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Il capro espiatorio 5.
TEOTIHUACAN.


I miei critici mi accusano di scivolare continuamente dalla rappresentazione di una cosa alla realtà della cosa rappresentata. I lettori che mi hanno seguito fin qui con un po' di attenzione si saranno invece convinti che io non merito questo rimprovero, e che se mai lo merito, allora lo meritiamo tutti quanti, quando postuliamo la realtà delle vittime dietro i testi quasi mitologici dei persecutori medioevali.
Comunque, adesso passerò ai miti più difficili per la mia tesi, almeno in apparenza, perché essi negano la pertinenza alla mitologia dell'assassinio collettivo. Un modo di negare questa pertinenza consiste nell'affermare che le vittime sono sì effettivamente morte, ma dandosi la morte volontariamente. Che fare dei miti dell'autosacrificio nelle società primitive?
Mi occuperò allora di un grande mito americano dell'autosacrificio: quello della creazione del sole e della luna secondo gli Aztechi. Lo dobbiamo, come quasi tutto ciò che sappiamo degli Aztechi, a Bernardino da Sahagún, autore della "Historia general de las cosas de la Nueva España". Georges Bataille ne ha fornito in "La part maudite" una traduzione e un adattamento che riporterò qui abbreviando leggermente:

«Si racconta che, quando ancora non esisteva la luce del giorno, gli dèi si riunirono in un luogo chiamato Teotihuacán [...] e si chiesero: 'Chi si assumerà il compito di illuminare il mondo?'. Un dio chiamato "Tecuciztecatl" rispose: 'Io mi assumerò il compito di illuminarlo'. Gli dèi parlarono una seconda volta e dissero: 'Chi altri ancora?'. Poi si guardarono l'un l'altro cercando chi sarebbe stato costui, ma nessuno osava offrirsi per quel compito; tutti avevano paura e se ne scusavano. Soltanto uno, del quale non si teneva conto, e che aveva delle "bubas" (pustole), se ne stava silenzioso ad ascoltare gli altri. Costoro gli rivolsero la parola: 'Spetta a te, piccolo "buboso"'. Egli obbedì volentieri al comando e rispose: 'Ricevo il vostro ordine come una grazia; così sia'. I due prescelti cominciarono subito una penitenza di quattro giorni [...].
«A mezzanotte, tutti gli dèi si disposero attorno al focolare chiamato "Teotexcalli", dove il fuoco bruciò per quattro giorni. Si distribuirono in due file che si sistemarono, separatamente, ai due lati del fuoco. Giunsero i due prescelti che presero posto intorno al focolare, con la faccia verso il fuoco, tra le due schiere degli dèi in piedi che, rivolgendosi a "Tecuciztecatl", gli dissero: 'Su, "Tecuciztecatl", buttati nel fuoco'. Questi provò a lanciarvisi, ma, siccome il fuoco era grande e ardente, si impaurì sentendo quel grande calore e indietreggiò. Una seconda volta si fece coraggio e riprovò a buttarsi nel fuoco, ma quando si fu avvicinato si fermò e non osò andare oltre. Fece invano il tentativo per quattro volte di seguito. Ora, era stato ordinato che nessuno potesse fare il tentativo più di quattro volte. Concluse quindi le quattro prove, gli dèi si rivolsero a "Nanauatzin" (era il nome del "buboso") e gli dissero: 'Su, "Nanauatzin", adesso prova tu'. Appena gli ebbero detto queste parole, egli raccolse le forze, chiuse gli occhi, prese lo slancio e si gettò nel fuoco. Si udì subito un crepitio come di un oggetto che viene arrostito. "Tecuciztecatl", vedendo che l'altro si era gettato nel fuoco e vi bruciava, immediatamente prese anche lui lo slancio e si precipitò nel braciere. Si dice che un'aquila vi entrò nello stesso momento e si bruciò e che per questo le sue piume sono ora nerastre; la seguì una tigre, che si scottò senza bruciarsi: così rimase macchiata di bianco e di nero.
«Poco dopo, gli dèi, in ginocchio, videro "Nanauatzin" 'diventato il sole' levarsi a oriente. Apparve molto rosso, oscillante da una parte e dall'altra, e nessuno riusciva a fissare lo sguardo su di lui perché accecava, tanto splendevano i raggi che da lui si staccavano e si spandevano ovunque. A sua volta, la luna si levò all'orizzonte. Per avere esitato, "Tecuciztecatl" ebbe meno splendore. Gli dèi dovettero poi morire, il vento "Quetzalcoatl" li uccise tutti: il vento strappò loro il cuore, e ne animò gli astri appena nati» (1).

Il primo dio non è incaricato da nessuno, è veramente volontario; ma non così il secondo. Dopo, accadrà l'inverso. Il secondo dio si butta subito nel fuoco senza che sia necessario ripetergli l'ingiunzione, ma non così il primo. Nel comportamento delle due divinità, dunque, entra ogni volta un elemento di costrizione. Quando si passa da un dio all'altro, si verificano delle inversioni che trovano espressione, allo stesso tempo, in differenze e in simmetrie. Bisogna tener conto delle prime ma, al contrario di ciò che pensano gli strutturalisti, più rivelatrici delle differenze sono le simmetrie, gli aspetti comuni alle due vittime.
Il mito mette l'accento sull'aspetto libero e volontario della decisione. Gli dèi sono grandi e, essenzialmente, consentono in piena autonomia di darsi la morte per assicurare l'esistenza del mondo e dell'umanità. In tutti e due i casi, tuttavia, si ritrova questo elemento oscuro di costrizione che fa riflettere.
Dopo essere stato designato dagli dèi, il piccolo "buboso" dà prova di grande docilità. Si esalta all'idea di morire per una causa così bella come la nascita del sole, ma la sua non è una decisione volontaria. Vi è qui, probabilmente, una colpa comune a tutti gli dèi che, spaventati e intimiditi, non osano «offrirsi per quel compito». Non è che una piccola colpa, si dirà; forse, ma vedremo poi che nei miti vi è la tendenza a minimizzare la colpa degli dèi. Si tratta pur sempre di una colpa e il "buboso" la fa propria, per breve tempo, prima di assumersi coraggiosamente il compito che gli si affida.
"Nanauatzin" possiede una caratteristica particolare che non può non attrarre la nostra attenzione: le "bubas", pustole, che fanno di lui un lebbroso o un appestato, il rappresentante di una qualche malattia contagiosa. Nella mia prospettiva, quella della persecuzione collettiva, è necessario cogliere un aspetto preferenziale di selezione vittimaria e domandarsi se non sia proprio questo aspetto a determinare la scelta della vittima. Vi sarebbero, dunque, una vittima e un crimine collettivo, piuttosto che un autosacrificio. Certo, il mito non ci dice che le cose stanno così ma non bisogna aspettarsi, naturalmente, che un mito ci riveli questo genere di verità.
Il mito ci conferma, tuttavia, che "Nanauatzin" ha qui la funzione di capro espiatorio, quando ce lo presenta come un dio "del quale non si teneva conto", che se ne stava in disparte e silenzioso.
Notiamo di sfuggita che il dio del sole per gli Aztechi è anche il dio della peste, come lo è Apollo per i Greci. E forse Apollo assomiglierebbe di più al dio degli Aztechi se la censura olimpica non fosse passata su di lui per cancellare qualsiasi segno vittimario.
Questa congiunzione si ritrova in numerosi luoghi. Che cosa c'è di comune tra la peste e il sole? Per capirlo, occorre rinunciare ai simbolismi insipidi e agli inconsci da paccottiglia sia collettivi sia individuali. Vi si trova sempre quel che si vuole, perché non vi si mette altro che quel che si vuole. E' meglio guardare bene, e direttamente, la scena che abbiamo sotto gli occhi. Gli uomini hanno sempre bruciato sui roghi i loro "bubosos", perché da sempre vedono nel fuoco la purificazione più radicale. Il legame non appare esplicitamente nel nostro mito, ma lo si avverte sottinteso. E altri miti americani lo rendono esplicito. Più il contagio è minaccioso e più necessaria è la fiamma per combatterlo. Se a questo si aggiunge un qualche grande effetto di capro espiatorio, i carnefici si volgeranno come di consueto verso la loro vittima che già ritengono responsabile dell'epidemia e che riterranno poi responsabile della guarigione. Gli dèi del sole sono dapprima dei malati, giudicati tanto pericolosi che si deve ricorrere all'immensa fiamma di Teotihuacán, vero e proprio sole artificiale, per distruggerli fino all'ultimo atomo. Se la malattia si allontana improvvisamente, la vittima diventa divina proprio perché si fa bruciare, perché così si confonde con la brace che dovrebbe annientarla e che misteriosamente la trasforma in una potenza benefica. Eccola dunque metamorfosizzata nella fiamma inestinguibile che brilla sull'umanità. Dove si ritroverà in seguito questa fiamma? Porre questa domanda significa darle una risposta. Non può trattarsi che del sole o, quanto meno, della luna e delle stelle. Soltanto gli astri danno una luce permanente agli uomini, ma non è detto che questo avverrà sempre: per incoraggiare la loro benevola collaborazione, bisogna nutrirli e mantenerli con delle vittime, ripercorrendo le tappe della loro genesi; ci sarà quindi sempre bisogno di vittime.
Il dio compie i suoi misfatti e distribuisce i suoi benefici attraverso uno stesso e identico procedimento, cioè inviando i suoi raggi sulla folla. I raggi portano sì luce, calore e fecondità, ma anche la peste. Diventano allora le frecce che un Apollo irritato lancia sui Tebani. Alla fine del Medioevo, ritroviamo gli stessi temi nella devozione a san Sebastiano. Essi formano un sistema di rappresentazione persecutoria e sono organizzati, come di consueto, da un effetto di capro espiatorio, anche se molto indebolito (2).
Si crede che il santo protegga dalla peste "perché è crivellato di frecce" e perché le frecce significano sempre quello che già significavano per i Greci e probabilmente anche per gli Aztechi: i raggi del sole, la peste. Le epidemie sono frequentemente rappresentate da piogge di frecce lanciate sugli uomini dal Padre Eterno e persino da Cristo.
Tra san Sebastiano e le frecce, ovvero l'epidemia, esiste una specie di affinità e i fedeli sperano che sarà sufficiente la sua presenza, la sua effigie nelle loro chiese, perché il santo attiri su di sé le frecce vaganti, ed egli sia colpito al loro posto. Insomma, si propone san Sebastiano come bersaglio preferenziale della malattia, lo si brandisce come un serpente di bronzo.
Il santo svolge quindi la funzione di capro espiatorio, protettore perché appestato, e quindi sacralizzato nel duplice senso primitivo di maledetto e benedetto. Come tutti gli dèi primitivi, egli protegge perché monopolizza il flagello, anzi, al limite, lo incarna. L'aspetto malefico di questa incarnazione è quasi sparito. Bisogna dunque astenersi dal dire: «Presso gli Aztechi avviene esattamente la stessa cosa». Non si tratta della stessa cosa, perché qui non vi è violenza effettiva ma si tratta certamente dello stesso meccanismo, tanto più facilmente individuabile per noi dal momento che funziona a un regime infimo, a un livello di credenza molto basso.
Se si confronta san Sebastiano con gli Ebrei perseguitati e «dispensatori di salute», ci si accorge che gli aspetti malefici e benefici appaiono in proporzione inversa. Le persecuzioni reali e gli aspetti «pagani», primitivi, del culto dei santi sono intaccati in maniera diseguale dalla decomposizione del mitologico.
La sola colpa che si possa rimproverare a "Nanauatzin" è di avere atteso passivamente il suo incarico. In compenso, questo dio possiede un indubbio elemento di selezione vittimaria. L'inverso vale per "Tecuciztecatl" che non possiede alcun elemento di selezione vittimaria, ma dà prova, alternativamente, di estrema vanagloria e di vigliaccheria. Durante i quattro giorni della sua penitenza, moltiplica i gesti di ostentazione e, anche se non commette crimini contro natura, è colpevole di "hybris", in un senso non dissimile da quello dei Greci.
Senza vittime, non vi sarebbe né sole né luna; il mondo sarebbe immerso nell'oscurità e nel caos. L'intera religione azteca si basa su questa idea. Il punto di partenza del nostro mito è la temibile indifferenziazione del giorno e della notte. Qui si ritrova dunque, in forma classica, lo stereotipo della crisi, cioè della circostanza sociale più favorevole agli effetti di capro espiatorio.
Abbiamo dunque tre stereotipi su quattro: una crisi, diverse specie di colpe se non di crimini, un criterio di selezione vittimaria e due morti violente che producono, alla lettera, la decisione differenziatrice. Ne risulta non solo l'apparizione dei due astri luminosi, ben differenziati l'uno dall'altro, ma anche la colorazione specifica di due animali: l'aquila e la tigre.
Il solo stereotipo che manca è quello dell'assassinio collettivo. Il mito ci assicura che non c'è assassinio perché la morte è volontaria, ma molto opportunamente mescola, come ho detto, un elemento di costrizione alla libera volontà delle due vittime. E per convincerci che si è in presenza di un assassinio collettivo molto superficialmente negato o camuffato, non dobbiamo fare altro che osservare la scena cruciale. Gli dèi sono schierati ai due lati, in due file minacciose. Sono loro che organizzano tutto, fissando ogni dettaglio. Agiscono sempre di comune accordo, parlano con una sola voce, prima per scegliere il secondo «volontario», e poi per ordinare alle due vittime di gettarsi «volontariamente» nel fuoco. Che cosa succederebbe se il volontario inadempiente non si decidesse infine a seguire l'esempio del compagno? Gli dèi che lo attorniano lo autorizzerebbero forse a riprendere il suo posto, come se niente fosse successo, oppure passerebbero a forme di convincimento più brutali? L'idea che le vittime potrebbero sottrarsi del tutto al loro compito demiurgico non è verosimile. Se una di esse cercasse di fuggire le due file parallele di dèi formerebbero immediatamente il cerchio che farebbe precipitare il delinquente tra le fiamme, richiudendosi su di lui.
Chiedo al lettore di tenere bene a mente questa configurazione circolare o quasi circolare, che riapparirà con o senza il fuoco, con o senza vittima apparente, nella maggior parte dei miti di cui parlerò.
In sintesi: il sacrificio delle due vittime ci è presentato essenzialmente come atto libero, autosacrificio ma, in entrambi i casi, un elemento di costrizione intacca sottilmente tale libertà in due momenti diversi della sequenza dell'evento. Questo elemento di costrizione è decisivo poiché si aggiunge a tutto ciò che, già in questo testo, suggerisce un fenomeno di persecuzione mitologizzato dalla prospettiva dei persecutori; tre stereotipi su quattro sono presenti e il quarto è fortemente evocato tanto dalla morte delle vittime, quanto dalla configurazione generale della scena. Se questa stessa scena apparisse come un quadro vivente e muto, non dubiteremmo che si tratta della messa a morte di vittime il cui consenso è l'ultima delle preoccupazioni dei sacrificatori. Tanto meno avremmo di che dubitarne, in quanto riconosceremmo in esso l'attività religiosa per eccellenza della civiltà azteca: il sacrificio umano. Alcuni specialisti azzardano la cifra di ventimila vittime all'anno, nel periodo della conquista di Cortés. Anche se questa stima fosse molto esagerata, il sacrificio umano avrebbe avuto, nondimeno, nella civiltà azteca un ruolo propriamente mostruoso. Questo popolo era costantemente impegnato a guerreggiare non per estendere il proprio territorio bensì per procurarsi le vittime necessarie agli innumerevoli sacrifici registrati da Bernardino da Sahagún.
Gli etnologi posseggono tutti questi dati da secoli, in verità fin dall'epoca in cui furono effettuate le prime decifrazioni della rappresentazione persecutoria nel mondo occidentale. Eppure non traggono le stesse conclusioni nei due casi. Oggi meno che mai. Passano la maggior parte del tempo a minimizzare e addirittura a giustificare pienamente, nella civiltà azteca, quello che, nel proprio universo, a buon diritto condannano. Una volta ancora ritroviamo i due pesi e le due misure che caratterizzano le scienze dell'uomo quando si occupano di società storiche e di società etnologiche. La nostra impotenza a individuare nei miti una rappresentazione persecutoria ancora più mistificata della nostra non deriva soltanto dalla maggiore difficoltà dell'impresa, dalla trasfigurazione più compiuta dei suoi dati, ma deriva anche da una straordinaria ripugnanza, da parte dei nostri intellettuali, a guardare le cosiddette società «etnologiche» con la stessa implacabilità che usano per la loro.
Certo, gli etnologi hanno un compito difficile. Al minimo contatto con la società occidentale e moderna le «loro» culture si frantumano come fossero di vetro, al punto che oggi non esistono quasi più. Questo stato di cose ha sempre comportato, e comporta ancora oggi, forme di oppressione rese ancora più amare dal disprezzo che le accompagna. Gli intellettuali moderni sono soprattutto ossessionati da tale disprezzo e si sforzano di presentare questi universi scomparsi sotto la luce migliore. Al punto che, talvolta, la nostra ignoranza diventa un vantaggio. Come potremmo altrimenti criticare il modo in cui queste popolazioni vivevano la propria religione? Noi non siamo in grado di contraddirli quando ci presentano le loro vittime come autentici volontari, credenti che immaginavano di prolungare l'esistenza del mondo lasciandosi massacrare senza aprir bocca. Presso gli Aztechi esiste insomma un'ideologia del sacrificio, e il nostro mito fa vedere chiaramente in che cosa essa consista. Senza vittime, il mondo sarebbe immerso nell'oscurità e nel caos. Le prime vittime non bastano. Alla fine del brano che ho citato, il sole e la luna brillano nel cielo ma restano immobili; per costringerli a muoversi, bisogna sacrificare prima gli dèi tutti gli dèi senza eccezione, poi le folle anonime che li sostituiscono. Tutto si basa sul sacrificio.
Certamente «qualcosa di vero» c'è, nel mito della vittima consenziente, e il mito stesso ce lo mostra. Il dio fanfarone ha presunto troppo delle proprie forze; indietreggia nel momento cruciale: questo ritrarsi suggerisce che non tutte le vittime erano così consenzienti come gli etnologi vorrebbero credere. Alla fine "Tecuciztecatl" vince la propria codardia, e l'esito diverso tra i suoi primi tentativi e quello finale è dovuto all'esempio datogli dal suo compagno. Emerge qui in piena luce la forza che domina gli uomini che vivono in società: l'imitazione, il mimetismo. Fin qui non ne ho parlato perché volevo dimostrare nel modo più semplice quanto sia pertinente la nozione di assassinio collettivo per l'interpretazione della mitologia; volevo attirare l'attenzione soltanto sui dati strettamente indispensabili, e il mimetismo, in verità, non lo è. Segnalo ora la parte notevole che ad esso attribuisce il nostro mito.
E' la volontà di superare tutti gli altri dèi, è lo spirito di rivalità mimetica che, visibilmente, spinge il futuro dio-luna a dichiararsi volontario. Pretende di essere senza rivali, il primo di tutti, di servire da modello agli altri, ma di essere, egli stesso, senza modelli. Questa è una "hybris", una forma di desiderio mimetico così esasperata da pretendersi al di là di ogni mimetismo, da non volere altro modello se non se stesso. Se il dio-luna non può ubbidire all'ingiunzione di gettarsi nel fuoco è perché, evidentemente, dopo aver ottenuto quel primo posto da lui rivendicato, si trova all'improvviso privo di un modello. Benché non possa più ispirarsi a nessuno, deve guidare gli altri; ma non ne sarà capace per la stessa ragione che lo ha spinto a rivendicare il primo posto: egli è troppo puramente mimetico. Al contrario, il secondo dio, il futuro sole, non ha cercato di mettersi in luce; è meno istericamente mimetico e per questo, giunto il suo turno, egli prende risolutamente l'iniziativa che il suo confratello non ha saputo prendere; egli può dunque servire da modello efficace a colui che non è in grado di agire senza modello.
Ovunque, nel mito, gli elementi mimetici circolano in modo sotterraneo. Il moralismo della fiaba non li esaurisce; il contrasto tra i due personaggi si iscrive nel cerchio più vasto di un'altra imitazione, quella degli dèi riuniti, mimeticamente unificati, che governa l'insieme della scena. Tutto quello che fanno gli dèi è perfetto poiché unanime. Il gioco fra libertà e costrizione risulta in fin dei conti inestricabile, perché è subordinato alla potenza mimetica di tutti gli dèi riuniti. Ho parlato di un agire libero nel caso di colui che, in risposta all'appello degli dèi, si offre volontario o si getta senza esitazione nel fuoco, ma questa libertà è tutt'una con la volontà divina che dice sempre: «Su, buttati nel fuoco». Non si ha mai altro che imitazione - più o meno rapida, più o meno diretta - di questa volontà. La volontà spontanea si fa tutt'una con l'esempio irresistibile, con la potenza ipnotica dell'esempio. Per il piccolo "buboso", le parole degli dèi «Su, buttati nel fuoco» si cambiano immediatamente in azione; hanno già una forza esemplare. Per l'altro dio, le parole non bastano; a esse deve aggiungersi lo spettacolo dell'azione stessa. "Tecuciztecatl" si getta nel fuoco poiché vede il suo compagno gettarvisi. Poco fa ci sembrava il più mimetico, ma forse, in definitiva, non era meglio definirlo il meno mimetico dei due?
La collaborazione mimetica delle vittime con i loro carnefici si perpetua nel Medioevo e persino nella nostra epoca, ma in forme più deboli. Le streghe, nel Cinquecento, scelgono il rogo da sole; le hanno ben convinte dell'orrore dei loro misfatti. Gli eretici stessi richiedono frequentemente il supplizio che meritano per le loro abominevoli credenze; non concederglielo sarebbe una mancanza di carità. Anche nella nostra epoca le vipere lubriche di tutti gli stalinismi confessano, anche più di ciò che si chiede loro di confessare, e si rallegrano del giusto castigo che le aspetta. Non credo che la paura basti a spiegare questo tipo di comportamento. Già Edipo si unisce all'accordo unanime che fa di lui la più abominevole delle sozzure; vomita se stesso e supplica la città di Tebe di vomitarlo realmente.
Quando questi atteggiamenti rispuntano nella nostra società, ci rifiutiamo con indignazione di farcene complici, ma li accettiamo senza scomporci quando si tratta degli Aztechi o di altri popoli primitivi. Gli etnologi ci descrivono con l'acquolina in bocca la sorte invidiabile di quelle vittime. Nel periodo che precede il loro sacrificio, esse godono di privilegi straordinari e con serenità, forse perfino con gioia, vanno incontro alla morte. Jacques Soustelle, tra gli altri, raccomanda ai suoi lettori di non interpretare questa carneficina religiosa alla luce dei nostri concetti. L'orribile peccato di etnocentrismo è in agguato e, qualunque cosa avvenga nelle società esotiche, bisogna astenersi da un qualsiasi giudizio negativo (3).
Benché sia lodevole preoccuparsi di «riabilitare» mondi misconosciuti, bisogna farlo con discernimento. Gli eccessi attuali fanno a gara, quanto a ridicolaggine, con l'ampollosità orgogliosa di una volta, ma in senso contrario. In fondo, è ancora la vecchia condiscendenza: a queste società noi non applichiamo gli stessi criteri che applichiamo a noi stessi ma, questa volta, grazie a una inversione demagogica assai tipica del nostro tempo. O le nostre fonti non valgono niente, quindi non dobbiamo far altro che tacere e non sapremo mai nulla di certo sugli Aztechi; oppure esse valgono qualcosa, quindi siamo obbligati per onestà a concludere che la religione di questo popolo non ha certo usurpato il suo posto nel museo universale dell'orrore umano. Lo zelo antietnocentrico va fuori strada quando giustifica le orge sanguinose con l'immagine visibilmente ingannevole che esse danno di se stesse.
Anche se permeato di ideologia sacrificale, il mito atroce e magnifico di Teotihuacán reca in sé una tacita testimonianza contro questa visione mistificatrice. Se c'è qualcosa che può dare una nota umana a questo testo, non è certo il falso idillio tra le vittime e i loro carnefici che il neorousseauismo e il neonietzscheanesimo dei due dopoguerra propongono così fastidiosamente. A questa visione ipocrita, pure senza arrivare a contraddirla apertamente, si oppongono quelle esitazioni, da me sottolineate, di fronte alle false evidenze che le circondano; l'inquietante bellezza di questo mito è inseparabile da una sorta di vibrazione che lo pervade tutto. Occorre amplificare questa vibrazione per far vacillare l'edificio e costringerlo a crollare.


NOTE AL CAPITOLO 5.

(1). P.p. 101-103 [trad. it. "La parte maledetta", Bertani, Verona, 1972].
(2). J. Delumeau, "La peur en Occident", cit., p. 107 [trad. it. "La paura in Occidente", cit., p. 167].
(3). "La vie quotidienne des Aztèques", Hachette, Paris, 1955, p.p. 126-29 [trad. it. "Vita quotidiana degli Aztechi", Il Saggiatore Milano, 1965, p.p. 140-44].

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