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Il carcere immateriale ABOLIZIONISMO.


L'esperienza di Copenhagen appena descritta sollecita ironie nere di ogni sorta. Ad ogni istituto carcerario si potrebbe abbinare un istituto che neutralizzi gli effetti provocati dal suo gemello. Vi sarebbero occasioni di enormi investimenti nel settore edilizio, improvvisa vivacità nel mercato del lavoro e, quel che più conta, vi sarebbe materia per appalti a catena in stile «ricostruzione». Chi non ricorda le "utopie negative" di Butler e Huxley?
Il primo, nella bizzarra città di Erewhon, incontra i "deformatori", dove ai giovani viene inculcato un buon senso alla rovescia da maestri sornioni e di poche parole. Nella società i giovani troveranno poi un pareggio all'educazione subita, incontrando dei "raddrizzatori" che, al contrario, li inonderanno di parole, come il Signor Loquace o come: «il dottor Volponi, professore di Logomachia, e forse il più sottile dialettico di Erewhon, capace di non dire nulla con più parole di chiunque altro».

Huxley avrebbe di che scatenarsi e potrebbe intraprendere un ennesimo ritorno al «Mondo Nuovo», dove alle case di "condizionatura" troverebbe affiancate quelle di "decondizionatura".
Insieme alla soluzione degli "istituti abbinati", rimane quella nota col nome di "abolizionista", proposta più realistica e sensata.
Può essere utile ricordare che con "abolizionista" si intende innanzitutto una pratica di lotta contro il carcere come quella messa in campo da gruppi di ex detenuti, familiari di reclusi, gruppi di sostegno di diversa ispirazione politica, materialistica e perché no, idealistica. Negli Stati Uniti, simili gruppi si autodefinivano «abolizionisti» prima ancora che questo termine designasse in Europa una prospettiva teorica. L'abolizionismo americano è basato su una tradizione del tutto inesistente da noi: l'abolizione del carcere viene interpretata come esito ideale e compiuto della battaglia per l'abolizione della schiavitù. Il carcere viene ritenuto, con accenti laici o confessionali, una forma di empietà. Il crimine un risultato dell'ordine sociale, problema "pubblico" da affrontare con soluzioni "pubbliche". Riconciliazione, e non pena; minimo di coercizione, massimo di servizi; fine dell'interferenza dell'autorità nelle esistenze personali, riappropriazione da parte della comunità delle sue problematiche, progettualità della convivenza "dal basso".
L'abolizionismo è diventato in Europa, oltre che una pratica, una prospettiva teorica che ha impegnato a fondo il pensiero libertario e radicale, mettendo a dura prova non poche certezze; facendo balbettare chi, poco tempo addietro, si presentava come risoluto riformatore.

I CONFLITTI COME BENE.
Niels Christie ha avuto modo in diverse occasioni di lanciare una parola d'ordine che è difficile non condividere:
«Si cerchino alternative al castigo, non solo castighi alternativi».
L'unico testo abolizionista noto in Italia sembra essere "Limits to Pain" (tradotto in italiano con "Abolire le pene?"), dell'autore appena citato. Vi si descrive il fallimento dell'intera gamma di funzioni comunemente attribuite al carcere e si conclude individuando l'unico scopo che compete all'istituzione: infliggere dolore. Secondo Niels Christie, quest'ultima pratica risulta più facile quanto più chi deve attuarla si trova lontano da chi deve subirla. I primi, anzi, vedranno crescere il proprio grado di responsabilità con l'aumentare della distanza dalla situazione problematica che pure sono chiamati a risolvere.
Alcuni amici pretori ci hanno confidato che, pur irrogando mesi o anni di carcere e pur essendo incaricati di continuare in questa pratica per il resto della carriera, non hanno che una vaghissima idea dello strumento di punizione maggiormente utilizzato: non hanno mai visitato un carcere. Questo sentimento di estraneità è pari a quello avvertito dallo stesso accusato, che assiste al compiersi di una farsa lontana anni luce dal dramma che lo riguarda. Già Camus aveva sottolineato abilmente questo principio cardine della critica abolizionista. Il suo «straniero» condotto in tribunale, era tentato di intervenire nel dibattimento in quanto gli appariva ridicolo che il suo caso venisse trattato senza la sua partecipazione. Ma ad ogni tentativo di «intromissione», l'avvocato gli intimava: «Stia zitto, che è meglio per lei».
Insomma: «Si decideva la mia sorte senza chiedere il mio parere. Di tanto in tanto avevo voglia di interrompere tutti quanti e dire: "Ma insomma, chi è l'accusato qui? E' una cosa importante essere l'accusato"...»
Estraneità, distanza e perciò "routine", che traduce in lavoro impiegatizio una tensione e un conflitto apparentemente privi di interpreti. Sembra un po' di rivedere quella scenetta settecentesca inventata da Alexander Pope, dove i severi magistrati sono chiamati a giudicare un fatto gravissimo: il rapimento di un ricciolo. Ed esausti per il rovello del caso, ma anche indispettiti dal non chiaro accertamento delle responsabilità:
«I giudici affamati firmano presto la sentenza: i miserabili sono impiccati perché la giuria vada a pranzo».

Gli abolizionisti non si limitano a individuare l'indifferenza e la sciatteria che distinguono il sistema della giustizia criminale: come i loro predecessori settecenteschi mettono in luce quel cumulo di incongruenze che ne costituiscono i principi ispiratori. Ad esempio, i "reati", che sarebbe meglio definire "conflitti", vengono preliminarmente selezionati, e solo ad alcuni viene dato accesso al sistema giudiziario, in quanto conflitti dannosi. Nell'opinione di Christie, al contrario, i conflitti non sono necessariamente fenomeni negativi:
«Possono essere visti come qualcosa di valido, un bene da non distruggere, che raramente ormai può essere reperito nella nostra società».

In un panorama come quello attuale, dominato da un crimine sempre più strutturato in forma di impresa, vi sarebbe davvero da riflettere sull'opportunità di ritenere alcuni conflitti come dei beni in via di estinzione e i loro interpreti come una specie da proteggere.
Né la vittima sembra godere di migliore trattamento: perdente di fronte a chi la danneggia, subisce un danno supplementare essendo esclusa dal rituale di ricomposizione del conflitto, che vede come protagonista assoluto l'autorità dello stato. Quest'ultimo si limita a stabilire una gerarchia di valori e a confermarla in una corrispondente scala simbolica di disapprovazione. In ogni caso è l'esito finale che conta: il valore infranto viene riaffermato solo attraverso il rispecchiamento in una determinata «quantità» di sofferenza inflitta. Una giustizia partecipativa, invece, così come viene suggerito dagli abolizionisti, non si occupa tanto dell'esito finale, ma elegge a proprio centro di imputazione la gerarchia dei valori esistenti, la discute e a volte la modifica.
Se il sistema della giustizia criminale si presenta come pura rappresaglia, Christie invita non solo ad abbandonarne la logica e a rivederne le strutture, ma anche ad «allontanarne» quelle appendici umane inevitabilmente compromesse:
«Diamo vita a degli organismi di conciliazione. Quando arriverà il momento di selezionare, sostituire, preparare il personale, cambiamo tutti i membri. Ricordiamoci alcune delle lezioni fondamentali che ci hanno impartito i vecchi addetti ai lavori: rendiamoli vulnerabili, non concediamo loro potere, non lasciamo che si trasformino in esperti, non lasciamo che tra noi e loro si crei distanza».

IL RISENTIMENTO SCIENTIFICO.
E' curioso come una dichiarazione così saggia sia stata accolta da noi con il cipiglio di chi si trova, da esperto, di fronte ad un «collega» che tradisce la comune professione. E' ancora più buffo poi che venga imputato a Christie di essere poco scientifico, quando l'autore esordisce mettendo alla berlina la scientificità della sua stessa disciplina. Christie non è il solo a negare il carattere di scientificità alla criminologia e alla penologia e, insieme ad altri, desidera mettere in luce il broglio ideologico di queste discipline, lanciare dei sapienti sberleffi alle loro categorie, in vista di una loro rifondazione radicale. Non sembra un caso che tra gli espedienti utilizzati in questo suo compito, l'autore norvegese ricorra a dispositivi di analisi di tipo letterario o simbolico la cui inaffidabilità scientifica è tutta da dimostrare, specie se della dimostrazione viene incaricata la «scienza» criminologica.
Christie è del resto in buona compagnia. Si pensi all'anziano Norbert Elias, sociologo e storico fra i più celebrati. Recentemente ha sottolineato, forse fra il disappunto dei colleghi «scienziati», come le discipline sociali denuncino un livello assai basso di congruenza con la realtà: sono fortemente imbevute di fantasie, condizionate da desideri e paure, legate alla contingenza. Secondo Elias i sociologi «non sono poi tanto meno influenzati dell'uomo della strada da idee e giudizi precostituiti». Insomma, chi osserva gli avvenimenti conflittuali, al pari di un "pescatore nel vortice", finisce per porsi come parte attiva interessata in quegli avvenimenti: tenderà a tutelare se stesso e il proprio gruppo di appartenenza per impedire che quei conflitti producano su di lui e i suoi "pari" dei riverberi negativi. Elias invita gli «scienziati sociali» ad interrompere quel circolo vizioso secondo il quale l'emotività della conoscenza distanzia dalla realtà, e quest'ultima diviene via via meno controllabile inducendo, ahimè, reazioni di superiore contenuto emotivo.
In un elenco di "temi universali" che, attraverso il tempo, hanno un rilievo cruciale nell'esistenza umana, Christie ricorda: l'amore, l'odio, la gelosia, l'orgoglio e l'onore, i rapporti con gli dei e con i diavoli, la morte. Ebbene, la letteratura immortale, quando affronta i suddetti temi, non ci orienta con risposte definitive, né ci alletta con facili soluzioni. Al contrario insinua dei dubbi, complica l'assetto del mondo e diffonde il disordine laddove sembra regnare una poco problematica armonia.
Gli istituti della legge penale, dal canto loro, si riferiscono a un elemento centrale che è di natura economica, triviale, che non ha nulla di universale e, contrariamente ai drammi shakespeariani: «non riflettono i valori elementari, non espongono i conflitti interiori, non insinuano dubbi, ma avanzano certezze».

Mancanza di universalità, ipersemplificazione dei conflitti, creazione di scenari estranei ai protagonisti dei conflitti stessi: la legge penale è farsa, costretta com'è a limitare il repertorio di valori che mette in scena e le percezioni che stimola. Così come nell'atto di arruolare i suoi professionisti e nel corso della loro formazione, è costretta a delimitare la gamma dei valori rilevanti che a quella professione serviranno poi da ottuso orientamento:
«Vi sono principi di validità ben più profonda di quanto non lo siano i principi che ispirano le leggi. Occorre cercare questi principi e stabilire quali sono i migliori alleati nella ricerca. Gli scienziati sociali, gli scienziati behaviouristi? Non credo. Né ho fiducia negli operatori sociali o negli psichiatri. Con loro potremmo essere coinvolti nell'impegno di fare del bene, il bene che consiste nel proteggere lo stato attuale delle cose. Forse non vi è miglior alleato di Shakespeare».
Ma perché Shakespeare? Forse per capovolgere quell'adagio celebre che così recita: «Seria è la vita, serena è l'arte». Al contrario "seria" è proprio l'arte, che nelle forme della tragedia non si limita ad imitare un destino immanente dell'umanità, ma emula le fratture, i cambiamenti improvvisi, le eccezioni e non le norme del procedere sociale. Forse anche perché il giudizio recitato in tribunale corrisponde a quanto nel magistero di Shakespeare viene sempre disprezzato. Dietro quella ridondanza, quella declamazione debordante, si nascondono valori a buon mercato, pezzi insignificanti di idee lanciati al pubblico per dargli disagio. Non catarsi, ma nausea.
I giudici, come lamenta Amleto: «lacerano una passione, la riducono in stracci per spaccare le orecchie alla platea. Questo vociare di guitti è un farla da Erode più di Erode stesso».

La rappresaglia del sistema della giustizia penale è un «dramma di vendetta» che non ha nulla di amletico: il vendicatore non è dubbioso, è fin troppo sicuro della sua missione. Non poca letteratura abolizionista auspica, se così si può dire, una "amletizzazione del giudizio" e invita alla ricerca di nuove soluzioni in grado di esulare dal «patto fondante» che si ritiene essere alla base del diritto penale. Quel patto che Nietzsche assimila a una volgare sostituzione della collera.
Per secoli si sono inflitti castighi non certo perché si ritenesse l'autore del "male" responsabile della sua azione, «ma allo stesso modo con cui ancor oggi i genitori castigano i loro figli, per ira di un danno sofferto, alla quale si dà sfogo sul danneggiante».

L'IDEA DEGLI EQUIVALENTI. Secondo il filosofo tedesco, la collera si è costruita dei suoi limiti, ha inventato una modalità di controllo che risiede nell'idea degli «equivalenti»: ogni danno possiede un coefficiente che permette di tradurlo in sofferenza per chi lo ha provocato:
«Donde ha derivato il suo potere quest'idea antichissima, profondamente radicata, oggi forse non più estirpabile, l'idea di un'equivalenza di danno e dolore? Dal rapporto contrattuale tra creditore e debitore, che è tanto antico quanto l'esistenza dei "soggetti di diritto", e rimanda ancora una volta, dal canto suo, alle forme fondamentali della compera, della vendita, dello scambio, del commercio».

Nietzsche rintraccia gli originari sospetti e le antiche opposizioni suscitate dai primi rapporti contrattuali. Si trattava di elaborare, documentandole, delle promesse; di fabbricare una memoria in colui che promette; di garantire alla promessa un'aura di serietà e santità; di imporre alla coscienza la restituzione come dovere sacro.
Il debitore dà in pegno al creditore qualcosa che ancora possiede, su cui ha ancora potere, ad esempio il proprio corpo, la propria libertà o anche la propria stessa vita. Spesso può lasciare in pegno persino la sua beatitudine, la salvezza dell'anima e infine anche la pace nel sepolcro: nell'antico Egitto il cadavere del debitore non trovava pace neppure nella tomba. Altrove il creditore poteva infierire sul corpo del debitore tagliandone tanto quanto pareva commisurato all'entità del debito: «e ben presto si dettero precise valutazioni,
"legittimamente" stabilite, delle singole membra o parti del corpo»

Si sa che oggi la pena non risponde più a principi di scambio puro, che le sue funzioni "retributive" si sono esaurite. Che lo scambio va più propriamente definito di tipo "positivo", essendo bidirezionale e prevedendo una «erogazione» di simboli e comportamenti anche da parte del detenuto: la pena reale, insomma, non è quella stabilita una volta per tutte attraverso una sentenza di merito. Certo, in quello che abbiamo definito "carcere immateriale" è d'obbligo una sorta di connivenza da parte del recluso, è prevista una situazione che Camus descrive in un crudo paradosso. Il condannato deve desiderare egli stesso il buon funzionamento della macchina; se per caso la macchina fallisse il colpo, si ricomincerebbe da capo: il condannato, in altre parole, è obbligato a offrire la sua collaborazione morale.
E' un paradosso che anche Kafka non manca di cogliere, quando nella «colonia penale»: «il condannato sembrava così bestialmente rassegnato da poter essere lasciato libero di correre lungo i pendii, bastando solo un fischio perché tornasse, al momento dell'esecuzione».

La preoccupazione di alcuni studiosi sembra essere quella della impraticabilità delle proposte abolizioniste, oppure della loro applicabilità solo in situazioni di "contratto sociale forte", come sarebbero le situazioni nazionali svedese e norvegese.
Abbiamo cercato, anziché propagandare il pensiero abolizionista, di spiegarci le ragioni del suo insuccesso, o della sua nervosa accoglienza, nel nostro paese. Salvatore, che anni addietro è stato tra i fondatori di un'associazione di parenti dei detenuti, e lui stesso detenuto per un non breve periodo, ha espresso la seguente considerazione:
«Una delle cose che sembra disorientare di più, nel pensiero abolizionista, è l'assenza del cosiddetto "patto". Gli abolizionisti vengono infatti rimproverati di immaginare una società priva di "scambio tra ineguali" così come oggi la conosciamo. Chi ragiona in questi termini sembra ossessionato dall'idea che, in fondo, il rapporto di lavoro, questo contratto tra ineguali, sia l'unica condizione che consenta alle classi subalterne di affrancarsi. Come immaginare una società dove non vi sia una negoziazione fra le parti? E dove coloro che non rispettano il quadro delle negoziazioni non vengano esclusi?»

Di fronte all'ossessione per il "contratto" viene in mente un'ennesima ironia, quella lanciata da Petronio Arbitro:
«Che possono le leggi se l'oro è padrone assoluto e se i poveri sono calpestati da tutti? E' dunque una bottega l'austero e civil tribunale. E il giudice appone la sua firma al contratto».

Gli abolizionisti vengono derisi perché sembrano sognare il ritorno a società arcaiche, a comunità semplici, piccole e quiete. Dietro questa derisione si nasconde un inopportuno orgoglio per lo «sviluppo», l'evoluzione; un entusiasmo mal riposto per il «complesso», il moderno, il mastodontico. Gli abolizionisti vengono imputati di coltivare buoni sentimenti, di propendere per il perdono, porgere l'altra guancia. Dietro questa interpretazione si può leggere un malinteso primato della politica sull'etica di chi, magari in nome di un'ideologia di liberazione, rivendica il «diritto di punire» come una delle armi più idonee che conducono alla liberazione stessa.
L'atteggiamento di alcuni studiosi nei confronti dell'abolizionismo può essere attribuito al predominio - da noi- di una cultura di sinistra ortodossa, e all'assenza di una cultura davvero radicale, libertaria. Si pensi anche a come è stata ricostruita la storia del carcere, tutta centrata sulla formazione della classe operaia industriale. La genealogia del carcere, in altre parole, viene fatta corrispondere alla genealogia della rivoluzione industriale e a quella della classe operaia centrale. Forse per questo la soluzione del problema carcere viene affidata allo stesso movimento operaio organizzato e alla sua "lotta fatale". Movimento organizzato che, è ovvio, viene nettamente distinto da altri movimenti sociali meno "affidabili".

LAVORATORI EXTRA-LEGALI.
Secondo una diffusa convinzione, il predominio del sistema penale si sarebbe concretizzato solo nella fase di accumulazione primitiva, quando al carcere veniva richiesto di «educare» al lavoro salariato. Col consolidarsi dei rapporti economici di tipo capitalistico, il diritto penale avrebbe passato la mano alla coazione insita nel rapporto di lavoro. Insomma, il problema penale sarebbe stato «rimosso»: il carcere risulterebbe essere nient'altro che un'appendice, un po' ributtante, della coazione economica, produttiva. E' inutile sottolineare che, in questa maniera, la soluzione del problema carcerario viene nuovamente dislocata nel mondo della produzione. Ma in particolare, leggiamo in questo procedimento, in primo luogo, un equivoco, e in secondo luogo un'interpretazione della società di natura moralistica. L'equivoco riguarda la distinzione tutta artificiale tra le attività legali, che sarebbero produttive, e quelle illegali, che sarebbero parassitarie. Il moralismo riguarda l'idea secondo la quale coloro che non «producono», che non offrono prestazioni socialmente apprezzabili, vanno in prima istanza puniti e, dopo una sorta di purgatorio, riassociati almeno simbolicamente nella comunità che produce. Di qui l'utilità del carcere e l'improponibilità della sua abolizione: poter distinguere tra individui dotati di rendimento produttivo e individui che al mondo della produzione vengono considerati del tutto estranei. Certo, se si esclude l'idea che il crimine possa essere altamente produttivo, l'abolizione del carcere può provocare davvero il caos, almeno nella testa dei «pensatori». Come si potrebbero più distinguere valori come: utilità, sacrificio, prestazioni individuali, meriti personali, produttività?
Nella nostra inchiesta sull'accoglienza riservata nel nostro paese alla provocazione abolizionista, abbiamo incontrato gruppi di ex-detenuti che tentano di praticare (qualcuno direbbe "ingenuamente") dei principi di «deprofessionalizzazione» nel terreno della giustizia penale e del reinserimento. Abbiamo raccolto le seguenti osservazioni:
«Il pensiero abolizionista suscita sospetto perché viene considerato di natura anarchica. Da noi, al contrario, la matrice di ogni pensiero penologico è di tipo operaista. Da noi, insomma, è sempre stata adottata la scissione tra classi operose e classi pericolose. Del resto, anche i classici del marxismo non sono mai stati teneri nei confronti del sottoproletariato, né hanno riservato analisi specifiche a queste fasce sociali e alla loro composizione. Parlare di abolizionismo, perciò, vorrebbe dire rivedere tutta una serie di categorie che hanno ancora tanta influenza. Occorrerebbe ad esempio rivedere il concetto di classe operaia come "classe etica" e riconsiderare quelle distinzioni schematiche tra lavoratori e delinquenti».
Chi vuole la prova di come molti "delinquenti" vengano davvero considerati dei "lavoratori", si rechi, da turista, in uno di quei tribunali per reati minori che sono le "Magistrate Court" inglesi. Il giudice chiede al giovane scippatore quanto guadagna al mese, addiziona alla cifra il reddito presunto dei genitori, moltiplica, divide: ecco l'entità della pena pecuniaria. In quanto tempo credi di poter pagare? E' un vero mercato dove signori ben vestiti estorcono danaro ai pezzenti. Si arriva al ridicolo quando al banco degli imputati siede una prostituta, la quale scongiura che la si lasci al più presto tornare al «lavoro», altrimenti non sarà in grado di pagare l'ammenda. E' una "tassa" imposta sul reddito «illegale» che sfugge, presentata dai giudici come spesa processuale che, altrimenti, ricadrebbe sull'onesto contribuente.
Ci si chiede se non sia il caso di parlare apertamente di "lavoratori extra-legali", essendo il comportamento delinquente una variante del comportamento produttivo. Con un simile approccio le tematiche abolizioniste e le stesse proposte di Christie assumono un senso più realistico. E' quanto ci ha fatto notare Giovanna, assistente sociale, da anni e malvolentieri dipendente del ministero di Grazia e Giustizia. Secondo lei, l'approccio di Christie non è di ispirazione anarchica; il suo è invece un intervento rifondativo rivolto al pensiero penologico, è un pensiero profondamente antigiuridico in quanto non rapportato al parametro produttivo. Giovanna insiste che occorre considerare quello abolizionista soprattutto come un approccio e non come come un semplice elenco di soluzioni. Queste ultime sono tutte da elaborare, né gli stessi abolizionisti pensano di aver pronunciato sull'argomento dei suggerimenti definitivi:
«Bisognerebbe saper cogliere l'ispirazione, l'approccio abolizionista e farne scaturire dei principi di critica radicale da adottare in qualsiasi situazione nazionale... L'abolizione delle pene prevede un vero e proprio rivoluzionamento sia delle pratiche che dei concetti che ne sono alla base: è l'idea stessa della privazione della libertà che va riconsiderata».

CARCERE: ASSISTENZA SOCIALE IMPROPRIA.
Per quale motivo la società sembra sorda a qualsiasi proposta intenda abolire le recinzioni carcerarie, o ridurre il tasso di carcerazione preventiva? E' davvero irragionevole: il carcere è caro, i costi di costruzione attuali sono iperbolici. Proviamo a fornire due ordini di risposte, distinte e integrate.
Esiste un problema di "ordine economico". Certo, il carcere costa caro alla comunità, ma d'altro canto, sotto forma di posti di lavoro, attività redditizie, appalti, costruzioni, illegalità connesse a queste ultime, il carcere è un affare non indifferente, impropriamente incluso nella voce "spesa pubblica". In secondo luogo può orientare le attività extralegali e fungere da elemento ordinatore del "mercato del lavoro criminale". Infine, rispetto a una quota ingente di detenuti, il carcere funziona sia come "cassa integrazione" per i delinquenti-lavoratori eccedenti, sia come "assistenza sociale impropria".
Quanti sono i detenuti che dovrebbero essere curati o mantenuti in altre istituzioni (ospedali psichiatrici, centri di osservazione, ospedali per tossicodipendenti e ammalati di A.I.D.S. eccetera) e che vengono invece internati sotto l'etichetta-ombrello di «delinquente»?
Sotto questo aspetto il carcere, almeno in certi paesi occidentali, tende ad essere un'istituzione chiusa «onnicomprensiva», buona per una gamma a ventaglio di «devianze» che non ci si cura nemmeno di smistare e selezionare. Con un'immagine suggestiva: «il grande internamento», che precede distinzioni e specificazioni di carattere tecnico-clinico-penale.
Il detenuto, perciò, si presenta come una sorta di utente indifferenziato (punito, tra l'altro, per la sua «genericità»). D'altro canto, come ciascuno può verificare, è soprattutto la categoria indifferenziata degli «addetti» al ciclo della droga (consumatori, spacciatori o trafficanti che siano) che ha, in anni recenti, rimescolato e confuso qualsiasi linea di demarcazione selettiva e gestionale. Delinquente o malato, criminale o recuperabile, colpevole o vittima, l'addetto al ciclo della droga, con le sue caratteristiche mai precisamente definibili, ha reso lo scenario del carcere ancora più indistinto e i suoi utenti ancora più indifferenziati.
Si pensi di nuovo al caso della Gran Bretagna, dove la popolazione detenuta diventa sempre più giovane e sempre più "nera". Dove oltre 20000 reclusi vengono considerati portatori di disagio mentale: molti sono alcolisti, tossicodipendenti, senza casa. Un gran numero è costituito da persone colpite da pene pecuniarie e incarcerate perché insolventi. Il carcere allora funziona da ospizio per i senza tetto; "nursery" per madri singole; comunità terapeutica per intossicati; luogo di assistenza medica per i poveri; scuola di avviamento professionale per gli evasori dell'obbligo scolare.
L'internamento, in questo caso, precede la penalizzazione o trascende la depenalizzazione, a seconda dei casi. Il carcere, si direbbe, nella ricerca di una nuova identità, per non perdere la sua vocazione simbolica e il suo mandato sociale, continua ad infliggere sofferenza e rifiuta di autoabolirsi. Una nuova definizione della fisionomia e delle applicazioni (selettive) potrà indurre l'istituzione a una maggiore consapevolezza dei suoi paradossi inutili costosi e controproducenti?
Esiste poi un problema di ordine "simbolico e ideologico". Già si è detto: non è facile rinunciare all'idea che il reato determini condanna e, quindi, «vendetta collettiva». L'ordine simbolico e ideologico che vige nei confronti del criminale-peccatore è fin troppo evidente e radicato.
Tuttavia non si può ignorare un aspetto profondamente interrelato all'ordine economico sopra menzionato. Il carcere è una istituzione invischiante, costosa, inutile e mortificante. E' un retaggio del passato che, tuttavia, ha costi di routine nettamente inferiori a quelli che avrebbe il lancio di un programma incentrato sull'abolizione radicale.
"Abolizionismo" è un'ipotesi realistica, ma quanto costerebbe il reo a piede libero? Quanto la privatizzazione delle misure alternative (dato che la privatizzazione del carcere è già realtà in molti paesi). E quanto la sua «assistenza-controllo domiciliare»?
Indubbiamente non è con la sola quantificazione dei costi che si può affrontare a ragion veduta un programma abolizionista, ma senza dubbio questa chiarificazione è necessaria. Una nota di rimando, quasi un'eco istituzionale, ci viene da molti settori di utenza e gestione. L'universo ospedaliero, ad esempio, risulta letteralmente sconvolto dalle nuove figure del malato di A.I.D.S. e del sieropositivo. L'assistenza esterna, a domicilio (intesa come alternativa globale all'internamento), ha fatto esplodere in molti paesi occidentali i preventivi di spesa della Sanità. L'ideologia dell'internamento, a ben vedere, è ancora saldamente ancorata a strutture economiche e a erogazioni pubbliche sottodimensionate.
Come in qualsiasi altra impresa, la ristrutturazione costa. L'industria carcere non fa eccezione.
Non stupisce che un prudente studioso d'Oltralpe, Jean Favard, discettando non senza ironia sulla «natura impossibile» del carcere in Francia (ma perché solo in Francia?), dopo aver constatato che tutti - amministratori, politici, magistrati, cittadini, poliziotti, sindaci e contribuenti dabbene - lo ritengono indispensabile conclude, tuttavia, che al momento della sua costruzione si crea una congiura del rifiuto. Gli stessi crociati del giorno prima si trasformano in ferventi oppositori. Il carcere deve esistere, sì, ma "ailleurs". Mondo non solo separato, ma invisibile, non deve occupare alcuno spazio. Si può immaginare un'istituzione più immateriale e fantasmatica? Parafrasando Swift, lo studioso francese fa «una modesta proposta» di ricollocazione. A mali estremi, estremi rimedi: per deterritorializzare il carcere non c'è che una soluzione: mandare i detenuti in orbita, su appositi satelliti... Non potrebbe essere, questa, la nuova forma-galera della colonizzazione spaziale?
Una soluzione realisticamente prospettata giunge dalla Gran Bretagna. Di fronte al dilagare dell'A.I.D.S. negli istituti di pena, l'Adam Smith Institute ha suggerito di collocare agli arresti domiciliari i detenuti sieropositivi, vale a dire la maggioranza degli stessi. Sopita momentaneamente la battaglia per la privatizzazione delle carceri, quest'istituto di ricerca ha suggerito un nuovo espediente per rendere produttiva l'"impresa della punizione". Alle migliaia di detenuti «liberati», infatti, verrebbero applicati dei braccialetti elettronici in grado di segnalarne i movimenti a una centralina di controllo. Questa pratica, già diffusa negli Stati Uniti, potrebbe portare all'esito singolare di svuotare le carceri per lo stesso motivo per cui si disinfesta un lazzaretto. Che l'abolizione delle pene sia legata all'incapacità dell'istituzione di arginare il contagio A.I.D.S.? Che il carcere sia destinato a scomparire per autoconsunzione, come un corpo infetto, privo di difese?

ESPERIMENTI.
Veniamo ad alcuni esperimenti di «ispirazione abolizionista». Vale la pena segnalarli. Dave Smith ha studiato a lungo le esperienze britanniche nel campo della riparazione e delle cosiddette pratiche riconciliative. Ha fatto notare come l'incontro tra la vittima e il reo, che vengono posti l'uno di fronte all'altro per risolvere il conflitto, permetta se non altro di modificare radicalmente la percezione del crimine. Molte vittime nell'atto di incontrare, ad esempio, il loro rapinatore rimangono sbalorditi nel vedere in lui una persona normale; alcuni trovano coloro che li hanno derubati persino simpatici e umani. Le vittime, insomma, attenuano quei toni di emotività che sono legati all'idea del crimine e ottengono, più che un risarcimento del danno subito, una rassicurazione di non essere nuovamente vittimizzate.
Queste ultime pratiche sono diffuse in modo particolare in Olanda, dove le esperienze di ispirazione abolizionista poggiano, tra l'altro, su una vivacissima produzione teorica. Si è in grado perciò di valutarne gli esiti che, relativamente a questo paese, rientrano non soltanto nel capitolo suddetto della "rassicurazione psicologica", ma anche nel repertorio della pura ricompensa materiale. E' il caso, che suonerà bizzarro, di diverse famiglie danneggiate da furti o piccole rapine che hanno accettato, in forma di risarcimento e omettendo la denuncia, la prestazione di un servizio da parte del reo e a loro vantaggio. Alcuni rei hanno imbiancato la casa danneggiata e risistemato le serrature; altri hanno prestato lavoro di giardinaggio a favore delle anziane signore vittimizzate. Oltre alle suddette pratiche di riconciliazione, prendono sempre più consistenza, in Olanda, i tentativi di far ricorso al diritto civile per episodi che comunemente sono monopolio di intervento da parte del diritto penale. Ce ne ha parlato lungamente Louk Hulsman, criminologo di Dordrecht.
Per i reati di molestia o violenza sessuale è stata offerta la possibilità di appellarsi a una corte civile e di richiedere l'allontanamento del responsabile dall'area di residenza della vittima. Le donne che hanno scelto questo tipo di procedura si sono dichiarate soddisfatte per il ruolo attivo sostenuto nella stessa e per aver evitato la delega del proprio caso a una corte che, il più delle volte, è non solo distante dalla situazione problematica condotta in aula, ma è anche «idealmente» connivente con l'autore della violenza. L'ingiunzione di allontanamento nei confronti del reo è una misura suggerita dalla stessa vittima, la quale viene resa partecipe anche amministrativamente dell'intero procedimento potendolo interrompere in qualsiasi momento qualora decida di negoziare con la parte avversa una qualche forma di risarcimento. Altri vantaggi di simili procedure risiedono nei loro costi accessibili e nella celerità, cruciale per evitare alle donne le molestie ossessive dei loro ex partner. In questi casi, che costituiscono la maggioranza di quelli così trattati, i tribunali sono indotti, tra l'altro, a considerare le categorie molestia e minaccia così come queste vengono percepite dalle donne, al cui sentimento di insicurezza le corti penali attribuiscono da sempre, nella ricostruzione delle responsabilità, una rilevanza a dir poco trascurabile.
In un commento a simili iniziative, Giuseppe Mosconi ha recentemente sottolineato come il passaggio dalla giustizia penale alla giustizia civile permetta di: «abbandonare il complesso apparato di predefinizione rigida e astratta dei fatti, operato da una autorità superiore e insindacabile»

Insomma, la situazione problematica può ritornare più fluida, altrettanto quanto lo era prima di essere «fissata» in tribunale. La realtà viene rievocata e ridefinita dalle parti che ne sono state partecipi in una situazione di parità, che consente la tutela del più debole, si tratti pure della vittima o, non bisogna escluderlo, del reo. Mosconi così conclude:
«Vengono attivati degli strumenti di negoziazione che corrispondono più correttamente al tipo di rapporto esistente tra i soggetti in relazione alle rispettive caratteristiche. Tutto ciò appare assai più coerente con una dimensione della devianza come fatto concreto, che si definisce in modo variabile e discontinuo nei sistemi di negoziazione quotidiana tra i soggetti».
L'ultimo esperimento che si desidera segnalare è stato condotto in un quartiere della città olandese di Dordrecht e ci è stato segnalato dallo stesso Louk Hulsman. Nella zona in questione, popolata da un esteso nucleo di immigrati, una parte del vicinato si sentiva minacciata e lamentava un netto deterioramento dei rapporti di convivenza. Ne emergeva, da parte di piccoli gruppi, una domanda di ordine e una insistente invocazione di intervento rivolta alle agenzie istituzionali. L'incremento delle attività poliziesche nella zona, però, non ha attenuato, ma esasperato le tensioni, al punto che molti si sentivano più irritati dalla presenza degli agenti dell'ordine che non molestati dagli altri abitanti del vicinato.
L'intervento non istituzionale, scattato in questo frangente, ha assunto la fisionomia della cosiddetta "ricerca-azione". E' stata tracciata, in primo luogo, una mappa dei differenti gruppi abitanti in quel quartiere, per procedere successivamente alla richiesta di collaborazione rivolta agli stessi. L'analisi documentaria e di natura storica, l'osservazione diretta degli operatori e i colloqui con gli abitanti hanno consentito di designare alcuni elementi costitutivi della vita associata nella zona interessata. Sono state individuate: a) le differenze culturali tra i diversi gruppi e il loro stile di vita; b) le interazioni tra i gruppi; c) quali fossero i lati positivi e i lati negativi dell'abitare in quel quartiere; d) a quali persone, gruppi, strutture o istituzioni si potessero imputare le responsabilità dei problemi rilevabili in quell'area; e) le possibili soluzioni; f) l'impegno prodigato da ognuno nel ristabilire un'atmosfera vivibile.
I dati raccolti sono stati sottoposti a verifica incrociata, in maniera che i singoli hanno potuto esaminare le risposte di membri appartenenti a gruppi diversi dal loro. Si è trattato di un primo confronto indiretto e mediato, seguito poi da un momento di incontro diretto e collegiale, con l'obiettivo di «manipolare» e modificare le reciproche percezioni e definizioni.
E' utile, a questo punto, richiamare brevemente due concetti che fanno da sfondo ad iniziative abolizioniste di questo tipo. Si tratta in primo luogo del concetto di "tribù", che è proprio di una visione della società organizzata non già in strutture generali e uniformi, ma in aggregati specifici e difformi: gruppi di vicinato, gruppi professionali, circoli di amici, movimenti sociali, circoli ricreativi eccetera. I membri di queste differenti entità sociali hanno sovente delle caratteristiche comuni: condividono alcuni elementi del rispettivo "mondo-vita". Ed è questo il secondo concetto, del resto non nuovo in sociologia, molto caro agli abolizionisti: i rituali, le percezioni, le modalità dell'esistenza materiale sono specifiche di ogni tribù e costituiscono i rispettivi "mondi-vita". Esistono possibilità di interazione intertribale, regolate a loro volta da rituali e procedure materiali che rendono conto di un'elevata mobilità degli individui da una tribù all'altra, da un "mondo-vita" all'altro.
La ricerca-azione condotta nel suddetto quartiere di Dordrecht si è posto l'obiettivo di confrontare i differenti "mondi-vita", limitandosi ad incrementare le occasioni di mobilità, o di "pendolarismo", tra i diversi gruppi e mettendo a fuoco gli elementi sorprendentemente comuni tra i gruppi medesimi.
Benché la procedura possa suonare astratta, gli operatori impegnati in questo progetto assicurano che: «Gli abitanti del quartiere, contribuendo a disegnare la mappa sociale del loro vicinato e a definirne i contomi culturali, hanno scoperto di avere non pochi problemi in comune. Si sono così lentamente modificati non solo i rapporti fra i gruppi ma anche quelli tra l'intero vicinato e il mondo esterno».
L'individuazione dei problemi comuni ha poi finito per incoraggiare una negoziazione collettiva con le autorità locali relativamente alla concessione di risorse e strutture per migliorare la vita in quartiere. Così ha concluso Hulsman: «Un altro effetto del nuovo clima è stato che gli interventi della giustizia criminale nelle situazioni problematiche, che in una certa misura ancora si verificavano, hanno cessato del tutto di esistere: i conflitti venivano risolti all'interno della comunità. Secondo un logico effetto a catena, poi, la stampa non ha più avuto occasione di segnalare quel quartiere come uno dei più pericolosi, interrompendo i noti processi di etichettamento nei quali gli abitanti finivano prima o poi per riconoscersi».
UNA PIATTAFORMA DI ISPIRAZIONE ABOLIZIONISTA.
In un lungo colloquio con Thomas Mathiesen, ultimo autore abolizionista che desideriamo citare, ci è stato ribadito che il problema non è di individuare delle alternative al carcere: queste ultime diventano inevitabilmente delle forme supplementari di trattamento che si aggiungono all'esistente circuito carcerario. Mathiesen, conformemente a sue personali esperienze di tipo militante, avanza delle proposte pratiche e su queste giudica possibile l'avvio di una campagna:
«In Svezia, dove attualmente operano dieci centrali nucleari, è stato ufficialmente stabilito che le suddette centrali verranno smantellate entro il 2010. Se è possibile smantellare gli impianti di energia nucleare entro il 2010, entro lo stesso anno si può procedere all'abolizione delle carceri. Le funzioni del carcere non sono certamente più importanti di quelle assolte dagli impianti che producono energia nucleare. Il 2010, quindi, deve essere l'anno».

Il programma suggerito da Thomas Mathiesen prevede quelle che i militanti di alcuni anni fa avrebbero definito «alcune articolazioni». Gli ultimi anni sono stati dedicati al dibattito e alla propaganda sulla questione; il processo concreto di abolizione sarà presumibilmente inaugurato nel 1990. Tale processo dovrà seguire una curva di ripidità crescente: moderata agli inizi, più ripida tra il 1995 e il 2000, ripidissima tra il 2000 e il 2010.

«Alcuni istituti andrebbero sottoposti a vincolo di conservazione per il loro interesse storico, sotto la tutela degli ispettorati ai monumenti e agli edifici antichi».

Metà della somma risparmiata per via del blocco dell'edilizia carceraria andrebbe utilizzata in forma di aiuto materiale ai detenuti rimessi in libertà. Questa politica, continua Mathiesen, oltre a rispondere a principi umani, può anche produrre probabili effetti di prevenzione.

«A tutto questo va accompagnata una gigantesca campagna educativa nella quale si illustri perché le carceri vengono smantellate. La campagna si avvarrà di finanziamenti dell'ordine di decine di miliardi e verrà organizzata dai ministeri della Cultura e della Pubblica Istruzione».
Abbiamo fatto sorridere non pochi dei nostri amici discutendo, qua e là, di abolizione del carcere. Un esempio. Di fronte a quello che la scorsa estate è stato definito il «delitto del catamarano», abbiamo sentito insospettabili illuminati, se non ex rivoluzionatori di sistemi, valutare l'equità delle possibili condanne, pesarne l'entità in rapporto alle caratteristiche e al ruolo dei diversi protagonisti. Alle «ingenue» proteste di chi prospetta il superamento della punizione, molti rispondono riconciliandosi (siamo realisti!) con principi da sempre odiati: la certezza della pena, la sua proporzionalità, la sua umanità. Tutti novelli Beccaria, Bentham, Cattaneo. Un'ansia, insomma, che fa di ognuno il dosatore equanime di un "quantum" di pena «oggettivamente» meritata dall'altro. Viene in mente proprio Jeremy Bentham e la sua pittoresca idea della fustigazione: solo una macchina dotata di stecche di balena e di corregge volanti può evitare le variabili dovute all'umore dei fustigatori e garantire identica ed equa energia alle sferzate da infliggere.
Corriamo pure il rischio di far nuovamente sorridere: in conclusione segnaliamo una piattaforma di ispirazione abolizionista che ci sembra adatta anche al nostro paese.
Si consideri innanzi tutto quello abolizionista un "metodo", non un programma immediato; un approccio, non una panacea; una critica alla scienza penologica, non una nuova e legnosa teoria scientifica.

1. Primo elemento di metodo potrebbe concretizzarsi nella scelta del campo di indagine, in maniera da aggirare la coppia «reato-pena». Negando la pertinenza della suddetta equazione, anche se nell'immagine comune ha acquisito statuto di ovvietà, si può considerare la "pena" come politica sociale, non come pura sanzione; come artificio regolativo della società, non come strumento di riparazione e retribuzione di un delitto. La scelta di campo, allora, privilegerà gli effetti sociali della politica penale; i suoi contenuti di orientamento, inibizione e sanzione rivolti a una popolazione che oltrepassa di larghissima misura la popolazione detenuta e quella convenzionalmente definita criminale.

2. Potremmo lavorare per la messa in campo di principi contrari a quelli definiti di "professionalità". Deprofessionalizzazione, quindi, ma anche deistituzionalizzazione, in riferimento a tutte quelle figure che compongono e sostengono l'intero apparato della giustizia. Molte definizioni di «devianza» si devono infatti al ruolo sociale di chi le formula, come molte «turbative» sono creazione delle agenzie istituzionali chiamate a fronteggiarle: l'esistenza delle seconde si legittima solo con l'esistenza delle prime. In termini pratici, occorrerebbe battersi perché le funzioni di rieducazione e risocializzazione venissero sottratte dalle sedi istituzionali che impongono lealismo.
Operatori, educatori, psicologi e assistenti sociali potrebbero venire collocati nei contesti sociali più sensibili e più prossimi a quelli dei soggetti che si intende «rieducare e risocializzare». L'"habeas corpus" non imponeva che la valutazione della personalità degli imputati fosse compito di una giuria composta da individui socialmente simili agli imputati stessi?

3. Secondo lo stesso principio della deprofessionalizzazione, il patrocinio degli imputati potrebbe venire sottratto al libero mercato delle prestazioni di assistenza. Una battaglia di ispirazione abolizionista, in questo caso, potrebbe scomporre il trinomio «giudice-avvocato-imputato» che è così essenziale alla perpetuazione del "mercato della giustizia". Si pensi ai patteggiamenti tra difensori e giudici, compiuti tra le due parti come se la terza parte, l'imputato, fosse un semplice spettatore, superfluo se non molesto, in un procedimento che lo riguarda. Si pensi poi alla contrattazione tra difensori e imputato che solo per i privilegiati può risolversi in patto ideologico e amicale fra i due. Se si eccettuano i casi che in passato vedevano prestazioni di assistenza gratuita a favore di «imputati politici», la nomina di un avvocato, oltre a confermare la legittimità dell'azienda giustizia, si traduce in pena pecuniaria anticipata. Ci si potrebbe muovere perciò nel senso di istituire centri di assistenza e consulenza legale permanenti, dove il sapere professionale possa venire socializzato e non riprodotto sotto forma di status materiale.

4. Una battaglia abolizionista, proprio perché si propone di modificare la cultura della pena, non può non considerare le "tecnologie" punitive di cui le diverse culture si muniscono. Occorrerebbe chiedersi quale influenza esercitano le culture e le tecnologie della segregazione le une sulle altre. L'idea segregativa non potrebbe sfumare se privata degli attrezzi e delle architetture disciplinari che la simboleggiano e la alimentano? In questo senso, una "moratoria riguardante l'edilizia carceraria" potrebbe impedire che le politiche penali di domani facciano ricorso a strumenti concepiti oggi. Interrompere la costruzione di nuove prigioni potrebbe voler dire interrompere quel «ciclo di rendimento» che impone a ogni tecnologia punitiva la ricerca artificiale dei propri destinatari. La moratoria, già lanciata in altri contesti nazionali, andrebbe anche estesa a quei piccoli istituti mandamentali, a quelle carceri a sorveglianza attenuata che, non ancora allestiti, lasciano già intravedere la propria inutilità. Il budget impegnato in queste «opere», così elevato, supera di gran lunga il danno sociale provocato dai detenuti cui tali opere sono destinate. Se la costruzione di nuovi istituti non è semplice occasione di investimenti e profitti, e se si accetta l'idea che un certo numero di detenuti possano essere sottoposti a forme attenuate di sorveglianza, bene, li si rimetta in libertà.

5. Una prassi abolizionista può inizialmente aggredire tutte quelle forme «eccedenti» di potere che, pur congeniali all'intero diagramma disciplinare della società, appaiono gratuitamente brutali. Si pensi alla pena dell'ergastolo che sopravvive, dopo la nuova «riforma» Gozzini, sotto forma di pena a tempo indeterminato per i detenuti che vengono considerati incorreggibili. Ma si pensi anche al "diritto all'esecuzione sommaria" concesso alle forze dell'ordine, che sembrano investite del compito di decongestionare preventivamente gli istituti di pena. Queste forme «estreme», va ricordato, si inseriscono agevolmente nella gamma degli altri strumenti di controllo e punizione, tanto da costituire modalità indispensabili al funzionamento dell'intero apparato disciplinare. E tuttavia, non si può mancare di combattere tali «modalità indispensabili»; la prassi abolizionista non teme che, con la soppressione delle «forme estreme», di conseguenza, il funzionamento dell'intero apparato disciplinare venga compromesso.

6. Non è sufficiente suggerire procedure diverse, occorre propiziare culture nuove e spregiudicate di convivenza sociale. Un programma di ispirazione abolizionista non può adottare lo slogan: "fuori i poveri, dentro i ricchi". Anche se il «crimine dei potenti», in frequenza e in danno sociale, supera di gran lunga il «crimine dei deboli», l'istituzione carcere non può essere rilegittimata come improbabile diga difensiva per i «poveri» e contro i «ricchi». Questi ultimi potrebbero essere penalizzati con forme di risarcimento e risocializzati attraverso pratiche di mecenatismo sociale. Gli imprenditori criminali, ad esempio, potrebbero essere costretti ad assumere un certo numero di ex-detenuti in imprese riconvertite a fini di utilità collettiva. Gli amministratori corrotti potrebbero essere obbligati a finanziare iniziative di sostegno alle vittime dei reati e agli stessi rei; creare centri di accoglienza, strutture assistenziali e ricreative per i più sfavoriti. Questi ultimi, in particolare quelli formatisi attraverso un'esperienza carceraria, gestirebbero i nuovi istituti fungendo da educatori per industriali e amministratori devianti.

Siamo sognatori? Amiamo il paradosso dell'utopia? O siamo già stati superati da una realtà che modifica ogni tensione trasformativa nella parodia di se stessa?

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