respingere. Non si può inciampare su questa pietra una prima volta senza tornare sempre ad inciampare su di essa, perché l'incidente iniziale e quindi quelli successivi la rendono sempre più fascinatrice (1).
Io vedo nello scandalo una definizione rigorosa del processo mimetico. Il senso moderno ricupera soltanto in minima parte il senso evangelico. Il desiderio vede perfettamente che, desiderando quello che l'altro desidera, fa di questo modello un rivale e un ostacolo. Se fosse saggio abbandonerebbe la partita, ma se il desiderio fosse saggio non sarebbe desiderio. Non trovando altro che ostacoli sulla propria strada, li incorpora nella sua visione del desiderabile, li trasporta in primo piano; non può più desiderare senza di loro; li coltiva con avidità. E' così che il desiderio diventa passione carica di odio verso l'ostacolo e si lascia scandalizzare. Il passaggio da Erode a Erodiade, quindi a Salomè, rende visibile proprio questa evoluzione.
Giovanni Battista è per Erodiade uno scandalo per il solo fatto che dice la verità, e il desiderio non ha nemico peggiore della sua verità. Proprio per questo esso può fare della verità uno scandalo; la verità stessa diventa scandalosa, ed è proprio questo il peggiore degli scandali. Erode e Erodiade trattengono prigioniera la verità, ne fanno una specie di posta in gioco, la compromettono nelle danze del loro desiderio. Felice, dice Gesù, colui per il quale io non sarò causa di scandalo.
Lo scandalo finisce sempre per investire e incorporare ciò che gli sfugge di più, ciò che dovrebbe essergli più estraneo. La parola profetica ne è un esempio, e l'infanzia un altro. Interpretare Salomè come sto facendo significa vedere in lei una bambina vittima dello scandalo, significa applicarle le parole di Gesù sullo scandalo e sull'infanzia:

«Chiunque accolga un fanciullo [...] accoglie me. Ma se qualcuno scandalizzerà uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una di quelle macine che gli asini fanno girare e fosse gettato negli abissi del mare» (Matteo, 18, 5-7).

Il bambino prende inevitabilmente a modello l'adulto più vicino. Se incontra soltanto esseri già scandalizzati, troppo divorati dal desiderio per non chiudersi ermeticamente, egli prenderà a modello la loro chiusura, diverrà riproduzione mimetica di quest'ultima, caricatura accentuata in modo sempre più grottesco.
Per circuire Erode e ottenere il suo consenso alla morte del giusto, Erodiade utilizza la sua bambina. Come potrebbe non scandalizzare Salomè? Per proteggersi dallo scandalo la bambina vi sprofonda facendo suo il desiderio atroce della madre.
Nella citazione precedente, l'inabissarsi con un peso enorme intorno al collo è una figura dello scandalo. Come le altre figure, essa suggerisce un meccanismo naturale di autodistruzione e non un intervento sovrannaturale. Collocandosi nel circolo vizioso dello scandalo, gli uomini si fabbricano il destino che meritano. Il desiderio è un cappio che ognuno si passa intorno al collo; si stringe quando lo scandalizzato cerca di allentarlo. L'equivalente fisico di questo processo, la macina che gli asini fanno girare, è meno terribile del processo stesso. L'impiccagione è un altro equivalente; infliggendosela, Giuda infligge a se stesso il castigo che prolunga il suo male, lo scandalo di cui è preda, la gelosia mimetica che lo divora.
Gli uomini si scavano da soli il proprio inferno. Vi scendono insieme, appoggiandosi l'uno all'altro. La perdizione è uno scambio tutto sommato equo, perché reciproco, di cattivi desideri e di cattivi comportamenti. Le uniche vittime innocenti sono i bambini che ricevono lo scandalo dal di fuori, senza partecipazione preliminare da parte loro. Fortunatamente tutti gli uomini sono stati prima bambini.
Fra scandalo e danza c'è un'opposizione reciproca. Lo scandalo è tutto ciò che ci impedisce di danzare. Gioire della danza è danzare insieme con la danzatrice, è sfuggire allo scandalo che ci tiene prigionieri nei ghiacci mallarmeani, impantanati nelle viscosità sartriane.
Se la danza non fosse mai stata altro che un puro spettacolo nel senso moderno, semplice immagine della libertà che sogniamo, i suoi effetti sarebbero veramente soltanto immaginari o simbolici nel senso più vuoto dell'estetismo dei moderni. Nella danza c'è un'altra potenza.
La danza non sopprime i desideri, li esaspera. Ciò che mi impedisce di danzare non è qualcosa di essenzialmente fisico; quello che ci tiene inchiodati al suolo è l'intrecciarsi, il terribile frammischiarsi dei nostri desideri, e "l'altro" del desiderio ci appare sempre come il responsabile di questo infortunio; siamo tutti delle Erodiadi ossessionate da un qualsiasi Giovanni Battista. Anche se i nodi del desiderio sono particolari a ciascuno, anche se ogni singolo individuo ha il suo proprio modello-ostacolo, la meccanica è sempre la stessa e questa identità facilita le sostituzioni. La danza accelera il processo mimetico. Fa entrare in azione tutti i convitati, fa convergere tutti i desideri su un solo e identico oggetto, la testa sul vassoio, la testa di Giovanni Battista sul vassoio di Salomè. Giovanni Battista diventa dapprima lo scandalo di Erodiade, poi quello di Salomè e, grazie alla potenza della sua arte, Salomè trasmette lo scandalo a tutti gli spettatori. Riunisce tutti i desideri in un fascio che dirige verso la vittima scelta per lei da Erodiade. C'è soprattutto il nodo inestricabile dei desideri e, affinché al termine della danza esso si sciolga, occorre che muoia la vittima che fuggevolmente lo incarna per ragioni sempre mimetiche (per quanto indietro risaliamo se vogliamo trovarle), per ragioni quasi sempre insignificanti, tranne forse in questo caso e nel caso di Gesù, ove è proprio l'avvertimento veridico a proposito di questo desiderio a far scattare la meccanica fatale.
Dire che la danza piace non soltanto a Erode ma a tutti i suoi convitati è come dire che essi sposano tutti il desiderio di Salomè; non vedono nella testa di Giovanni soltanto ciò che la danzatrice chiede, o lo scandalo in genere, il concetto filosofico dello scandalo che d'altronde non esiste: ciascuno vede in essa il proprio scandalo, l'oggetto del proprio desiderio e del proprio odio. Non bisogna interpretare il sì collettivo alla decollazione come un assenso di cortesia, un gesto senza reali conseguenze. I convitati sono tutti allo stesso modo ammaliati da Salomè; e immediatamente vogliono anch'essi la testa del Battista: la passione di Salomè è diventata la loro passione. Mimetismo. Il potere della danza è simile a quello dello sciamano, che dà ai suoi malati l'impressione di estrarre dai loro corpi la sostanza nociva che vi si era introdotta. Erano posseduti da qualcosa che li incatenava, ed ecco che la danza li libera. La danzatrice può fare danzare questi infermi; danzando, li libera del demone che li possedeva. Li porta a cedere tutto ciò che li travaglia, che li tormenta, in cambio della testa del Battista; non solo porta alla luce il demone che stava dentro di loro, ma esercita al posto loro la vendetta che sognano. Adottando il desiderio violento di Salomè, tutti i convitati hanno l'impressione di soddisfare anche il proprio. In tutti c'è la stessa frenesia per il modello-ostacolo, e tutti accettano di ingannarsi sull'oggetto poiché l'oggetto proposto appaga la loro sete di violenza. Non è la negatività hegeliana o la morte impersonale dei filosofi a suggellare la simbolicità della testa profetica, è la foga mimetica dell'assassinio collettivo.
Esiste una leggenda popolare secondo la quale Salomè muore durante una danza sul vetro. La danzatrice scivola e, cadendo, batte il collo su uno spigolo che le taglia la testa (2).
Mentre nel testo evangelico la danzatrice si tiene meravigliosamente in equilibrio, ottenendo per questo la testa desiderata, nella leggenda la vediamo fallire e pagare l'insuccesso con la propria testa. Questo contrappasso si attua senza nessun intermediario, a quanto sembra; è una vendetta senza vendicatori; ma nel vetro possiamo vedere un'immagine degli "altri", gli spettatori, uno specchio riflettente, e soprattutto un piano meravigliosamente levigato che favorisce dapprima le evoluzioni più spettacolari. I suoi ammiratori spingono la danzatrice a sfidare la legge di gravità con audacia crescente, ma possono istantaneamente tramutarsi in trappola fatale, testimoni e causa della caduta dalla quale l'artista non si risolleverà.
Se la danzatrice non padroneggia più i suoi desideri, il pubblico le si rivolta contro istantaneamente, e non resta che lei a fare da vittima sacrificale. Come il domatore di belve, chi officia il rito scatena mostri che lo divoreranno se non avrà la meglio su di loro grazie a prodezze incessantemente rinnovate.
La leggenda, nella sua dimensione vendicatrice, non ha niente di evangelico, ma conferma l'esistenza nella coscienza popolare di un legame tra l'assassinio di Giovanni, la danza e lo scandalo, ossia la perdita dell'equilibrio, il contrario della danza riuscita. Essa verifica dunque la lettura mimetica e direi persino, per piacere ai miei critici, il desiderio di "semplificazione", la "mentalità sistematica", il "dogmatismo" di questa lettura, in quanto mette ancora in movimento tutti i meccanismi in uno spazio prodigiosamente ridotto, ma non senza mitizzare di nuovo ciò che Marco ha smitizzato poiché sostituisce l'altro, il doppio, il rivale scandaloso, sempre esplicito nel testo evangelico, con uno dei 'simboli' mitici più comuni, il vetro, lo specchio.
Lo scandalo è l'inafferrabile che il desiderio vuole afferrare, è l'indisponibile assoluto di cui vuole assolutamente disporre. Perché più leggera, più maneggevole, veramente portatile, la testa assicura una rappresentazione migliore dopo che la si è staccata dal corpo e una rappresentazione ancora migliore dopo che la si è posata su un vassoio. Lamina d'acciaio fatta scivolare sotto la testa di Giovanni, questo vassoio mette in risalto la fredda crudeltà della danzatrice. Trasforma la testa in un accessorio della danza, ma è soprattutto il sogno-incubo estremo del desiderio che esso evoca e materializza.
Ritroviamo qui, in parte, quell'ossessione che su certi primitivi esercita la testa dell'antagonista ritualmente designato dall'ordine culturale, il membro della tribù vicina che intrattiene rapporti permanenti di rivalità mimetica con la tribù dell'uccisore. A volte, i primitivi fanno subire a queste teste un trattamento che le rende incorruttibili e le rimpicciolisce, trasformandole in gingilli. E' una raffinatezza parallela all'orribile desiderio di Salomè.
La tradizione riconosce in Salomè una grande artista, e se si forma una forte tradizione, una ragione c'è sempre. Ma qual è in questo caso? La danza non è mai descritta. Il desiderio espresso da Salomè non ha niente di originale, perché copia quello di Erodiade. Perfino le sue parole sono quelle di Erodiade. Salomè vi aggiunge un'unica cosa, l'idea del vassoio. «Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni Battista». Erodiade aveva nominato la testa ma non il vassoio. Il vassoio costituisce l'unico elemento nuovo, l'unico dato che appartenga in modo specifico a Salomè. Se serve una causa testuale al prestigio di Salomè, è lì che bisogna cercarla. Non c'è nient'altro che la giustifichi.
Tutto riposa, indubitabilmente, su questo vassoio. E' questo l'elemento che ha valso alla scena di Marco la sua fama. E' questo l'elemento di cui ci si ricorda quando si è dimenticato tutto. E del resto, è proprio da questo genere di segni, non dimentichiamolo (o piuttosto dimentichiamolo se possiamo), che l'umanesimo liberale, quello che trionfava durante la grande epoca moderna di Erodiade e di Salomè, riconosceva la Cultura. Ecco un'idea scandalosa, sorprendente, raffinatissima a forza di essere rozza, un'idea da artista decadente, insomma.
Ma è veramente un'idea "originale" nel senso moderno della "novità"? La minima riflessione dissolve la parvenza di originalità per lasciare posto, ancora una volta, all'imitazione, alla "mimesis".
Erodiade, quando risponde alla figlia: «La testa di Giovanni Battista», non pensa affatto alla decollazione. In italiano come in greco, chiedere la testa di qualcuno significa esigere che muoia, punto e basta. Significa parlare di una parte per il tutto. La risposta di Erodiade non è affatto un'allusione a un determinato tipo di esecuzione. Il testo ha già fatto menzione del desiderio di Erodiade in una lingua neutra, che non rivela nessuna fissazione particolare sulla testa del nemico: «Quanto a Erodiade, essa si accaniva contro Giovanni Battista e avrebbe voluto farlo morire».
Anche se Erodiade intendeva suggerire il tipo di morte che augurava al profeta quando esclama: «La testa di Giovanni Battista», non si può dedurre che voglia tenere questa testa tra le mani, che desideri l'oggetto fisico. Anche nei paesi che usano la ghigliottina chiedere la testa di qualcuno implica una dimensione retorica che è invece ignota alla figlia di Erodiade. Salomè prende sua madre alla lettera. Non lo fa apposta. Bisogna essere adulti, si sa, per distinguere le parole dalle cose. Questa testa è il più bel giorno della sua vita.
Avere Giovanni Battista in testa è una cosa, avere la sua testa tra le mani è un'altra cosa. Salomè si chiede quale sia il modo migliore di liberarsene. Questa testa tagliata di recente bisognerà pure metterla da qualche parte, e la cosa più ragionevole è posarla su qualcosa di piatto, su un vassoio. Quest'idea è il massimo della piattezza, e un riflesso da buona casalinga. Salomè osserva le parole troppo rigidamente per poterne riprodurre esattamente il messaggio. Peccare di eccessivo letteralismo è interpretare male, perché è interpretare senza saperlo. L'inesattezza della copia è tutt'uno con la miope preoccupazione di esattezza. Ciò che in definitiva appare più creativo nel ruolo di Salomè è, al contrario, ciò che di più meccanico e di propriamente ipnotico vi sia nella sottomissione del desiderio al modello che si è dato.
Tutte le grandi idee estetiche sono di questo tipo, strettamente, ossessivamente imitative. La tradizione lo sapeva, e infatti non ha mai parlato d'arte se non in termini di "mimesis". Noi invece lo neghiamo con una passione sospetta da quando l'arte, appunto, si ritrae dal nostro mondo. Scoraggiare l'imitazione non è certo eliminarla, bensì orientarla verso le forme derisorie della moda e dell'ideologia, le false innovazioni contemporanee. La volontà di originalità conduce solo a smorfie prive di significato. Non bisogna rinunciare alla nozione di "mimesis"; bisogna allargarla alle dimensioni del desiderio, o forse bisogna allargare il desiderio alle dimensioni del mimetico. Separando la "mimesis" dal desiderio, la filosofia ha mutilato entrambi, mentre noi restiamo prigionieri di questa mutilazione che perpetua tutte le false partizioni della cultura moderna: per esempio, ciò che rientra nell'ambito dell'estetica e ciò che non vi rientra, ciò che è pertinente al mito e ciò che è pertinente alla storia.
Della danza in sé il testo non dice assolutamente niente; dice soltanto: "e danzò"... Eppure deve ben dire qualcosa, dato il fascino che ha sempre esercitato sull'arte occidentale. Salomè danza già sui capitelli romanici e da allora, e in maniera sempre più diabolica e scandalosa via via che il mondo moderno sprofonda nel suo stesso scandalo, non ha più smesso di danzare.
Lo spazio destinato a diventare, nei testi moderni, quello della «descrizione» è occupato qui dagli antecedenti e dalle conseguenze della danza. Tutto qui si riporta ai momenti necessari di un solo e identico gioco mimetico. La "mimesis" occupa dunque lo spazio, non però nel senso del realismo che copia gli oggetti, ma nel senso dei rapporti dominati dalle rivalità mimetiche, e questo vortice, prendendo velocità, produce il meccanismo vittimario che lo fa cessare.
Tutti gli effetti mimetici sono pertinenti, sotto il profilo della danza; sono già effetti di danza, ma non hanno niente di gratuito, non sono là per «ragioni estetiche»: ciò che interessa a Marco sono i rapporti tra chi vi prende parte. La danzatrice e la danza si generano reciprocamente. L'infernale progredire delle rivalità mimetiche, il diventare "simili" di tutti i personaggi, il cammino della crisi sacrificale verso il suo scioglimento vittimario sono tutt'uno con la sarabanda di Salomè. E così deve essere, perché le arti non sono altro che la riproduzione di questa crisi, di questo scioglimento, in una forma più o meno velata. Tutto incomincia sempre con affrontamenti simmetrici risolti infine in girotondi vittimari.
Il testo ha, nel suo insieme, qualcosa di danzante. Per inseguire con rigore, ma anche con semplicità gli effetti mimetici, deve andare, venire e tornare da un personaggio all'altro, rappresentare insomma una specie di balletto dove ogni danzatore occupi di volta in volta il proscenio prima di sparire nuovamente nel gruppo, per recitare la propria parte nella sinistra apoteosi finale.
Ma c'è anche e soprattutto, mi si dirà, l'intelligenza calcolatrice. Erode non vuole cedere ma Erodiade, come un ragno al centro della tela, attende l'occasione favorevole:

«Venne dunque il giorno propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte...».

Il giorno propizio, il compleanno di Erode, ha un carattere rituale; è una festa che ricorre tutti gli anni, ed è occasione di attività celebrative; quindi, a maggior ragione, rituali: la comunità si riunisce intorno a un banchetto; lo stesso spettacolo di danza a conclusione del banchetto ha un carattere rituale. Tutte le istituzioni che Erodiade utilizza contro Giovanni sono di natura rituale.
Come il complotto dei sacerdoti nel racconto della passione, anche quello di Erodiade ha un'importanza secondaria: non accelera gli eventi che di poco perché va nella direzione del desiderio e della "mimesis", come il rito stesso. Una comprensione troppo differenziata, ancora inferiore, immagina che Erodiade manipoli tutti i desideri: è la comprensione di Erodiade stessa. Una comprensione superiore, più mimetica e meno differenziata, vede che Erodiade stessa è manipolata dal proprio desiderio.
Tutte le attività menzionate nel testo si ritrovano nei riti e culminano di massima in un'immolazione sacrificale. L'assassinio di Giovanni occupa il luogo e il momento del sacrificio. Tutti gli elementi del testo potrebbero dunque essere letti in chiave strettamente rituale, ma questa lettura non avrebbe nessun valore esplicativo. Ci fu un tempo in cui una certa etnologia credeva di chiarire un testo come il nostro indicandone gli aspetti rituali. Ma non faceva altro che infittire il mistero, perché non aveva nessuna visione chiara dei riti e della loro ragione d'essere. Nelle scienze dell'uomo succede frequentemente che si dia un valore esplicativo ai dati più opachi, proprio a causa della loro opacità. Ciò che non offre nessun appiglio al ricercatore si presenta come un blocco perfetto e giacché il dubbio non può insinuarsi da nessuna parte, la sua stessa oscurità lo fa sembrare un'idea chiara.
Lungi dal separarmi dagli aspetti rituali e istituzionali del testo interpretando tutto tramite il desiderio, adopero l'unico schema che renda intelligibile il rituale. Tra questo e gli stadi supremi della crisi mimetica, spontaneamente risolta dal meccanismo vittimario, non c'è soltanto somiglianza, c'è una perfetta sovrapposizione, indistinzione pura e semplice. Questa sovrapposizione è sempre possibile perché il rito, l'ho già detto, non fa altro che ripetere mimeticamente una crisi mimetica originaria. Poiché nemmeno questa contiene niente di originale - se non l'origine nascosta, naturalmente - la dimensione rituale si iscrive senza rotture nella storia del desiderio che il nostro testo racconta; è essa stessa interamente "mimesis", imitazione, ripetizione scrupolosa di questa crisi. Il rito non apporta nessuna soluzione propria, non fa che ricopiare la soluzione che arriva spontaneamente. Non vi è dunque nessuna differenza strutturale tra il rito propriamente detto e il corso spontaneo, naturale, della crisi mimetica.
Lungi dal frenare o interrompere il gioco mimetico dei desideri, l'attività rituale lo favorisce e lo trascina verso vittime determinate. Ogni volta che si sentono minacciati da una discordia mimetica reale, i fedeli vi prendono parte volontariamente; mimano i loro stessi conflitti e usano ogni tipo di ricetta per favorire la soluzione sacrificale che li riconcilierà a spese della vittima.
La nostra lettura trova allora la sua conferma; il rito e l'arte che ne scaturisce sono di natura mimetica, agiscono mimeticamente; non hanno un'autentica specificità. Sarebbero dunque esattamente equivalenti alla crisi spontanea, oppure esattamente equivalenti alla complicata manovra di Erodiade? Starei confondendo tutte queste cose? Niente affatto. I veri riti differiscono dal disordine vero grazie all'unanimità che si è creata contro una vittima e che si perpetua sotto l'egida di questa vittima mimeticamente resuscitata e sacralizzata.
Il "rito" è ripresa mimetica delle crisi mimetiche in uno spirito di collaborazione religiosa e sociale, ossia nell'intenzione di riattivare il meccanismo vittimario a vantaggio della società ancor più che a scapito della vittima perpetuamente immolata. Proprio per questo nell'evoluzione diacronica dei riti i disordini che precedono e condizionano l'immolazione sacrificale si vanno attenuando, mentre l'aspetto festivo e conviviale acquista sempre maggiore importanza.
Ma le istituzioni rituali, anche le più diluite, le più edulcorate, restano propizie all'immolazione sacrificale. Una folla rimpinzata di cibo e di bevande aspira a qualcosa di straordinario e questo qualcosa non può essere altro che uno spettacolo di erotismo o di violenza, preferibilmente di tutti e due insieme. Erodiade ha del rito una conoscenza sufficiente per poterne risvegliare la potenza e volgerla a vantaggio del suo disegno omicida. Inverte e perverte la funzione rituale, giacché la morte della sua vittima la interessa più della riconciliazione della comunità. I simboli dell'autentica funzione rituale restano presenti nel nostro testo, ma in una forma puramente residuale.
Erodiade mobilita le forze del rito e le dirige scientemente verso la vittima del suo odio. Pervertendo il rito restituisce la "mimesis" alla sua virulenza primaria, riporta il sacrificio alle sue origini omicide; rivela lo scandalo che è nel cuore di ogni fondazione religiosa sacrificale. Svolge dunque una parte analoga a quella di Caifa nella passione.
Erodiade non è importante in sé. E' soltanto uno strumento della rivelazione, di cui lei mette in evidenza la natura 'paradossale' utilizzando il rito in modo rivelatore perché perverso. E' l'opposizione di Giovanni al suo matrimonio con Erode, come abbiamo visto - "Non ti è permesso avere la moglie di tuo fratello" - che suscita l'odio di Erodiade contro il profeta. Ma la mistificazione rituale non è mai altro, per principio, che questo occultamento del desiderio mimetico, tramite il capro espiatorio. Erodiade e Caifa potrebbero definirsi allegorie viventi del rito costretto a tornare alle sue origini non rituali, all'assassinio senza mascheramenti, grazie all'effetto di una forza rivelatrice che lo tira fuori dai suoi nascondigli religiosi e culturali.
Io parlo del testo di Marco come se dicesse sempre la verità. Ed effettivamente dice il vero. Eppure, al lettore alcuni aspetti sembrano leggendari. Ricordano vagamente una favola oscura dall'epilogo infausto. Lo si avverte nei rapporti fra Salomè e sua madre, in quel miscuglio di orrore e sottomissione infantile. Lo si avverte nel carattere eccessivo, esorbitante della offerta fatta per ricompensare la danzatrice. Erode non aveva nessun regno da dividere: in realtà, non era neanche un re ma un tetrarca, e i suoi poteri, per altro già abbastanza limitati, dipendevano totalmente dalla buona disposizione dei Romani.
I commentatori cercano delle fonti letterarie. Nel libro di Ester, il re Assuero fa all'eroina un'offerta analoga a quella di Erode (Est., 5, 6). Questo testo avrebbe dunque influenzato Marco e Matteo. E' possibile, ma il tema dell'offerta esorbitante è talmente comune, nei racconti leggendari, che Marco e Matteo non avevano alcun bisogno di ricorrere a un testo particolare. Sarebbe forse più interessante chiedersi che cosa significa questo tema.
Nei racconti popolari accade spesso che l'eroe dimostri clamorosamente qualità in precedenza misconosciute superando una "prova", compiendo qualche prodezza. Colui che organizza la prova, il sovrano, è tanto più colpito dal successo quanto più a lungo ha resistito al fascino dell'eroe. Gli fa allora un'offerta esorbitante, il suo regno o la sua unica figlia, il che è lo stesso. Se accettata, l'offerta trasforma uno che non possedeva niente in uno che possiede tutto e viceversa. Se l'essere di un re è inseparabile dai suoi possedimenti, dal suo regno, è letteralmente il suo essere che il donatore affida al donatario.
Facendosi spossessare, il donatore vuol fare del donatario un altro se stesso. Tutto ciò che fa di lui quello che è, lui lo dà e non tiene niente per sé. Se l'offerta, come qui, si basa soltanto sulla metà del regno, il senso, in fondo, resta lo stesso. Una Salomè che possedesse la metà di Erode sarebbe la stessa cosa, lo stesso essere, dell'altra metà, cioè Erode stesso. Vi sarebbe un solo essere intercambiabile.
Nonostante i suoi titoli e le sue ricchezze, il donatore è in posizione d'inferiorità. Offrire a una danzatrice di spossessarci significa chiederle di volerci possedere. L'offerta esorbitante è una risposta dello spettatore affascinato. E' espressione del desiderio più forte, quello di farsi possedere. Il desiderio lo allontana dalla sua orbita, e il soggetto cerca di inserirsi di nuovo in questa orbita solare che lo acceca, cerca di farsi letteralmente 'satellizzare'.
Qui si deve intendere il termine «possedere» nel senso tecnico della trance praticata in alcuni culti, e riconoscere in essa, insieme a Jean-Michel Oughourlian, una manifestazione mimetica troppo intensa perché la prospettiva dell'"alienazione", valida fino a quel momento, conservi la sua pertinenza. L'alienazione suppone pur sempre la vigilanza di un io, una specie di soggetto non interamente annullato dall'esperienza e che, appunto per questo, la percepisce come alienazione, schiavitù, servitù. Nel caso del posseduto, l'invasione da parte dell'altro, il modello mimetico, diventa così totale che niente e nessuno vi resiste, e la prospettiva si inverte. Non c'è più un io per dichiararsi alienato; c'è soltanto l'altro, che ha preso stabilmente il suo posto (3).
Il linguaggio dell'offerta è al contempo quello del giuramento e quello della preghiera incantatoria. E' il linguaggio del mimetismo iperacuto. Salomè diventa la divinità che Erode invoca ripetendo sempre le stesse parole, offrendosi usando sempre le stesse formule: "«Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le fece un giuramento: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, foss'anche la metà del mio regno!»".
Colui che fa l'offerta ha sempre un oggetto, o magari un essere, al quale tiene in modo particolare e che vorrebbe serbare per sé. Disgraziatamente quando formula la sua offerta, non ne fa parola. Forse lo ha realmente dimenticato, nella frenesia del suo desiderio, forse teme di sminuire la generosità della offerta sottraendo ad essa anche una piccola particella dei suoi beni. Forse teme, menzionando questo oggetto, di renderlo desiderabile. Comunque sia, il genio che lo possiede vince e l'offerta è senza restrizioni. La cosa sembra non avere nessuna importanza. E poi, rispetto alle immense ricchezze in gioco, questo essere ha così poco peso che a nessuno verrà in mente di preferirlo a tutto il resto.
Eppure è proprio quel che succede sempre. La richiesta si orienta infallibilmente verso questo essere insignificante che non dovrebbe interessare nessuno, anche perché nessuno lo ha nominato. A chi la colpa? Il destino, la fatalità, la perversità del narratore, l'inconscio freudiano? No di certo. C'è una spiegazione semplice e perfetta ma che nessuno, naturalmente accetterà: il desiderio mimetico. Ciò che dà a un oggetto il suo valore non è il suo prezzo reale, ma i desideri che ha attirato su di sé e che lo rendono irresistibile per i desideri non ancora desti. Il desiderio non ha bisogno di parlare per tradirsi. I desideri mimetici ci nascondono ciò che desiderano perché nascondono se stessi, ma non possono nascondersi l'un l'altro; proprio per questo il loro gioco sembra violare le regole della verosimiglianza, facendo sì che i vari personaggi sembrino o troppo ciechi o troppo perspicaci.
Erode crede di dissimulare il suo interesse per Giovanni facendolo gettare in prigione. Ma Erodiade ha capito tutto. D'altronde, il profeta non ha mai fatto tanto chiasso e non ha mai attirato tanta attenzione su di sé come dal fondo di questa prigione dove il re crede di averlo nascosto. Per annodare i grandi nodi drammatici tradizionali, il desiderio mimetico è più abile di chiunque, inevitabilmente. Proprio per questo le vere tragedie sembrano identiche in tutto e per tutto alla vita quotidiana per poco che uno sappia orientarsi, o voglia invece perdersi completamente.
All'offerta esorbitante corrisponde sempre una domanda apparentemente modesta; ma a chi debba soddisfarla sembrerà che essa costi più di tutti i regni dell'universo. Infatti, il valore della domanda non si misura con il metro delle cose di questo mondo. Perché essa è, per essenza, un "sacrificio". E questo sacrificio è durissimo per chi deve rinunciare a ciò che gli è più caro. Essa diventa una specie di idolo, una qualunque Salomè, una semidivinità mostruosa che reclama la vittima. Ne va della libertà, del benessere e della vita dell'essere abbandonato. Ne va soprattutto dell'integrità spirituale di tutti gli esseri coinvolti. Quella di Erode, già compromessa, crolla, insieme con il profeta, nella fossa dei leoni dell'assassinio collettivo. Il testo è dunque redatto contro il sacrificio, come tutte le grandi leggende che contengono varianti dell'offerta esorbitante e della domanda sacrificale, la storia di Faust per esempio oppure quella di Don Giovanni.
I rari 'miti' del mondo moderno non sono veri miti perché, invece di chiudersi, come i veri miti, su soluzioni sacrificali accettate senza la minima restrizione mentale, invece di riflettere la visione persecutoria, rifiutano questo genere di sacrificio e lo denunciano sempre come un abominio. Sono influenzati dai Vangeli.
L'essenziale, in queste leggende, è sempre ciò che i nostri liberi pensatori vorrebbero eliminare, ciò che disturba la loro piccola vanità. La problematica sacrificale li irrita; vedono in essa un residuo di religiosità che bisogna subito sradicare, una bigotteria mediocre che la loro bella audacia non è più disposta a tollerare. Sorridono dell'anima immortale reclamata da Mefistofele, disprezzano la statua del Commendatore e il convitato di pietra. Non vedono che questa pietra d'inciampo è l'unico cibo rimasto che crei un legame comune. Ed è infatti intorno allo scandalo, pazientemente coltivato dagli intellettuali, che la società moderna ha trovato questo ultimo legame religioso. Ma ecco che, banalizzandolo, essi tolgono all'ultimo sale il suo sapore.
Nel cancellare le ultime tracce della problematica sacrificale, l'unica che meriti di essere considerata perché comanda tutto, questi autori moderni trasformano Faust e Don Giovanni in un puro consumo immaginario di donne e di ricchezze. Ciò non impedisce loro, badate bene, di vituperare di continuo la società cosiddetta dei consumi, probabilmente perché non è puramente immaginaria, lei, e ha su di loro la superiorità di fornire realmente il tipo di nutrimento che le si chiede di fornire.
L'essenziale è il rapporto manifesto tra il mimetismo collettivo, l'assassinio di Giovanni Battista e lo stato di trance suscitato dalla danza. Quest'ultimo fa tutt'uno con il piacere del testo, il piacere di Erode e dei suoi convitati. "La figlia di Erodiade... danzò e piacque a Erode e ai suoi commensali". Bisogna intendere questo piacere in un senso più forte rispetto all'accezione di Freud e del suo principio del piacere; si tratta di una malìa vera e propria. Quando il posseduto si abbandona all'identificazione mimetica, il suo genio si impadronisce di lui e lo «cavalca», come spesso si dice in questi casi; si mette a danzare insieme con lui.
Sommerso dal mimetismo, il soggetto perde coscienza di se stesso e dei suoi scopi. Invece di rivaleggiare con questo modello, egli si trasforma in una inoffensiva marionetta; ogni opposizione è abolita; la contraddizione del desiderio si dissolve.
Ma dov'è dunque l'ostacolo che un tempo gli ostruiva il passaggio e lo inchiodava al suolo? Il mostro deve pure nascondersi da qualche parte; perché l'esperienza sia completa, bisognerebbe ritrovarlo e annientarlo. C'è sempre, in questo istante, un appetito sacrificale da soddisfare, un capro espiatorio da consumare, una vittima da decapitare. A questo livello d'intensità massimale il mimetismo sacrificale regna incontrastato; proprio per questo i testi veramente profondi lo raggiungono sempre.
A questo livello il mimetismo assorbe tutte le dimensioni che sembrerebbero in grado di fargli concorrenza a livelli di intensità minore: la sessualità, le ambizioni, le psicologie, le sociologie, i riti stessi. Ciò non significa che portando in primo piano il mimetismo si eludano o addirittura si 'riducano' queste dimensioni. Esse sono tutte implicitamente presenti nell'analisi mimetica e si può sempre esplicitarle, come abbiamo appena fatto per la dimensione rituale.
Il benefattore non si aspetta mai la richiesta che gli viene fatta. Ne è sorpreso e addolorato, ma è incapace di resistere. Quando la danzatrice gli chiese la testa del Battista, "il re divenne triste", ci dice Marco, "tuttavia, a causa del giuramento e dei commensali, non volle mancare alla parola data". Erode desidera salvare Giovanni. Il suo desiderio, lo ricordo, appartiene a una fase precoce del processo mimetico. Erode vuole proteggere la vita di Giovanni, che ora Salomè vuole distruggere. Il desiderio si fa sempre più omicida via via che avanza e coinvolge sempre più individui, la folla dei commensali per esempio. Ed è il desiderio più basso a vincere. Erode non ha il coraggio di dire di no a invitati il cui numero e il cui prestigio lo intimidiscono. In altre parole, egli è mimeticamente dominato. Gli invitati comprendono tutta l'élite dell'universo erodiano. Un po' prima, Marco non aveva tralasciato di darne conto per categorie: "i grandi della corte, gli ufficiali, e i principali personaggi della Galilea". Cerca di suggerirci il loro enorme potenziale di influenza mimetica; la stessa cosa troviamo nel racconto della passione, dove si enumerano tutte le potenze di questo mondo coalizzate contro il Messia. La folla e le potenze si uniscono e si confondono. E' da questa massa che arriva il supplemento di energia mimetica necessario alla decisione di Erode. E' sempre la stessa energia che pungola il nostro testo, manifestamente mimetico, in ogni punto.
Se Marco si sofferma a descrivere nei particolari tutto questo, non è per il solo piacere di raccontare, ma per chiarire la decisione che porta alla decapitazione del profeta. Gli invitati reagiscono tutti in modo identico. Allo stadio supremo della crisi mimetica, rappresentano il solo tipo di folla che può intervenire in modo decisivo. Quando vi è una folla unanimemente omicida, la decisione appartiene sempre a questa folla. Soggiogato dalla formidabile pressione, Erode non fa altro che convalidare, "nolens volens", la decisione di questa folla, come Pilato farà più tardi. Cedendo a questa pressione, egli perde se stesso nella folla; è l'ultimo degli individui che la compongono.
Neppure in questo caso bisogna cercare una psicologia dei personaggi principali. Non si deve credere che Giovanni Battista e Gesù siano morti perché caduti in mano a cospiratori particolarmente malvagi o a governanti particolarmente deboli. Occorre svelare e stigmatizzare, invece, la debolezza dell'umanità nel suo insieme di fronte alla tentazione dei capri espiatorii.
Il profeta muore perché enuncia la verità del loro desiderio a persone che non vogliono sentirla; nessuno vuol mai sentire. Ma questa verità da lui proferita non è una causa sufficiente per l'assassinio, è soltanto un altro segno preferenziale di selezione vittimaria, il più ironico di tutti. Non contraddice il carattere principalmente aleatorio della scelta mimetica, messo in forte rilievo dal "ritardo" nella scelta della vittima, che viene fatta soltanto dopo la danza.
Questa scelta a lungo differita permette a Marco di illustrare simultaneamente l'alfa e l'omega del desiderio, il suo inizio mimetico e la sua conclusione vittimaria, anch'essa mimetica. Il «che cosa bisogna desiderare?» di Salomè evidenzia che in quell'istante Erodiade, o qualcun altro, potrebbe designare chiunque.
La designazione "in extremis" non impedisce che la vittima sia adottata con passione prima da Salomè, poi da tutti i commensali. A questo punto non vi è più resistenza effettiva nemmeno nei tiranni più risoluti.
E' l'irresistibile divenire unanime del mimetismo che interessa i Vangeli. E' in questo mimetismo unanime del capro espiatorio che bisogna cercare il vero sovrano delle società umane.
Tagliare una sola testa basta qualche volta a suscitare il turbamento universale; qualche volta basta anche a calmarlo. Com'è possibile? La convergenza sulla testa di Giovanni non è che un'illusione mimetica, ma il suo carattere di unanimità procura un acquietamento reale, a partire dal momento in cui la agitazione diffusa dovunque non ha più un oggetto reale, e la diffusione stessa di questo mimetismo, che presuppone un'estrema intensità, garantisce l'assenza completa di un oggetto reale. Al di là di una certa soglia, l'odio si rivela senza causa. Non ha più bisogno di una causa e nemmeno di un pretesto; non esiste altro che un intreccio di desideri rivolti gli uni contro gli altri. Se i desideri si dividono e si contrastano per tutto il tempo in cui si rivolgono a un oggetto che ciascuno vorrebbe conservare intatto e vivo, per monopolizzarlo (come fa Erode quando imprigiona il profeta), essi, pur diventati puramente distruttori, possono anche riconciliarsi. E' proprio questo il paradosso terribile dei desideri umani. Non possono mai intendersi per preservare il loro oggetto, ma possono sempre intendersi sulla sua distruzione; non si accordano mai se non a spese di una vittima.

«E il re inviò immediatamente una guardia con l'ordine che gli fosse portata la testa del Battista. La guardia andò e lo decapitò in prigione; poi portò la testa su un vassoio, la diede alla ragazzina e la ragazzina la diede a sua madre».

Chi rimprovera agli uomini il loro desiderio è per essi uno scandalo vivente, l'unica cosa, dicono a se stessi, che impedisce loro di essere felici. E' la stessa cosa che ci diciamo oggi. Vivo, il profeta sconvolgeva tutti i rapporti; morto, li facilita, diventando quella cosa inerte e docile che circola sul vassoio di Salomè; gli invitati se la passano l'un l'altro come i cibi e le bevande del banchetto di Erode. Ma essa è anche lo spettacolo impressionante che ci impedisce di fare ciò che non si deve fare, e che ci sprona a fare ciò che si deve fare, è l'avvio sacrificale di tutti gli scambi. - Ecco dunque che in questo testo troviamo, senza alcuna difficoltà, esposta la verità su tutte le fondazioni religiose, la verità sui miti, i riti e i divieti. Esso però non fa quello che ci rivela; non vede niente di divino nel mimetismo che unisce tutti gli uomini. Rispetta infinitamente la vittima, ma si guarda bene dal divinizzarla.
Ciò che più m'interessa in un assassinio come quello di Giovanni Battista, è la sua potenza fondatrice sotto il profilo religioso, ancor più che culturale. Vorrei mostrare adesso che il testo di Marco fa un'allusione esplicita a questa potenza religiosa. Ed è forse questa la cosa più straordinaria di tutte. Il passo che ho in mente non lo si trova alla fine del racconto, ma prima. Il racconto si presenta così come una specie di "flash-back". Erode è impressionato dalla fama crescente di Gesù:

«Tuttavia il re Erode sentì parlare di lui poiché il suo nome era diventato famoso, e si diceva: 'Giovanni il Battista è resuscitato dai morti, per questo il potere dei miracoli opera nella sua persona'. Altri dicevano: 'E' Elia'. Altri ancora: 'E' un profeta come uno dei profeti'. Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: 'Quel Giovanni che ho fatto decapitare è resuscitato'» (Marco, 6, 14-16).

Di tutte le ipotesi che circolano, Erode sceglie la prima, quella che fa di Gesù un Giovanni Battista resuscitato e il testo ci suggerisce la ragione di questa scelta; Erode pensa che Giovanni Battista sia resuscitato a causa del ruolo che egli stesso ha avuto nella sua morte violenta. I persecutori non possono credere alla morte definitiva della vittima che li ha uniti. La resurrezione e la sacralizzazione delle vittime sono innanzitutto fenomeni di persecuzione, la prospettiva dei persecutori stessi sulla violenza alla quale hanno preso parte.
I vangeli di Marco e di Matteo non prendono sul serio la resurrezione di Giovanni Battista e non vogliono farcela prendere sul serio. Ma rivelano fino in fondo un processo di sacralizzazione stranamente simile, in apparenza, a quello che costituisce l'oggetto principale del testo evangelico, la resurrezione di Gesù e la proclamazione della sua divinità. I Vangeli percepiscono benissimo queste somiglianze, ma non provano per esse nessun disagio, né avvertono nessun tipo di dubbio. I credenti moderni quasi non commentano la falsa resurrezione di Giovanni Battista perché, ai loro occhi, non si distingue abbastanza da quella dello stesso Gesù: se non c'è ragione, dicono, di credere nella resurrezione di Giovanni, non ce ne sarà neppure di credere in quella di Gesù.
Per i Vangeli, la differenza è evidente. Il primo tipo di resurrezione si impone ai persecutori mistificati dalla loro stessa persecuzione, mentre Cristo resuscita proprio per liberarci da tutte queste illusioni e superstizioni. La resurrezione pasquale trionfa, veramente, sulle rovine di tutte le religioni fondate sull'assassinio collettivo.
La falsa resurrezione di Giovanni ha certamente il senso che le ho dato, perché essa ricompare una seconda volta in un contesto che non lascia adito a dubbi:

«Gesù fece questa domanda ai suoi discepoli: 'Secondo la gente [«la folla», dice Luca], chi è il Figlio dell'Uomo?'. Essi dissero: 'Per alcuni Giovanni Battista, per altri Elia, per altri ancora Geremia o qualcuno dei profeti'. 'Ma per voi' disse loro 'chi sono?'. Simon Pietro, prendendo allora la parola, rispose: 'Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente'. Rispondendogli Gesù dichiarò: 'Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. Ebbene io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le Porte dell'Ade non prevarranno contro di essa'» (Matteo, 16,13-18).

Quando fu fatta questa professione di fede, Giovanni Battista era già morto. Tutti i personaggi che la folla crede di ritrovare in Gesù sono già morti. La folla, dunque, crede che siano tutti resuscitati nella persona di Gesù. Si tratta d'una credenza analoga a quella di Erode, una credenza immaginaria nella resurrezione. Luca rende la cosa ancora più esplicita di quanto non faccia Matteo: Gesù, scrive, è scambiato per uno degli antichi profeti "resuscitato".
Il riferimento alle "Porte dell'Ade" (il regno dei morti per i Greci) mi sembra significativo. Esso non vuol dire soltanto che il male non prevarrà sul bene. Lo si può leggere, anche, come un'allusione alla religione della violenza, che è sempre una religione dei morti e della morte. Pensiamo qui alle parole di Eraclito: "Dioniso e Hades sono lo stesso".
I bambini vedono la differenza tra le due religioni, perché la violenza fa loro paura, mentre Gesù non fa loro paura. I dottori sottili, invece, non vedono nulla. Confrontano dottamente i temi, e siccome ritrovano ovunque questi stessi temi, anche se si credono strutturalisti non vedono la vera differenza strutturale. Non vedono la differenza tra il capro espiatorio dissimulato che è il Battista per coloro che dopo averlo ucciso sono pronti ad adorarlo, e il capro espiatorio rivelato e rivelatore che è il Gesù della passione.
Anche Pietro vede la differenza, il che non gli impedirà di ricadere più volte nel comportamento mimetico proprio di chiunque altro. La straordinaria solennità di Gesù in questo passo mostra che la differenza percepita da Pietro non sarà affatto percepita da tutti gli uomini. I Vangeli insistono, insomma, sul paradosso della fede nella resurrezione di Gesù che, per uno sguardo non informato dalla stessa fede, nasce in un contesto di estremo scetticismo verso fenomeni in apparenza molto simili.


NOTE AL CAPITOLO 11.

(1). "Des choses cachées...", cit., p.p. 438-53 [trad. it. cit., p.p. 500-17].
(2). "Ellicott's Bible Commentary", Grand Rapids, Michigan, 1971, p. 715.
(3). Si veda l'opera di Jean-Michel Oughourlian, "Un mime nommé désir".

indice


informativa privacy