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intellettuale ad Auschwitz RISENTIMENTI.


In estate mi capita talvolta di fare un viaggio attraverso un paese fiorente. E' quasi superfluo ricordare l'esemplare pulizia dei grandi insediamenti urbani, delle idilliache cittadine e villaggi, mettere in risalto la qualità dei suoi prodotti, lodare i lavori artigianali eseguiti con precisione e abilità o la rimarchevole sintesi tra modernità cosmopolita e trasognata consapevolezza storica che ovunque affiora. Tutto ciò è ormai entrato nella leggenda ed entusiasma il mondo. Non ci soffermeremo oltre, basteranno questi brevi cenni. Le statistiche dicono poi che l'uomo della strada sta bene, come ho sempre auspicato che avvenisse per tutti gli uomini della terra: anche questo fatto, da anni ormai, è considerato esemplare. Resta forse da aggiungere che con le - peraltro gentilissime - persone incontrate in autostrada, nei treni, nei foyer d'albergo non riesco a parlare molto: non sono quindi in grado di giudicare fino a che punto e a quale profondità giunga questa evidente urbanità.
Di tanto in tanto ho a che fare con intellettuali: non potrebbero essere più educati, modesti, tolleranti. E non potrebbero essere più moderni: ogni volta mi par di sognare, ricordando quanti di coloro che sono della mia stessa generazione ancora ieri giuravano su Blunck e Griese; nelle attuali discussioni su Adorno o Saul Bellow o Nathalie Sarraute infatti di quelle posizioni non è rimasta traccia.
Il paese, attraverso il quale mi capita di viaggiare, non è esempio solo di fioritura economica ma anche di stabilità democratica e moderazione politica. Pone talune rivendicazioni territoriali e si batte per la riunificazione con quella parte del suo territorio nazionale che è stato staccato in maniera innaturale ed è sottoposto a una tirannia straniera. In queste questioni tuttavia mantiene un comportamento lodevolmente discreto; come ormai da tempo appare evidente, il suo felice popolo non ne vuole sapere di demagoghi e agitatori nazionali.
Non mi sento a mio agio in questo paese pacifico, bello, popolato da persone capaci e moderne. Il motivo lo si sarà già intuito: appartengo a quella specie di uomini, fortunatamente in via di lenta estinzione, abitualmente definita vittima del nazismo. Il popolo del quale sto parlando e al quale in questa sede mi rivolgo, mostra limitata comprensione per il mio rancore reattivo. Io stesso del resto non lo capisco del tutto, non lo capisco ancora: intendo chiarirmi le idee con queste riflessioni. Sarei grato al lettore se volesse seguirmi in questo mio proposito anche quando, nell'ora necessaria a leggere queste pagine, più di una volta dovesse avvertire il desiderio di mettere da parte il volume.
Parlo da vittima e analizzo i miei risentimenti. Non è un'impresa divertente, né per il lettore né per me e forse farei bene a scusarmi sin d'ora per la mancanza di tatto che purtroppo affiorerà. Il tatto è una cosa buona e importante, sia quello che si esprime nel comportamento quotidiano, frutto esclusivo dell'educazione, sia quello del cuore e dello spirito. Per quanto possa essere importante, non è però utile per l'analisi radicale che è nostro comune obiettivo e perciò dovrò prescinderne, pur correndo il rischio di fare brutta figura. E' possibile che molte di noi vittime abbiano del tutto smarrito il tatto. Emigrazione, resistenza, prigione, tortura, detenzione in campo di concentramento: tutto ciò non è, né voglio che sia, una giustificazione alla mancanza di tatto. Tuttavia è una motivazione causale sufficiente. In questo senso quindi procederemo: senza tatto, ma con quel tanto di buone maniere da scrittore, che il mio sforzo di sincerità e il tema stesso mi impongono.
Il mio compito sarebbe più agevole se fosse mia intenzione affrontare il problema nella prospettiva della polemica politica. Potrei, in tal caso, riferirmi ai libri di Kempner, Reitlinger e Hannah Arendt e giungere senza ulteriori sforzi intellettuali a una conclusione sufficientemente convincente. Ne risulterebbe che i risentimenti sopravvivono perché nella vita pubblica della Germania occidentale restano attive personalità che furono vicine ai persecutori, perché, nonostante il prolungamento dei termini di prescrizione per gravi crimini di guerra, i criminali hanno buone possibilità di invecchiare rispettabilmente e di sopravvivere, trionfanti, a noi, come garantisce l'attività che svolsero nei loro giorni migliori. Ma che effetto avrebbe una simile polemica? Praticamente nessuno. La causa della giustizia è stata combattuta a nome nostro da tedeschi degni di autentico rispetto ed è stata combattuta meglio, con maggior vigore, anche con maggior ragionevolezza, di quanto avremmo potuto fare noi. A me tuttavia non interessa una giustizia che in questo caso storico sarebbe comunque ipotetica. Mi preme descrivere la condizione soggettiva della vittima. Il mio contributo può consistere in un'analisi del risentimento in chiave introspettiva. Mi riprometto di giustificare una condizione psichica che viene considerata negativamente sia dai moralisti che dagli psicologi: i primi la reputano una macchia, gli altri una sorta di malattia. Devo assumermi la responsabilità del mio risentimento, accettando il giudizio negativo della società, prendendo su di me, e quindi legittimando, la malattia come parte integrante della mia personalità. Questa confessione è un compito quanto mai ingrato, che oltretutto esige dai miei lettori un'insolita prova di pazienza.
I risentimenti come dominante esistenziale dei miei pari sono l'esito di una lunga evoluzione personale e storica. Non erano in nessun modo manifesti il giorno in cui da Bergen-Belsen, il mio ultimo campo di concentramento, tornai a casa a Bruxelles, dove tuttavia non avevo patria. Noi risorti avevamo tutti più o meno l'aspetto che mostrano le fotografie - oggi conservate negli archivi - scattate in quei giorni di aprile e maggio del 1945: scheletri rimessi in forze con scatolette di corned-beef angloamericane, fantasmi rapati, sdentati, a malapena utilizzabili per rendere in fretta testimonianza, prima di scomparire nel luogo che in fondo era stato loro destinato. Eppure, se vogliamo prestare fede agli striscioni incontrati lungo il nostro cammino, eravamo «eroi». Dicevano: «Gloire aux Prisonniers Politiques!» Purtroppo le scritte sbiadirono rapidamente, e le graziose assistenti sociali e infermiere della Croce Rossa che nei primi giorni ci avevano rifornito di sigarette americane, si stufarono di starci dietro. Per parecchio tempo tuttavia vissi una condizione che mi collocava socialmente e moralmente in una posizione inedita e non poco inebriante: ero - in quanto partigiano, ebreo, perseguitato di un regime odiato dai popoli - in rapporto di reciproca intesa con il mondo. Coloro che - simili alle oscure forze che trasformano il protagonista della "Metamorfosi" di Kafka - mi avevano martoriato e ridotto a ignobile insetto erano essi stessi profondamente invisi ai vincitori. Non solo il nazionalsocialismo, ma la "Germania" era oggetto di un sentimento generalizzato che davanti ai nostri occhi da odio si cristallizzò in disprezzo. Mai più, si diceva allora, questo paese avrebbe «minacciato la pace mondiale». Gli si sarebbe concesso di vivere, ma nulla più. Sarebbe stato il campo di patate d'Europa e in quanto tale gli sarebbe stato concesso di mettere il suo zelo, e solo questo, al servizio del continente. Si discuteva molto della colpa collettiva dei tedeschi. Sarebbe pura e semplice menzogna se non ammettessi apertamente di aver condiviso questa tesi. Mi pareva di avere subìto misfatti collettivi: il funzionario nazionalsocialista in camicia bruna, con la svastica intorno al braccio, non mi aveva ispirato terrore maggiore dal semplice soldato con la divisa grigia. Inoltre non riuscivo a dimenticare quei tedeschi che, dai carri bestiame della nostra tradotta, avevano visto scaricare e accatastare su una stretta banchina innumerevoli cadaveri, senza che sui loro volti impietriti fosse apparsa una sola espressione di orrore. Il delitto collettivo e l'espiazione collettiva si sarebbero quindi bilanciati, ristabilendo l'equilibrio della moralità universale. "Vae victis castigatisque".
Non vi era motivo perché nascessero risentimenti, non ve n'era quasi occasione. Tuttavia non volevo nemmeno sentire parlare di compassione per un popolo sul quale, a mio modo di vedere, gravava la colpa collettiva e fu con indifferenza che, insieme ad altri mossi da quacchero zelo, una volta caricai un camion che doveva portare abiti smessi ai bambini della Germania stremata. Gli ebrei, si chiamassero Victor Gollancz o Martin Buber, che a questo punto già vibravano di pathos del perdono e della conciliazione, mi riuscivano sgradevoli quasi quanto quelli che negli USA, in Inghilterra o in Francia, non vedevano l'ora di tornare in Germania, occidentale o orientale, per atteggiarsi, nella loro qualità di rieducatori, a "praeceptores Germaniae". Per la prima volta nella mia vita condividevo lo stato d'animo dell'opinione pubblica che mi circondava. Mi sentivo tranquillamente a mio agio nel ruolo del tutto inusitato del conformista. La Germania-campo di patate, la Germania delle rovine era per me un universo sommerso. Evitavo di parlarne la lingua, la mia lingua, e scelsi uno pseudonimo che ha un'eco romanza. Non sapevo tuttavia quale ora stesse veramente segnando l'orologio politico della storia. Mentre infatti ritenevo di avere io trionfato sui miei persecutori di ieri, i veri vincitori già si accingevano a elaborare progetti per gli sconfitti che non avevano nulla e poi nulla a che vedere con i campi di patate. Nel momento in cui mi illudevo, in seguito alla sorte subita, di essermi finalmente messo alla pari con le opinioni universalmente diffuse, queste erano già in procinto di oltrepassare sé stesse. Mi credevo pienamente inserito nella realtà del tempo ed ero invece già stato rigettato nell'illusione.
Il dubbio mi sorse per la prima volta nel 1948, durante un viaggio in treno attraverso la Germania. Mi capitò fra le mani un giornale delle forze d'occupazione americane e notai una lettera al direttore in cui un anonimo, rivolgendosi ai G.I., scriveva: «Non crediate di ingrassare a spese nostre. La Germania tornerà a essere grande e potente. Raccogliete le vostre bisacce, furfanti.» Il mittente, evidentemente ispirato in parte da Goebbels e in parte da Eichendorff, al pari mio non poteva allora sapere che questa Germania era effettivamente destinata a celebrare una straordinaria resurrezione al potere, non tuttavia contro, ma al fianco dei soldati d'oltreoceano. Mi stupì il fatto che una simile persona potesse esistere, e l'udire un tedesco che non usava quel tono contrito che io ritenevo gli sarebbe stato imposto per molto tempo a venire. Negli anni successivi infatti di contrizione si parlò sempre meno. Il paria Germania dapprima fu accolto nella comunità dei popoli, poi lo si corteggiò, infine si dovette - accantonando i sentimenti - fare i conti con lui nel gioco delle forze.
Giustamente non si può pretendere da nessuno che in questa situazione - caratterizzata da un'ascesa economica, industriale, anche militare senza pari - egli continui a strapparsi le vesti e battersi il petto. I tedeschi che a loro volta si consideravano senz'altro vittime, avendo dovuto sopportare non solo gli inverni di Leningrado e Stalingrado, i bombardamenti delle loro città e il processo di Norimberga, ma anche lo smembramento del paese, non erano, comprensibilmente, disposti a far altro che a «superare», come si diceva allora, il passato del Terzo Reich. In quel periodo, mentre i tedeschi con i loro prodotti conquistavano i mercati mondiali e, non senza un certo equilibrio, in casa propria si dedicavano al superamento, aumentarono i nostri - ma forse sarebbe più prudente dire i miei - risentimenti.
Sono stato testimone di come gli uomini politici tedeschi, fra i quali, se ero correttamente informato, solo pochi si erano distinti nella lotta antinazista, cercarono rapidamente e con grande entusiasmo di ricongiungersi all'Europa: collegarono senza difficoltà la nuova Europa a quella che Hitler fra il 1940 e il 1944 a modo suo aveva con successo iniziato a ordinare. Era un terreno improvvisamente fertile per i risentimenti, non era nemmeno necessario che nelle piccole città tedesche fossero profanati i cimiteri ebraici e i monumenti ai combattenti antinazisti. Bastavano conversazioni sul tipo di quella che ebbi nel 1958 con un commerciante della Germania meridionale durante una prima colazione in albergo. Quel tale cercava di convincermi, non senza essersi dapprima gentilmente informato se fossi israelita, che nel suo paese non esisteva più l'odio di razza. Il popolo tedesco non serbava rancori a quello ebraico; lo dimostrava la generosa politica di riparazioni del governo, per altro pienamente apprezzata dal giovane Stato di Israele. Mi sentii molto turbato al cospetto di quest'uomo dall'animo giusto ed equilibrato: Shylock che pretende la sua libbra di carne. "Vae victoribus!" Noi che avevamo creduto che la vittoria del 1945 fosse, almeno in piccola parte, anche nostra, ci vedevamo ora costretti a ritrattarla. I tedeschi non serbavano più alcun rancore ai combattenti della resistenza e agli ebrei. Come avrebbero potuto questi avanzare ancora richieste di espiazione? Non a caso uomini di origine ebraica dello stampo di Gabriel Marcel si impegnarono a fondo per tranquillizzare tutti i tedeschi: solo un odio ostinato, moralmente deprecabile e già condannato dalla storia, si aggrappava a un passato che con tutta evidenza era stato solo un incidente di percorso della storia tedesca, nel quale il popolo tedesco nella sua interezza non aveva avuto parte. Io stesso invece ero, con mia grande angoscia, parte di quella biasimata minoranza che serbava rancore. Ostinatamente rimproveravo alla Germania i dodici anni di potere hitleriano, lo portavo con me nell'idillio industriale della nuova Europa e nelle maestose sale del mondo occidentale. Come era accaduto nel Lager per l'atteggiamento scorretto tenuto durante l'appello, mi «feci notare», sia dai compagni di lotta e di sofferenza di un tempo, desiderosi di riconciliazione, sia dagli avversari da breve convertitisi all'indulgenza. Coltivavo i miei risentimenti. E dato che non posso e non voglio disfarmene, sono costretto a conviverci e ho il dovere di motivarli a coloro contro i quali sono rivolti.
La coscienza generale ritiene che, a proposito dei risentimenti, l'ultima parola spetti ancora a Friedrich Nietzsche, il quale nella "Genealogia della morale" scrive:

"Il 'ressentiment' [determina quegli] esseri a cui la vera reazione, quella dell'azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria... l'uomo del 'ressentiment' non è né schietto né ingenuo né onesto e franco con sé stesso. La sua anima 'svillaneggia'; il suo spirito ama cantucci nascosti, vie traverse, porte segrete, tutto quel che se ne sta occultato lo incanta quasi fosse quello il suo mondo, la sua sicurezza, il suo refrigerio..."

Così parlò colui che sognava la sintesi tra nonuomo e superuomo. A lui vanno ricordati coloro che furono testimoni della sintesi tra nonuomo e sottouomo; essi erano presenti, in qualità di vittime allorquando una certa umanità nella gioia festosa realizzò la crudeltà, come lo stesso Nietzsche aveva descritto prefigurando alcune interpretazioni antropologiche contemporanee.
Nel mettere in atto questo tentativo di replica sono ancora in pieno possesso delle mie facoltà mentali? Mi esamino diffidente: non è da escludere che sia malato; dopo averci tenuto sotto osservazione, la scientificità oggettiva, con nobile distacco, ha infatti già coniato il concetto di «sindrome da campo di concentramento». In un libro di recente pubblicazione dedicato ai «danni a lungo termine in seguito a persecuzione politica» si afferma che tutti noi saremmo degli invalidi a livello sia fisico che psichico. I tratti caratteriali che determinano la nostra personalità sarebbero distorti. Il nostro quadro clinico sarebbe caratterizzato da stati di irrequietezza nervosa, dal ripiegamento ostile verso il proprio Io. Saremmo, così si afferma, dei «distorti». Di sfuggita ripenso alle mie braccia contorte dietro la schiena durante la tortura. E questo fatto d'altra parte m'impone di ridefinire il nostro essere distorti come forma di umanità moralmente e storicamente più elevata rispetto alla sana dirittura. Devo quindi delimitare il risentimento da due lati, salvaguardarlo da due definizioni: nei confronti di Nietzsche che lo condannava a livello morale, e nei confronti della psicologia moderna che lo recepisce solo in quanto elemento di conflitto e turbativa.
Nel farlo, è necessario stare all'erta: potrebbe affiorare l'autocommiserazione, sempre così seducente e consolante. Sono però in grado di difendermene senza fatica, perché nelle galere e nei campi del Terzo Reich, noi tutti a causa della nostra incapacità a difenderci, della nostra totale vulnerabilità tendevamo a disprezzarci piuttosto che a commiserarci; la tendenza autodistruttiva in noi si è conservata al pari dell'immunità dall'autocommiserazione. Non crediamo alle lacrime.
Alle mie riflessioni non è rimasto nascosto che il risentimento è una condizione non solo contro natura ma anche contraddittoria a livello logico. Inchioda ciascuno di noi alla croce del nostro passato distrutto. Assurdamente esige che l'irreversibile sia rovesciato, che l'accaduto sia annullato. Il risentimento impedisce lo sbocco verso il futuro, la dimensione più autenticamente umana. Me ne rendo contro, il senso del tempo di chi è prigioniero del risentimento è distorto, dissociato, se si preferisce, poiché pretende ciò che è doppiamente impossibile: il cammino a ritroso verso il già vissuto e l'annullamento di ciò che è stato. Torneremo su questo punto. In ogni caso è questo il motivo per cui l'uomo del risentimento non può unirsi a quell'inno alla pace che ci esorta a non guardare più indietro, ma in avanti, verso un migliore e comune futuro!
Guardare serenamente ai giorni futuri mi riesce tanto difficile quanto ai persecutori di ieri riesce sin troppo facile. Per colpa dell'esilio, dell'illegalità, della tortura, ormai incapace a volare, non potrei nemmeno associarmi al volo etico proposto, a noi vittime, dallo scrittore francese André Neher. Noi vittime, sostiene quest'uomo ispirato, dovremmo interiorizzare e accettare in un'ascesi emozionale il nostro antico dolore, così come i nostri aguzzini interiorizzano e accettano la loro colpa. Lo confesso: me ne mancano la voglia, il talento e la convinzione. Non posso in nessun caso accettare un parallelismo fra il mio percorso e quello degli uomini che mi punivano a nerbate. Non voglio diventare il complice dei miei torturatori, e pretendo anzi che essi neghino sé stessi e nella negazione si accostino a me. Le montagne di cadaveri che mi separano da loro non possono essere spianate, mi pare, attraverso un processo di interiorizzazione, bensì, al contrario, attualizzando, o detto più radicalmente, affrontando questo conflitto irrisolto nella prassi storica.
Quando facciamo riflessioni di questo tipo, siamo ormai costretti a difenderci. Lo so, si obietterà che quanto sono andato esprimendo è solo un modo per affermare, con parole belle o magari non belle, in ogni caso però pretenziose, un desiderio di vendetta primitivo e barbarico felicemente superato dalla moralità progredita. Uomo di risentimenti - quale per mia stessa ammissione sono - vivrei, grazie alla libertà concessami dalla società di procurare a mia volta dolore, nel sanguinario delirio di poter essere ripagato per quanto ho subìto. Per compensare le ferite procuratemi dal nerbo di bue - non osando pretendere che l'aguzzino ormai inerme sia consegnato alle mie percosse - mi accontenterei della meschina soddisfazione di sapere il nemico in galera; e così riterrei di avere annullato la contraddizione del mio delirante e distorto senso del tempo.
Non è facile difendersi da un'accusa così semplificatrice e mi pare del tutto impossibile confutare il sospetto per cui io soffocherei la sgradevole realtà di un istinto malvagio in un profluvio di parole atte a sostenere una tesi non verificabile. E' un rischio che devo correre. Se accetto i miei risentimenti, se ammetto di essere «prevenuto» nel considerare il nostro problema, so però anche di essere prigioniero della "verità morale" di questo conflitto. Nella contrapposizione con i miei persecutori, con coloro che li aiutarono, con gli altri che seppero solo tacere, la pretesa oggettività mi appare priva di senso sotto il profilo logico. Il misfatto in quanto tale non ha un carattere oggettivo. Il genocidio, la tortura, le lesioni d'ogni sorta, oggettivamente non sono altro che un susseguirsi di fenomeni fisici, descrivibili nel linguaggio formalizzato della scienza: sono dati di fatto all'interno di un sistema fisico, non azioni interne a un sistema morale. I delitti del nazionalsocialismo nemmeno per l'esecutore, che accettava in ogni circostanza il sistema normativo del suo FŸhrer e del suo Reich, possedevano una qualità morale. Il misfattore che al suo agire non è vincolato dalla propria coscienza, comprende l'azione solo in quanto oggettivazione della sua volontà, non in quanto evento morale. La S.S. fiamminga Wajs che, incitata dai suoi padroni tedeschi, mi colpiva in testa con il manico della pala quando non spalavo abbastanza in fretta, viveva l'attrezzo come un prolungamento della sua mano e i colpi come espressioni terminali della sua dinamica psicofisica. Solo io ero, e ancora oggi sono, in possesso della verità morale delle percosse che tuttora mi risonano nella testa, e ho quindi maggior diritto a giudicare, non solo rispetto ai colpevoli, ma anche alla società che pensa solo alla propria continuità. La società si preoccupa della propria sicurezza, non di una vita lesa: guarda in avanti, nel migliore dei casi per evitare che qualcosa di simile si ripeta. I miei risentimenti invece esistono affinché il delitto divenga realtà morale per il criminale, affinché egli sia posto di fronte alla verità del suo misfatto.
La S.S. Wajs di Anversa, pluriomicida e torturatore di notevole esperienza, ha pagato con la vita. Cos'altro pretende la mia malvagia sete di vendetta? Ma non è questione - se ho scavato bene in me stesso - né di vendetta, né di espiazione L'esperienza della persecuzione era in ultima analisi quella di un'estrema "solitudine". A starmi a cuore è la mia redenzione da una condizione di abbandono che tuttora perdura. Di fronte al plotone d'esecuzione la S.S. Wajs sperimentò la verità morale dei suoi misfatti. In quell'istante era con "me": e io non ero più solo con il manico della pala. Voglio credere che nell'istante della sua esecuzione egli avrebbe voluto, al pari mio, invertire il tempo, annullare quanto era accaduto. Nel momento in cui era condotto sul luogo dell'esecuzione, da "avverso" egli si era nuovamente trasformato in prossimo. Se tutto fosse avvenuto fra la S.S. Wajs e me, se non avessi dovuto sopportare il pondo di un'intera piramide rovesciata di S.S., aiutanti delle S.S., funzionari, Kapo, generali decorati, avrei potuto - così almeno mi pare oggi - morire quieto e pacificato con il mio prossimo che esibisce l'effigie del teschio.
Ma Wajs di Anversa era solo uno fra migliaia. Il vertice della piramide rovesciata continua a conficcarmi nel terreno: da qui i risentimenti di tipo speciale, che né Nietzsche né Max Scheler, quando nel 1912 affrontò l'argomento, avevano potuto immaginare. Da qui la mia scarsa propensione alla conciliazione, o meglio la convinzione che una disponibilità alla conciliazione proclamata a viva voce dalle vittime del nazismo possa essere solo espressione di insensibilità, di indifferenza nei confronti della vita, oppure conversione masochistica di un'esigenza di vendetta "autentica" rimossa. Colui che dissolve la sua individualità nella società ed è in grado di comprendersi solo in quanto funzione del sociale; l'ottuso nei sensi e l'indifferente, quindi, perdona veramente. Egli accetta che l'accaduto sia stato ciò che è stato. Accetta che il tempo, come dice il buon senso comune, guarisca le ferite. Il suo senso del tempo non è dissociato, ossia non è trasposto dall'ambito biologico-sociale a quello morale. Componente de-individualizzata, sostituibile del meccanismo sociale, egli vive in accordo con esso, e perdonando si comporta conformemente alla reazione sociale al delitto descritta dal penalista francese Maurice Garon in relazione al dibattito sui termini di prescrizione:

"Persino il bambino - ci istruisce il Maestro - al quale si rimprovera una disubbidienza del passato, risponde: ma è stato tanto tempo fa! L'essere-stato-tanto-tempo-fa gli appare la forma più naturale di giustificazione. Anche noi individuiamo nella lontananza nel tempo il principio della prescrizione. Il delitto provoca inquietudine nella società; non appena tuttavia nella coscienza pubblica il ricordo del delitto si attenua, scompare anche l'inquietudine. Una punizione troppo lontana dal delitto appare priva di senso".

Tutto ciò è di una verità e onestà lapalissiane se si ha a che fare con la società, o meglio con l'individuo che socializza sé stesso a livello morale e che si dissolve nel consenso. E' privo di rilevanza per l'uomo che interpreta sé stesso come moralmente unico.
Senza dubbio ora sarò rimproverato di essere riuscito, con un trucco, a porre comunque la mia disdicevole inconciliabilità nella gradevole luce della morale e della moralità: anche a questa critica devo rispondere di essere ben consapevole che la stragrande maggioranza delle non-vittime del mondo quasi certamente non potrà accettare le mie giustificazioni. Ma non importa. Nei due decenni dedicati alla riflessione su ciò che mi accadde, credo di avere compreso che la remissione e l'oblio provocati da una pressione sociale sono immorali. Chi perdona per ignavia e convenienza si sottomette al senso sociale e biologico - abitualmente definito «naturale» - del tempo. Il senso naturale del tempo ha le sue radici effettivamente nel processo fisiologico del rimarginarsi delle ferite ed è entrato a far parte della rappresentazione sociale della realtà. Proprio per questo motivo esso ha un carattere non solo extramorale, ma antimorale. E' diritto e privilegio dell'essere umano non dichiararsi d'accordo con ogni avvenimento naturale, e quindi nemmeno con il rimarginarsi biologico provocato dal tempo. Quel che è stato è stato: questa espressione è tanto vera quanto contraria alla morale e allo spirito. La resistenza morale ha in sé la protesta, la rivolta contro la realtà, che è ragionevole solo fintanto che è morale. L'uomo morale esige la sospensione del tempo; nel nostro caso, inchiodando il misfattore al suo misfatto. In questo modo egli potrà, avvenuta l'inversione morale del tempo, essere accostato alla vittima in quanto suo simile.
Non mi illudo, con queste mie considerazioni, di avere convinto né chi fa parte della stessa comunità nazionale dei misfattori, né chi, come semplice non-vittima, rientra nella più vasta comunità di tutti gli illesi del mondo. Non parlo del resto con l'intenzione di persuadere, ma lascio cadere la mia parola, per quanto possa valere. Quale peso avrà? Dipenderà fra l'altro dalla mia capacità di frenare almeno in parte i risentimenti - che nel corso dell'analisi devono necessariamente venir fuori affinché non soffochino completamente il loro oggetto. Nello sforzo di tracciare una linea di demarcazione del loro raggio d'azione, sono costretto a tornare su quanto avevo sommariamente definito colpa collettiva. E' un termine, che già nel 1946 era da usare con cautela, perché se si intendeva far svolgere al popolo tedesco il ruolo europeo che gli era stato attribuito, non lo si doveva ferire. Si occultava. Ci si vergognava di avere coniato un termine apparentemente così poco ragionato. Sebbene non mi riesca facile, mi vedo costretto a riproporlo, dopo averlo sufficientemente definito; e sono consapevole di correre qualche rischio.
Colpa collettiva. Naturalmente è un termine privo di senso, se con esso si vuole intendere che i tedeschi nel loro complesso avrebbero avuto una comune coscienza, una comune volontà, una comune capacità d'agire e in questo si fossero macchiati di una colpa. Si tratta tuttavia di un'utile ipotesi di lavoro, se con il termine non s'intende altro che la "somma", divenuta oggettivamente manifesta, di comportamenti colpevoli individuali. In questo caso la colpa di ogni singolo tedesco - colpevole nelle sue azioni e nelle sue omissioni, colpevole nelle sue parole e nei suoi silenzi - diviene la colpa complessiva di un popolo. Prima di essere utilizzato, il termine colpa collettiva deve essere demitizzato e liberato dalle mistificazioni. Così esso perde il suono cupo e fatale e diventa una vaga asserzione statistica, l'unica che abbia una qualche utilità.
Ho parlato di vaga asserzione statistica, perché mancano dati precisi e nessuno è in grado di stabilire quanti tedeschi riconobbero i crimini del nazionalsocialismo, li approvarono, li commisero o con impotente repulsione accettarono che fossero perpetrati in loro nome. Fra noi vittime, tuttavia, ciascuno ha fatto la propria esperienza statistica, sia pure approssimativa e non esprimibile in cifre, poiché negli anni decisivi vivevamo - chi nella clandestinità nei paesi occupati, chi nella Germania stessa, lavorando nelle fabbriche, in carcere, nei campi - nel bel mezzo del popolo tedesco. Per questo potevo e posso affermare che i delitti del regime mi si sono rivelati come atti collettivi del popolo. Coloro che nel Terzo Reich da questo avevano preso le distanze, sia pure solo tacendo, o volgendo uno sguardo di odio a Rakas, l'ufficiale anziano delle S.S., o donandoci un sorriso compassionevole, o abbassando gli occhi in segno di vergogna, ebbene costoro non erano abbastanza numerosi per risultare determinanti nella mia statistica priva di cifre.
Non ho dimenticato nulla, nemmeno quei pochi valorosi che ho incontrato. Sono con me: Herbert Karp di Danzica, l'invalido di guerra che ad Auschwitz-Monowitz divise con me la sua ultima sigaretta; Willy Schneider, l'operaio cattolico di Essen, che si rivolse a me chiamandomi con l'ormai dimenticato nome di battesimo e mi diede del pane, «Meister» Matthaus il chimico, che il 6 giugno 1944, con un sospiro tormentato mi disse: «Sono finalmente sbarcati! Ma noi due ce la faremo a resistere fino a quando avranno vinto definitivamente?» Ho non pochi buoni compagni. C'era il soldato della Wehrmacht di Monaco, che a Breendonk, dopo la tortura, attraverso le sbarre mi gettò in cella una sigaretta accesa. C'era il cavalleresco ingegnere baltico Elsner. C'era il tecnico di Graz, di cui non ricordo il nome, che a Buchenwald-Dora mi salvò dalla morte in un Kommando cavi. Talvolta mi struggo per il loro destino che forse, probabilmente, non fu favorevole.
Non è colpa di questi compagni buoni, né mia, se, non appena mi appaiono non più nella loro individualità ma in mezzo al loro popolo, il loro peso non risulta più sufficiente. Un poeta tedesco ha scritto un testo intitolato "Altbraun" che cerca di descrivere l'incubo di una maggioranza in camicia bruna:

"... e se alcuni sono in minoranza allo stesso tempo rispetto a molti e a tutti, allora nei confronti di tutti lo sono in misura maggiore di quanto non lo siano rispetto a molti, e rispetto ad alcuni, tutti sono una maggioranza più forte che molti..."

Io avevo a che fare con alcuni e rispetto a loro i molti che a me dovevano sembrare tutti, erano una maggioranza schiacciante. Le brave persone che tanto volentieri avrei salvato sono già scomparse nella massa degli indifferenti, dei maligni e infami, delle megere, vecchie e grasse, o giovani e carine, degli ebbri di autorità che ritenevano di commettere un delitto contro lo stato e contro sé stessi se non ci apostrofavano con ordini spietati. I troppi non erano S.S., ma operai, archivisti, tecnici, dattilografe: e solo una minoranza fra loro era iscritta al partito. Messi tutti insieme erano per me il popolo tedesco. Sapevano perfettamente cosa stesse accadendo intorno a loro e che ne fosse di noi, perché al pari nostro sentivano l'odore di bruciato proveniente dal vicino campo di sterminio, e alcuni indossavano gli abiti che solo il giorno prima, sulle rampe di selezione erano stati tolti alle vittime sopraggiunte. Un onesto operaio, un montatore di nome Pfeiffer, un giorno mi mostrò orgogliosamente un cappotto, un "Judenmantel" [cappotto d'ebreo], come si espresse, che grazie alla sua abilità era riuscito a procurarsi. Ritenevano che tutto andasse per il verso giusto e avrebbero, ne sono assolutamente certo, votato per Hitler e i suoi complici se allora, nel 1943, fossero stati chiamati alle urne. Operai, piccoli borghesi, professori, bavaresi, abitanti della Saar, sassoni: non c'era differenza. La vittima era costretta, che lo volesse o meno, a credere che Hitler fosse veramente il popolo tedesco. I miei Willy Schneider e Herbert Karp e Meister Matthaus non avevano possibilità di imporsi contro questo addensamento di popolo.
In queste mie ultime considerazioni, ho però l'impressione di avere «quantificato», il che, se si vuol prestar fede ai filosofi della morale, sarebbe un inespiabile peccato contro lo spirito. Non le quantità sarebbero determinanti, bensì i simboli e gli atti simbolici, i segni, determinati qualitativamente. "Quelle vieille chanson!": ma inaccettabile, nonostante il trascorrere degli anni. A chiunque speri di fermarmi rimproverandomi un'illecita quantificazione, chiedo se nella vita quotidiana, nell'ambito giuridico, politico, economico, ma anche nelle sfere alte e altissime della vita spirituale, facciamo qualcosa di diverso dal quantificare. Chi possiede cento marchi non è un milionario. Chi durante una rissa scalfisce la pelle dell'avversario non lo ferisce gravemente. "Du bist Orplid, mein Land" nella scala di valori del lettore è inferiore a "Guerra e Pace". L'uomo di Stato democratico ha a che fare con la quantità quanto il chirurgo che diagnostica un tumore maligno, quanto il musicista che compone un'opera per orchestra. E anch'io, quando nel mezzo del popolo tedesco dovevo temere ogni istante di divenire vittima dello sterminio rituale, ero costretto a calcolare il numero dei compagni bravi da un lato e quello delle canaglie e degli ottusi dall'altro. Che lo volessi o meno, giunsi a statuire una colpa collettiva su base statistica e questa cognizione grava su di me in un mondo, un'epoca, che ha proclamato l'incolpevolezza collettiva dei tedeschi.
Su me, ripeto, grava la colpa collettiva, non su loro. Il mondo che perdona e dimentica, ha condannato me, non coloro che commisero, o non impedirono l'omicidio. Io e quelli come me siamo gli Shylock, moralmente condannabili agli occhi dei popoli, e già defraudati della nostra libbra di carne. Il tempo ha compiuto la sua opera. Silenziosamente. Invecchia con dignità la generazione degli annientatori, dei costruttori di camere a gas, dei generali sempre disposti ad apporre la loro firma, obbedienti al loro FŸhrer. Accusare i giovani tuttavia sarebbe veramente inumano e in sostanza anche antistorico. Cosa avrebbe da spartire uno studente ventenne, cresciuto nell'atmosfera di bonaccia della nuova democrazia tedesca, con le azioni dei padri e dei nonni? Solo un odio rappreso, barbarico, da Antico Testamento potrebbe riproporre il suo fardello e caricarlo sulle spalle dell'incolpevole gioventù tedesca. Una parte dei giovani, fortunatamente non tutti, protesta infatti facendo leva sulla retta coscienza giuridica di coloro che solidamente poggiano sul terreno del senso naturale del tempo. In un settimanale tedesco leggo la lettera di un giovanotto di Kassel che esprime eloquentemente il malumore delle giovani generazioni tedesche verso chi odia ed è dominato dal risentimento, individui cattivi, perché in ogni senso inattuali. Cito: «... siamo veramente stufi di sentirci ripetere che i nostri padri hanno ucciso sei milioni di ebrei. Quante donne e bambini innocenti hanno ucciso gli americani con i loro bombardamenti, quanti boeri gli inglesi nella guerra dei boeri?» E' una protesta che esprime tutta l'enfasi morale di chi è certo del fatto proprio. Si esita a controbattere che l'equazione «Auschwitz-Campi boeri» è falsa matematica morale. Tutto il mondo infatti comprende l'indignazione dei giovani tedeschi e si schiera con decisione al fianco di coloro ai quali appartiene il futuro. Il futuro a quanto pare esprime un valore: ciò che sarà domani ha un valore maggiore di ciò che è stato ieri. Questo esige una percezione naturale del tempo.
Non mi è facile rispondere alla domanda se serbo rancore alla gioventù tedesca per quanto mi ha fatto la vecchia generazione. E' evidente che i giovani sono privi della colpa individuale e della somma delle colpe individuali che determina la colpa collettiva. Devo e voglio concederle il credito di fiducia che spetta all'essere umano proiettato verso l'avvenire. Rispetto all'autore della lettera succitata, le si può tuttavia chiedere di fare un uso un po' meno vivace e impertinente della propria incolpevolezza. Infatti sino a quando il popolo tedesco, comprese le ultime e ultimissime generazioni, non deciderà di vivere completamente affrancato dalla storia - e non vi sono cenni che la comunità nazionale in assoluto più consapevole della propria storia possa d'un tratto schierarsi su queste posizioni - sino ad allora esso deve assumersi la responsabilità di quei dodici anni, al quale del resto non fu lui a mettere fine. La gioventù tedesca non può appellarsi a Goethe, Mšrike, a Freiherr von Stein, ed eliminare Blunck, Wilhelm SchŠfer, Heinrich Himmler. Non si può reclamare per sé la tradizione nazionale quando è onorevole, e rifiutarla quando, dimentica di ogni senso dell'onore, espelle dalla comunità umana un avversario probabilmente immaginario e sicuramente inerme. Se essere tedeschi significa essere discendenti di Matthias Claudius, allora implicherà avere fra i propri antenati anche Hermann Claudius, il poeta ufficiale del nazionalsocialismo. Thomas Mann conosceva questa problematica quando nel suo saggio "La Germania e i tedeschi" scriveva: «A uno spirito nato tedesco non è possibile affermare: io sono la Germania buona, giusta, nobile, dalla candida veste... nulla di quanto ho scritto sulla Germania è frutto di una cognizione estranea, fredda, distaccata; ho tutto anche in me, ho sperimentato tutto su me medesimo.»
Ho citato queste righe da un'antologia scolastica. Non so se i saggi di Thomas Mann siano effettivamente letti nelle scuole tedesche e in che termini siano commentati dagli insegnanti. Voglio solo sperare che alla gioventù tedesca non risulti troppo ostico riallacciarsi a Thomas Mann, e che la maggioranza dei giovani non condivida l'indignazione del giovane autore della lettera succitata. Una cosa è certa: in futuro anche Hitler e le sue azioni faranno parte della storia e della tradizione tedesche.
E proprio nella storia e nella storicità tedesche mi addentro riprendendo la mia analisi dei risentimenti, dei quali devo tuttavia definire la funzione oggettiva. Forse è solo un'esigenza di purificazione personale, però vorrei che il mio risentimento, che rappresenta la mia personale protesta contro quel rimarginarsi provocato dal tempo che è un processo naturale ma contrario alla morale, e nel quale rivendico un'assurda, ma autenticamente umana inversione del tempo, vorrei che il mio risentimento svolgesse anche una funzione storica. Se svolgesse l'ufficio che gli attribuisco, storicamente potrebbe rappresentare una fase nella dinamica morale del progresso universale in sostituzione della mancata rivoluzione tedesca. La rivendicazione non è meno assurda e meno morale del desiderio individuale di reversibilità di processi irreversibili.
Per chiarire e rendere più semplice il mio pensiero, devo solo riallacciarmi alla convinzione già espressa che il conflitto latente tra vittime e carnefici deve essere esteriorizzato e attualizzato se entrambi, sopraffatti e sopraffattori, intendono dominare un passato che pur essendo radicalmente antitetico è tuttavia anche un passato comune. Esteriorizzazione e attualizzazione: certamente non possono consistere in una vendetta che sia proporzionale a quanto si è subìto. Non posso dimostrarlo, e tuttavia sono certo che durante il processo di Auschwitz nessuna delle vittime ha mai anche solo pensato di appendere l'uomo Bogner alla cosiddetta "Bognerschaukel" [altalena di Bogner]. E nessuno che abbia conservato il senno ha mai formulato l'ipotesi, moralmente assurda, che sarebbe opportuno giustiziare dai quattro ai sei milioni di tedeschi. In questo più che in altri casi la "jus talionis" non avrebbe la benché minima giustificazione storico-morale. Il problema non può essere risolto né con la vendetta di uno schieramento, né con l'espiazione - problematica, solo teologicamente sensata e per me quindi del tutto irrilevante - dell'altro, né, ovviamente attraverso una purificazione con mezzi violenti, storicamente comunque impensabile. Ma come allora, dato che ho esplicitamente parlato di una disputa sul campo della prassi storica?
Ebbene il problema potrebbe essere risolto facendo sì che in uno schieramento si conservi il risentimento e nell'altro nasca, generata da quest'ultimo, la sfiducia in sé. Pungolato esclusivamente dal nostro risentimento - e nient'affatto da uno spirito di conciliazione soggettivamente quasi sempre ambiguo e oggettivamente antistorico - il popolo tedesco resterebbe sensibile al fatto che non deve lasciare neutralizzare dal tempo, e deve invece integrare, un pezzo della propria storia nazionale. Che Auschwitz sia passato, presente e futuro della Germania lo ha scritto, se ben ricordo, Hans Magnus Enzensberger, il quale purtroppo non fa testo, perché lui e coloro che moralmente sono al suo livello non sono il popolo. Se invece il nostro risentimento, nel silenzio del mondo, alzasse il dito ammonitore, allora la Germania nel suo complesso e anche nelle future generazioni conserverebbe la coscienza che non furono i tedeschi a eliminare il dominio dell'infamia. Arriverebbe a comprendere, così talvolta mi auguro, la sua passata adesione al Terzo Reich come la totale negazione non solo di un mondo minacciato da guerra e morte, ma anche delle proprie migliori origini; allora non rimuoverebbe, non occulterebbe più quei dodici anni, che per noi furono veramente un millennio e li rivendicherebbe invece in quanto concreta negazione del mondo e di sé, in quanto suo patrimonio negativo. A livello storico si verificherebbe quanto in precedenza ho ipoteticamente descritto per la ristretta sfera individuale: due schieramenti umani, sopraffattori e sopraffatti, si incontrerebbero nel desiderio di inversione del tempo e quindi di moralizzazione della storia. Avanzata dal popolo tedesco, dal popolo autenticamente vincitore e già riabilitato dal tempo, la rivendicazione avrebbe un peso enorme, sufficiente di per sé stesso a soddisfarla. Verrebbe recuperata la rivoluzione tedesca, revocato Hitler. E infine per la Germania si compirebbe veramente quella estinzione della vergogna che il popolo tedesco allora non ebbe la forza o la volontà di realizzare e che nel gioco politico dovette poi apparire di secondaria importanza.
Ogni tedesco è libero di raffigurarsi come ciò debba concretizzarsi nella prassi. L'autore di queste righe non è tedesco e non può dare consigli a questo popolo. Nel migliore dei casi riesce a immaginare una comunità nazionale che rigetti tutto, ma veramente tutto, compresi gli aspetti che a prima vista possono apparire inoffensivi, come le autostrade, ciò che ha fatto nei giorni del proprio più profondo avvilimento. Permanendo nel suo sistema di coordinate esclusivamente letterario, Thomas Mann in una lettera si espresse nel modo seguente:

"Sarà superstizione - scrisse a Walter von Molo - ma ai miei occhi i libri che hanno comunque avuto la possibilità di uscire in Germania fra il 1933 e il 1945 sono del tutto privi di valore, e non si dovrebbe neppure prenderli in mano. Sono impregnati tutti di un certo odor di sangue e di vergogna; meglio varrebbe mandarli tutti al macero".

Mandare spiritualmente al macero del popolo tedesco non solo i libri ma tutto ciò che è espressione di quei dodici anni, sarebbe la negazione della negazione: un atto altamente positivo, salutare. Esso solo consentirebbe di pacificare soggettivamente il risentimento e di renderlo oggettivamente inutile.
A che sorta di eccessiva fantasticheria morale mi sono lasciato andare! Già mi figuravo i viaggiatori tedeschi allineati lungo quella banchina del 1945, sbiancare di rabbia di fronte ai cadaveri ammucchiati dei miei compagni e rivolgersi minacciosi contro i nostri, i loro aguzzini. Grazie al mio risentimento e alla purificazione dei tedeschi da esso provocata, già mi figuravo invertito il tempo. Non fu proprio un tedesco a strappare la pala alla S.S. Wajs? Non fu una tedesca che accolse colui che la tortura aveva tramortito e distrutto, curandone le ferite? Cosa non ho scorto in un passato sfuggito a ogni controllo, in cui il passato stesso si è tramutato in futuro, ed è ormai effettivamente per sempre superato!
Non accadrà nulla di tutto ciò, ne sono certo, nonostante tutti gli onorevoli sforzi di intellettuali tedeschi che alla fine sono davvero privi di radici, come gli altri rimproverano loro di essere. I segni premonitori indicano tutti che il tempo naturale respingerà e infine soffocherà la rivendicazione morale del nostro risentimento. La grande rivoluzione? La Germania non la recupererà e il nostro serbar rancore avrà la peggio. Il Reich hitleriano per qualche tempo ancora verrà considerato come un incidente di percorso storico. Infine però sarà semplicemente storia, non migliore e non peggiore di quanto non lo siano in genere tutte le epoche storiche drammatiche: macchiato di sangue forse, ma pur sempre un Reich con una sua quotidianità familiare. Il ritratto del bisnonno con l'uniforme delle S.S. sarà ben in vista nel salotto buono e i bambini a scuola verranno a conoscenza non tanto delle rampe di selezione, quanto piuttosto dello straordinario trionfo su una disoccupazione generalizzata. Hitler, Himmler, Heydrich, Kaltenbrunner saranno nomi come Napoleone, Fouché, Robespierre e Saint Just. Già oggi del resto in un libro intitolato "†ber Deutschland" che propone dialoghi immaginari fra un padre tedesco e il suo giovanissimo figlio, leggo che agli occhi del figlio non esiste differenza tra bolscevismo e nazismo. Quanto accadde tra il 1933 e il 1945 in Germania, così si insegnerà e si dirà che con presupposti simili avrebbe potuto avvenire ovunque: e non si insisterà troppo sulla bagatella che è tuttavia avvenuto proprio in Germania e non altrove. In un libro intitolato "RŸckblick zum Mauerwald" l'ex ufficiale di stato maggiore, il principe Ferdinand von der Leyen, scrive: «... da una delle nostre succursali di servizio giunse una notizia ancora più terribile. Alcuni Kommando delle S.S. erano penetrati nelle case e dai piani superiori avevano gettato in strada bambini di pochi mesi». E tuttavia l'uccisione di milioni di esseri umani effettuata con fidatezza organizzativa e precisione pressoché scientifica da un popolo altamente civilizzato, verrà considerata deplorevole ma nient'affatto unica, e citata dunque accanto alla feroce deportazione degli armeni da parte dei turchi o ai vergognosi atti di violenza dei francesi nelle colonie. Tutto si mescolerà in un sommario «secolo della barbarie». "Noi", le vittime, saremo considerati gli incorreggibili, gli implacabili autentici, i reazionari contrari alla storia nel significato autentico del termine; e in ultima analisi sarà considerato un incidente di servizio il fatto che alcuni di noi siano sopravvissuti.
Mentre attraverso il prosperoso paese, il mio disagio cresce. Non posso negare di essere sempre stato accolto con gentilezza e comprensione. Che altro possiamo pretendere oltre al fatto che giornali e stazioni radio tedesche ci danno la possibilità di mancare gravemente di tatto ai tedeschi, oltretutto pagandoci? Lo so, anche i più benevoli alla fine perderanno la pazienza, come quel giovane citato più sopra che afferma di essere «stufo». Con i miei risentimenti mi ritrovo a Francoforte, Stoccarda, Colonia e Monaco. Il mio rancore, che conservo per amor mio, per motivi di salvezza personale certo, ma anche perché torni a profitto del popolo tedesco, non lo accetta nessuno, fatta eccezione per i mezzi di comunicazione che lo acquistano. Ciò che mi ha disumanizzato si è tramutato in merce che vendo al migliore offerente.
Paese del destino, dove gli uni si trovano sempre in piena luce, gli altri perennemente nell'ombra. L'ho attraversato in lungo e in largo con le tradotte che da Auschwitz, minacciata dall'ultima offensiva sovietica, ci portarono verso occidente, e poi da Buchenwald verso nord a Bergen-Belsen. Quando la strada ferrata attraversava un angolino di innevata terra boema, le contadine accorrevano verso il treno della morte recando pane e mele: i soldati della scorta le dovevano scacciare sparando fucilate in aria. Nel Reich, invece, volti impietriti. Un popolo orgoglioso. Un popolo orgoglioso, anche oggi. L'orgoglio, bisogna ammetterlo, è un po' meno ostentato. Non si fa più largo attraverso il macinare delle mascelle, ma affiora luminoso nella soddisfazione data dalla coscienza pulita e dalla comprensibile gioia di avercela fatta una volta di più. Non s'appella più all'eroico fatto d'armi, ma a una produttività senza uguali al mondo. Ma è l'orgoglio di allora, e da parte nostra è l'impotenza di allora. Guai ai vinti!
Devo mettere un freno ai risentimenti. Per il momento posso ancora credere al loro valore morale e alla loro validità storica. Ma per quanto? Il solo fatto che debba pormi un simile interrogativo dimostra la natura sospetta e mostruosa del senso naturale del tempo che ben presto mi porterà magari a condannare me stesso, facendomi apparire il desiderio morale di inversione come l'assurdo chiacchiericcio che già oggi è tale per quei saccentoni che hanno mantenuto la testa sulle spalle. Quel giorno l'orgoglioso popolo in cui sprofondano i miei Herbert Karp, Willy Schneider, Meister Matthaus e qualche intellettuale contemporaneo, avrà vinto definitivamente. In fondo i timori di Scheler e Nietzsche non erano giustificati. La nostra morale degli schiavi non trionferà. I risentimenti, fonte emozionale di ogni morale autentica, che sempre fu una morale degli sconfitti, i risentimenti dicevo, hanno scarse o nessuna possibilità di rendere amara ai sopraffattori la loro opera malvagia. Noi vittime dobbiamo «liquidare» l'astio reattivo, attribuendo al termine il significato che aveva nel gergo del campo: era sinonimo di uccidere. Dobbiamo liquidarlo e lo faremo presto. Sino ad allora preghiamo coloro che dal nostro serbare rancore si sentono disturbati nel loro riposo di essere pazienti.

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