indice


Il capro espiatorio 6.
ASI, CURETI E TITANI.


Ho appena commentato un mito in cui manca l'assassinio collettivo, ma non mi sembra che questa mancanza sia di grande vantaggio per gli avversari della mia causa. Non solo, ma poiché finora non ho fatto molti esempi e mi si rimprovera, non a torto, di non farne abbastanza, ne darò diversi e li sceglierò tutti tra i miti o tra le varianti mitiche, peraltro innumerevoli, che evitano in modo visibile, quasi caricaturale, di definire come assassinio collettivo una scena assolutamente centrale e che tuttavia esige, come si vedrà, tale definizione. Questa scena si presenta sempre allo stesso modo: gli assassini in cerchio intorno alla loro vittima, ma sostituisce al senso evidente altri significati molto vari, che hanno in comune soltanto la caratteristica di non segnalare l'assassinio collettivo stesso.
Il mio secondo esempio appartiene alla mitologia scandinava. Baldr è il migliore di tutti gli dèi, privo di ogni difetto, ricco di ogni virtù e incapace di violenza. Certi sogni inquietanti lo avvertono che su di lui pesa una minaccia di morte. Confida la sua angoscia agli Asi, suoi compagni, che decidono di «chiedere per Baldr salvaguardia contro ogni pericolo». Per ottenere questo risultato, Frigg, sua madre,

«fa giurare a tutti gli esseri animati ed inanimati - fuoco, acqua, metalli, pietre, terra, legno, malattie, quadrupedi, uccelli, serpenti [...] - di non fargli del male. Così protetto, Baldr si diverte con gli Asi, sulla pubblica piazza, in un gioco stupefacente. Gli scagliano addosso dei proiettili, gli vibrano colpi di spada: nulla lo ferisce».

Il riassunto che ho appena citato è di Georges Dumézil in "Mythe et épopée" (1). Nessuno può stupirsi se l'eminente esegeta definisce stupefacente questo gioco al quale si abbandonano gli Asi. Egli utilizza per lo stesso gioco divino altri due epiteti, «spettacolare» e «truccato». Suscita quindi la nostra curiosità, ma non fa niente per soddisfarla. Che cosa può provocare il nostro stupore di fronte a un simile spettacolo in un mito? Si tratta di una scena eccezionale o al contrario di una scena del tutto consueta, del tutto banale, ma provvista di un significato inconsueto? In effetti il gioco sembra truccato, ma non oseremmo definirlo tale se non lasciasse trasparire qualcos'altro all'infuori di se stesso, un'altra scena che in genere non è affatto dissimulata, e che è necessariamente ben conosciuta da tutti i mitologi, anche se non la documentano e non la nominano mai, perlomeno in maniera diretta. Facendo intendere che il gioco degli Asi è truccato, senza però spiegare quel che ha in mente, possiamo dire che Dumézil parla anche lui di questa scena sia pure in modo indiretto. Si tratta, naturalmente, dell'assassinio collettivo. Se Baldr non fosse invulnerabile, ovviamente non sopravviverebbe al trattamento che gli infliggono gli Asi; si verificherebbe l'evento che il dio teme e che tutti gli Asi temono con lui. Baldr morirebbe, vittima come tante altre divinità di un assassinio collettivo. Il mito di Baldr non si distinguerebbe, così, in nulla dagli innumerevoli miti in cui il dramma centrale consiste nell'assassinio collettivo.
Lungi dal dire qualcosa di veramente originale e inatteso, lo spettacolo di questo mito ci stupisce, il suo gioco ci sembra truccato perché esso è in tutto e per tutto simile alla rappresentazione più consueta e risaputa di tutte le mitologie, l'assassinio collettivo. La convenzione di un Baldr invulnerabile ha semplicemente trasformato la rappresentazione dell'assassinio in un gioco inoffensivo.
Si tratta forse di una semplice coincidenza, di una somiglianza fortuita? Il seguito ci dimostra che non è così. Per capire che questo mito conserva di necessità rapporti molto stretti con i miti caratterizzati "da un assassinio collettivo", bisogna arrivare sino alla fine: vedremo così che il gioco degli Asi, in teoria inoffensivo, avrà le stesse conseguenze che avrebbe qualora si svolgesse "sul serio". Baldr cade, colpito a morte da uno di questi dèi che, secondo le apparenze, si comportano come se avessero l'intenzione di ucciderlo, mentre il mito pretende che non è affatto vero per ragioni che forse non è impossibile cogliere.
Che cosa è successo, dunque? Per saperlo, proseguiremo la nostra lettura di "Mythe et épopée". C'è un dio, o piuttosto un demone, Loki (il "trickster" o «briccone» della mitologia scandinava), che non partecipa al gioco truccato e cerca anzi di disturbarlo. Fedele alle sue fonti, Dumézil scrive: «Quello spettacolo dispiacque a Loki». In tutti gli spettatori il linciaggio simulato di Baldr suscita forti reazioni, in Loki il dispiacere, in Dumézil lo stupore. Ed è colpa di Loki naturalmente, è sempre colpa di Loki se il linciaggio simulato di Baldr, il gioco infantile di questi eccellenti Asi conduce in fin dei conti alle stesse conseguenze di un vero e proprio linciaggio.

«Il "trickster" scandinavo [...] si traveste da donna e va a chiedere a Frigg se il giuramento universale di non fare alcun male a Baldr non ammetta per caso un'eccezione. E viene a sapere da Frigg che un giovane germoglio chiamato "mistilteinn" (germoglio di vischio) le era sembrato così giovane che non gli aveva chiesto di prestar giuramento. Loki si impossessa del germoglio e, tornato al "thing" [il luogo sacro ove si svolge il linciaggio], lo consegna al fratello cieco di Baldr Hödhr, che fino allora si era astenuto dal colpire il fratello perché non era in grado di vederlo; ma Loki guida la sua mano verso la vittima che muore assassinata da un semplice germoglio di vischio».

La perfidia di Loki, dunque, annulla l'effetto delle misure prese dagli dèi per «proteggere» Baldr da ogni violenza. Perché questo mito imbocca una strada così bizzarra e inconsueta per giungere allo stesso risultato o quasi, di mille altri miti, ovvero alla morte violenta di un dio colpito da altri dèi, tutti suoi compagni coalizzati contro di lui? Poiché si tratta di un risultato assai comune, perché non usare la strada più comune per raggiungerlo?
L'unica risposta a mio parere verosimile e persino concepibile è che la versione del mito da noi analizzata "non è la versione primaria". Bisogna probabilmente innestarla su versioni più antiche che vedevano in Baldr la vittima dell'assassinio collettivo più banale, più 'classico' che vi sia. Essa è dovuta probabilmente a gente che non tollerava più la rappresentazione tradizionale di questo assassinio perché faceva di tutti gli dèi, a eccezione della vittima, degli autentici criminali. Il pantheon originario non si differenzia da una volgare banda di assassini, e i fedeli, in un certo senso, non ne vogliono più sapere: ma non ne hanno altri e, per mille altre ragioni, ci tengono, sono anzi appassionatamente legati alle loro rappresentazioni religiose. Vogliono conservare queste rappresentazioni e al tempo stesso disfarsene, o piuttosto sconvolgerle da capo a fondo, perché vogliono eliminare lo stereotipo essenziale della persecuzione, l'assassinio collettivo. Il tentativo di conciliare questi due imperativi sfocia così in miti come quello di Baldr, costruiti in maniera assai curiosa.
La soluzione sta nell'affermare che gli antenati hanno ben visto quel che c'era da vedere nell'epifania primordiale, ma "l'hanno interpretato male". Ingenui e barbari com'erano, non hanno colto la sottigliezza di ciò che era accaduto. Hanno creduto che si trattasse di un assassinio collettivo. Sono cascati nella trappola tesa loro dal demoniaco Loki, unico vero assassino e per giunta ingannatore. Loki diventa l'unico ricettacolo della violenza che prima era ripartita in ugual misura tra tutti i partecipanti al linciaggio e che diventa francamente perversa se si concentra in un solo individuo. La reputazione del solo Loki, insomma, è sacrificata alla riabilitazione di tutti gli altri dèi. La scelta di Loki ha in sé qualcosa di paradossale se è vero, come a me sembra, che Loki è l'unico tra tutti gli dèi a non partecipare al linciaggio nella scena originaria.
A quel che sembra, si deve dunque supporre una manipolazione del mito a detrimento morale di un solo dio e a beneficio di tutti gli altri. La volontà di discolpare gli assassini originari è rivelata anche da diversi indizi supplementari nello strano modo in cui avviene l'uccisione effettiva di Baldr. Tutti i dettagli della vicenda sono chiaramente destinati ad annullare il più possibile la responsabilità di colui che maggiormente rischia di passare per un criminale, perché è per mano sua (egli è d'altronde designato come l'assassino mediante la mano, "handbani") che Baldr muore.
Nell'assassinio in linea di principio collettivo non tutti i partecipanti sono ugualmente colpevoli; se si riesce a identificare colui che ha inferto il colpo fatale, la sua responsabilità sarà incomparabilmente maggiore. Il mito raddoppierà i suoi sforzi al fine di scagionare Hödhr per la sola ragione evidente che, essendo colui che dà il colpo fatale, è il più colpevole di tutti. Per discolparlo occorrerà fare uno sforzo molto maggiore rispetto a quello che occorre per discolpare tutti gli altri dèi messi insieme.
Basta ammettere questo disegno perché tutti i dettagli dell'assassinio, senza eccezione, si chiariscano. Tanto per cominciare, Hödhr è cieco: «fino allora si era astenuto dal colpire il fratello perché non era in grado di vederlo». Perché lo colpisca bisogna guidare la sua mano verso il bersaglio, ed è Loki, ovviamente, che gli farà questo favore. Hödhr non ha alcun motivo per pensare che il suo colpo potrebbe uccidere Baldr. Come gli altri dèi, crede questo suo fratello invulnerabile a qualsiasi proiettile o arma. E per rassicurarlo ancora di più, se possibile, l'oggetto che Loki gli mette tra le mani è il più leggero di tutti, troppo insignificante perché la sua metamorfosi in arma fatale appaia verosimile. Neppure il fratello più attento al benessere e alla sicurezza del fratello potrebbe prevedere le terribili conseguenze della sua condotta se agisse come Hödhr. Insomma, per scagionare quest'ultimo, il mito accumula una scusa sull'altra. Invece del semplice disconoscimento che appare sufficiente nel caso degli altri dèi, la responsabilità di Hödhr è oggetto di almeno tre disconoscimenti successivi. E ogni volta, a farne le spese è Loki. Tre volte colpevole, insomma, dell'assassinio di cui è tecnicamente innocente, Loki manipola cinicamente lo sventurato Hödhr, tre volte innocente, lui, dell'assassinio di cui è il solo tecnicamente colpevole.
Chi vuole dimostrare troppo non dimostra niente. Quello che avviene nel mito di Baldr fa pensare all'imprudente eccesso di scuse di coloro che hanno qualcosa da farsi perdonare. Essi non si rendono conto che un'unica scusa, anche mediocre, vale più di molte, tutte eccellenti. Quando si cerca di ingannare il proprio pubblico, bisogna evitare di fargli capire, appunto, che si cerca di ingannarlo. E' sempre il desiderio di dissimulare troppo bene che rivela la dissimulazione. Questo desiderio diventa tanto più visibile quanto più fa sparire intorno a sé tutto ciò che potrebbe distrarci da esso e ci riporta subito alla cosa dissimulata. Nulla è più atto a destare sospetti quanto i fattori di irresponsabilità bizzarramente accumulati sul capo del vero colpevole.
E' possibile, come si vede, dare una lettura del mito di Baldr che spieghi tutti, senza eccezione, i dettagli del mito partendo da un principio unico, il più economico e il più semplice che vi sia; ma questo è possibile solo se si va a cercare questo principio, se non nell'assassinio collettivo reale, perlomeno nella ripugnanza rivelatrice che la sua rappresentazione ispira. Il mito è visibilmente ossessionato e completamente determinato da questa rappresentazione che pur tuttavia non appare da nessuna parte nei temi che esso ci propone. A credere ai mitologi attuali, questo mito si sbaglia. Non ha nessuna ragione valida di respingere la rappresentazione dell'assassinio collettivo perché l'assassinio collettivo non ha parte alcuna nella mitologia. Non meno impressionante è la constatazione che il mito di Baldr non tiene in alcun conto il dogma contemporaneo. Lo strutturalismo è l'ultima delle sue preoccupazioni. Penso che sia giusto lasciar parlare i miti, soprattutto se le cose che hanno da dire contraddicono i nostri preconcetti.
Bisogna dimostrare adesso che il mito di Baldr non costituisce qualcosa di aberrante, un'eccezione unica nella mitologia. Si trovano cose analoghe non ovunque, ma in un certo numero di tradizioni importanti, troppo vicine a quello che abbiamo appena visto riguardo al loro probabile intento e, contemporaneamente, troppo diverse riguardo alla soluzione adottata e al contenuto tematico della versione giunta fino a noi per non rafforzare l'idea che deve esistere nell'evoluzione di questi sistemi uno stadio di elaborazione e di adattamento caratterizzato dalla cancellazione della nozione di «assassinio collettivo». Questa volontà di cancellazione è molto spettacolare perché si giustappone di regola a un conservatorismo religioso preoccupato di preservare l'integrità, o quasi, di rappresentazioni anteriori, il cui oggetto non può essere altro che l'assassinio collettivo stesso.
Farò dunque un secondo esempio tratto, questa volta, dalla mitologia greca. Si tratta della nascita di Zeus. Il dio Crono divora tutti i suoi figli e sta cercando l'ultimo nato, Zeus, che Rea, la madre, gli ha sottratto. I Cureti, feroci guerrieri, nascondono il bambino disponendosi in cerchio intorno a lui. Terrorizzato, il piccolo Zeus piange così forte che il padre potrebbe rintracciare il suo nascondiglio. Per coprire la sua voce e ingannare l'orco divoratore, i Cureti fanno cozzare le loro armi e si comportano nella maniera più rumorosa e minacciosa possibile (2).
Più il bambino ha paura e le sue grida si fanno acute, più i Cureti per proteggerlo devono comportarsi in modo da aumentare questa paura. Appaiono quindi tanto più spaventosi quanto più rassicurante e protettivo è, in realtà, il loro comportamento. Si direbbe che si sono disposti in cerchio intorno al bambino per metterlo a morte: in verità è per salvargli la vita.
Una volta ancora la violenza collettiva è assente dal mito; ma essa non è assente alla stregua di tante altre cose ugualmente assenti alle quali questo mito non fa pensare; è assente in modo analogo, ma non identico a quello che ho appena analizzato nel mito di Baldr. Disposti in cerchio intorno al bambino, i Cureti ci ricordano la configurazione e il comportamento caratteristici dell'assassinio collettivo. Cos'altro possiamo immaginare di fronte a queste grida selvagge e a queste armi impugnate torno torno in direzione di un essere senza difesa? Se si trattasse di uno spettacolo senza parole, di un quadro vivente, non esiteremmo ad attribuirgli il senso che il mito rifiuta di attribuirgli. Parimenti al gioco truccato degli Asi o al suicidio degli Aztechi, la mimica dei Cureti e la reazione spaventata del bambino assomigliano, fin dove il paragone è possibile, al dramma che statisticamente domina la mitologia mondiale. Ma questo mito, così come quello di Baldr, ci assicura che si tratta di una rassomiglianza illusoria. Sembrerebbe già antropologia contemporanea.
Per eliminare dalla scena il suo significato violento, entrambi i miti conferiscono al gruppo degli assassini un ruolo di «protettori». Ma la rassomiglianza non va oltre. Nel mito scandinavo l'assassinio collettivo presentato come non reale ha le stesse conseguenze di un assassinio reale. Nel mito greco non si ha più alcuna conseguenza. La dignità di Zeus è incompatibile con una morte per mano dei Cureti. Anche in questo caso suppongo debba esistere una versione più primitiva di questo mito che includeva un assassinio collettivo. Una metamorfosi l'ha privata di questo assassinio senza modificare o modificandone il meno possibile le rappresentazioni che lo esprimevano. Il problema è lo stesso, ma la soluzione greca è insieme più elegante e radicale della soluzione scandinava. Riesce a dare un significato protettore alla scena stessa del linciaggio, al cerchio che i linciatori formano intorno alla loro vittima. Il mito scandinavo non aveva altra via d'uscita, lo abbiamo visto, se non quella di presentare come puramente ludico un comportamento che persino gli osservatori più refrattari alla problematica dell'assassinio collettivo riconoscono che deve essere «truccato», ossia che deve possedere "un altro senso".
Le due soluzioni sono troppo originali perché uno dei due miti abbia influenzato l'altro. Si tratta di due pensieri religiosi che tendono non proprio allo stesso risultato, ma a due risultati molto analoghi, in uno stadio analogo della loro evoluzione. Di fronte a questo genere di cose, non bisogna esitare a riabilitare l'idea di un'evoluzione della mitologia o piuttosto, come vedremo, a ricorrere all'idea di rivoluzioni successive riservate, d'altronde, ad un numero ristretto di tradizioni religiose.
Come il mito di Baldr, quello dei Cureti deve provenire da interpreti sinceramente convinti di aver ricevuto la loro tradizione mitologica in una forma alterata. L'assassinio collettivo sembra loro troppo scandaloso per essere autentico e non credono di falsificare i testi quando reinterpretano a modo loro la scena che lo conteneva. Anche qui sembra sia la trasmissione a essere colpevole. Invece di trasmettere fedelmente la tradizione che avevano ricevuta, gli antenati l'hanno probabilmente corrotta perché erano incapaci di comprenderla. Anche qui la violenza, che una volta era spartita tra tutti gli assassini, è rigettata su un unico dio, Crono, che a causa di questo trasferimento diventa propriamente mostruoso. Questo genere di caricatura non si trova, generalmente, in quei miti dove figura la rappresentazione dell'assassinio collettivo. Si opera in essi una certa spartizione del "bene" e del "male": il dualismo morale sorge congiuntamente alla cancellazione della violenza "collettiva". Il fatto che il male sia rigettato su un dio della generazione precedente, nella mitologia olimpica, riflette probabilmente la concezione negativa da parte della nuova sensibilità religiosa nei confronti della rappresentazione che essa trasforma.
Ho appena dato del mito di Zeus e dei Cureti una lettura interamente basata su un'assenza, quella dell'assassinio collettivo. Ho trattato tale assenza come se si trattasse di un dato certo mentre resta un dato inevitabilmente speculativo, più speculativo che nel caso di Baldr perché Zeus, a differenza di Baldr, viene risparmiato e le conseguenze dell'assassinio collettivo non sono presenti. Benché rafforzata dalla somiglianza dei due miti, la mia interpretazione del mito greco è sicuramente più debole di quella del mito scandinavo. Per migliorarla, bisognerebbe scoprire, in prossimità del nostro mito, un secondo mito il più possibile simile e tuttavia differente per non aver cancellato l'assassinio collettivo del bambino divino; il secondo mito dovrebbe lasciar sussistere nella pienezza del senso originario la scena abilmente trasfigurata nel mito dei Cureti. Le probabilità che questa trasfigurazione sia reale e che la mia interpretazione sia esatta ne verrebbero accresciute. E' forse chiedere troppo? Niente affatto. Esiste, nella mitologia greca, un mito perfettamente omologo a quello dei Cureti, fatta eccezione per una cosa: la violenza collettiva vi appare e si esercita proprio su un bambino divino; inoltre, possiede ancora il senso che "manca chiaramente" nel mito dei Cureti. Giudicate voi:
Per attirare il piccolo Dioniso nel loro cerchio, i Titani agitano certi ninnoli. Sedotto da questi oggetti scintillanti, il bambino si fa avanti e il cerchio mostruoso si richiude su di lui. Tutti insieme, i Titani assassinano Dioniso; dopodiché lo fanno cuocere e lo divorano. Zeus, padre di Dioniso, fulmina i Titani e resuscita suo figlio (3).
Dai Cureti ai Titani, la maggior parte dei significati s'invertono. Protettore nel mito dei Titani, il padre è distruttore e cannibale in quello dei Cureti; distruttrice e cannibale nel mito dei Titani, la collettività è protettrice in quello dei Cureti. In entrambi i miti, davanti al bambino vengono agitati alcuni oggetti. Apparentemente inoffensivi, ma in realtà mortali nel caso dei Titani, sono apparentemente mortali ma in realtà inoffensivi nel caso dei Cureti.
La mitologia è un gioco di trasformazioni. E' stato Lévi-Strauss a dimostrarlo veramente, e il suo contributo è prezioso. Ma l'etnologo immagina, a torto mi pare, che il passaggio si possa sempre fare in qualsiasi senso. Tutto si situa sullo stesso piano. Nulla di essenziale è mai vinto né perso. Non esiste un indicatore di direzione del tempo.
Si vede qui chiaramente l'insufficienza di questa concezione. I nostri due miti sono effettivamente l'uno la trasformazione dell'altro: l'ho appena mostrato. Dopo aver mischiato le carte, il prestigiatore le dispone una seconda volta in ordine diverso. Si ha l'impressione che siano tutte lì, ma è proprio così? Se guardiamo meglio, scopriremo che in realtà ne manca sempre una, sempre la stessa, la rappresentazione dell'assassinio collettivo. Tutto ciò che di diverso accade è subordinato a questa scomparsa, e limitarsi a considerare soltanto il rimescolamento delle carte significa limitarsi all'inessenziale. E d'altra parte è impossibile capirlo sino in fondo se non si capisce a quale segreto disegno esso corrisponda.
L'analisi strutturalista si basa sul principio unico dell'opposizione binaria differenziata. Questo principio non permette di individuare nella mitologia l'importanza fondamentale del tutti contro uno della violenza collettiva. Lo strutturalismo vi vede soltanto un'opposizione tra tante altre e la riporta alla legge comune. Non dà nessun significato particolare alla rappresentazione della violenza quando è presente e, a fortiori, quando non è presente. Il suo strumento d'analisi è troppo rudimentale per comprendere ciò che si perde nel corso di una trasformazione come quella che ho appena rilevato. Se il prestigiatore mischia le carte a lungo e le fa vedere in un ordine diverso, è per impedirci di pensare a quella che ha fatto sparire e per farci dimenticare questa sparizione se per caso l'avessimo notata. Il prestigiatore mitologico e religioso ha nei nostri strutturalisti un ottimo pubblico. Come potrebbero, i nostri mitologi, accorgersi del trucco, in una scena che fanno di tutto per non vedere?
Rilevare la scomparsa dell'assassinio collettivo nel passaggio dal mito dei Titani a quello dei Cureti, significa comprendere che questo genere di trasformazione può verificarsi soltanto in un senso, quello appena indicato. L'assassinio collettivo può certamente sparire dalla mitologia, anzi è quello che fa sempre; ma una volta scomparso è evidente che non può più riapparire, non rispunterà più, da qualche rimescolamento di carte, armato di tutto punto, come Minerva che esce dalla testa di Giove. Una volta che un mito è passato dalla forma Titani alla forma Baldr o alla forma Cureti, il ritorno alla forma anteriore non avviene mai; è inconcepibile. In altre parole, vi è una storia della mitologia. Posso riconoscere questo fatto senza ricadere nelle vecchie illusioni dello storicismo. E' da un'analisi esclusivamente testuale e 'strutturale' che scaturisce la necessità di tappe storiche o, se si preferisce, diacroniche. La mitologia cancella l'assassinio collettivo, ma non lo reinventa perché, evidentemente, non lo ha mai inventato.
Tutto questo non mira assolutamente a suggerire che il mito dei Cureti nasca dal mito dei Titani, che esso sia la trasformazione di questo mito e non di un altro. Vi sono abbastanza assassinii collettivi sparsi nella mitologia perché sia necessario ricorrere a uno in particolare. D'altronde, considerando meglio il mito dei Titani, ci accorgiamo che corrisponde a una visione religiosa non molto divergente, forse, da quella del mito di Zeus e, anche se ha mantenuto la rappresentazione dell'assassinio collettivo, deve essere stato oggetto di una qualche manipolazione. In effetti vi ritroviamo, sempre a profitto di Zeus, la stessa spartizione del "bene" e del "male" che troviamo nel mito dei Cureti. La violenza collettiva rimane, ma è dichiarata malvagia allo stesso modo del cannibalismo. Come nel mito dei Cureti, la violenza è attribuita a una generazione mitologica più antica, vale a dire ad un sistema religioso ormai percepito come 'selvaggio' o 'primitivo'.
Di fronte al mito dei Titani, i bambini e le persone ingenue provano un senso di spavento, e quasi indietreggiano. I nostri etnologi moderni direbbero che si lasciano dominare dall'affettività. Anch'io ricado, mi dicono, in un'etnologia "affettiva", destinata, senza fallo, all'incoerenza sentimentale. Come i romanzieri realisti del 1850, le nostre scienze dell'uomo considerano la freddezza e l'impassibilità lo stato d'animo più idoneo all'acquisizione di un sapere veramente scientifico. L'esattezza matematica delle cosiddette scienze 'rigorose' suscita un'ammirazione che spesso induce a prendere troppo alla lettera la metafora del rigore. La ricerca disdegna dunque i sentimenti, che per altro non può eliminare senza rischio perché hanno una parte preponderante nell'oggetto stesso che studia, ossia in questo caso il testo mitologico. Anche se si potesse mantenere una separazione completa tra l'analisi delle 'strutture' e l'affettività, non vi sarebbe alcun interesse a mantenerla. Per afferrare il segreto delle trasformazioni mitologiche nei nostri due esempi, bisogna tener conto di sentimenti che l'etnologia disprezza. Fare i rigorosi per non sembrare disarmati, significa in realtà privarsi delle migliori armi.
I nostri veri trionfi sulla mitologia non hanno niente a che vedere con questa falsa impassibilità. Risalgono a un'epoca in cui la scienza senza coscienza non esisteva, e sono l'opera anonima di coloro che, per primi, si levarono contro la caccia alle streghe e criticarono le rappresentazioni persecutorie delle folle intolleranti.
Persino sotto il profilo di una lettura esclusivamente formale e di tutto ciò che viene considerato il punto forte della scuola attuale, non si possono raggiungere risultati soddisfacenti senza tener conto sia dell'assassinio collettivo quando è presente, sia del malessere motivato dalla sua scomparsa quando non è presente: è intorno alla sua assenza che si organizzano ancora tutte le rappresentazioni. Se non si vuol vedere questo malessere, non si potranno mai evidenziare "neppure gli aspetti strettamente combinatori e trasformazionali dei rapporti tra alcuni miti".


NOTE AL CAPITOLO 6.

(1). Paris, 1968, p. 224 [trad. it. "Mito e epopea", Einaudi, Torino, 1982, p. 216].
(2). Strabone, X, 468. Jane Harrison, "Themis", Cambridge, 1912.
(3). M. Eliade, "Histoire des idées et des croyances religieuses", cit., I, p.p. 382-87 [trad. it. "Storia delle credenze e delle idee religiose", cit., I, p.p. 398-403].

indice


informativa privacy