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Il carcere immateriale FABBRICA DI HANDICAP.


Nella "Certosa di Parma" spira un'aria incessante di terrore, vissuta dai prigionieri come una routine da cui non è dato evadere. Il terrore è legato allo spettacolo di un'istituzione che ostenta periodicamente i suoi poteri per rammentare che il «trattamento», a suo piacere, può compiersi fuori da ogni regola. Nella cittadella vigono delle "norme in bianco": la rappresaglia, la vendetta, l'arbitrio, anche quando non esercitati, vengono evocati come potenzialità incombenti, «i carcerieri e i confessori hanno l'ordine di persuadere i prigionieri che, ogni mese, o giù di lì, uno di loro è condannato a morte. Quel giorno i carcerati hanno il permesso di salire sulla terrazza della imponente torre, e di lassù vedono sfilare un corteo con una spia che fa la parte di un poveretto condotto al patibolo».

Lo stress della detenzione non è limitato ai momenti di esercizio visibile dell'arbitrio, ma si proietta anche nella sfera delle possibilità future, nell'incertezza di quanto può accadere da un istante all'altro. Nelle interviste che abbiamo condotto con cosiddetti osservatori privilegiati, è stato ripetutamente sottolineato come lo stress da carcere sia legato alla nebulosa normativa che lo governa. I regolamenti interni, benché previsti, sono inesistenti, né le amministrazioni sembrano interessate a redigerli, preferendo l'elasticità, gli interventi pragmatici, le risposte discrezionali a situazioni e problemi che via via emergono.

L'ANARCHIA DEI POTERI.
Giovanni Pinto, criminologo, ha constatato che
«In molte carceri si va avanti per "ordini di servizio", che sono revocabili e modificabili nello spazio di cinque minuti. Poniamo, arriva l'ordine: la doccia si può fare ogni giorno. Dopo un po', contrordine: la doccia si può fare ogni sei giorni. E' questa mancanza di uno scenario preciso che provoca spossamento psicologico. Il detenuto ha la sensazione di trovarsi in un terreno sconosciuto, sfuggente, privo di caratteristiche costanti».

Questi spazi di discrezionalità, per altro gestiti da personale militare, definiscono il carcere come istituzione, se non semplicemente priva di norme, dotata di un repertorio di "norme oppositive". Ogni norma può essere contraddetta dalla precedente o dalla seguente, in un panorama sempre mutevole, resiliente. Molti ci hanno ricordato, ad esempio, che la riforma penitenziaria del 1975 prevedeva, in alcuni articoli, dei benefici che in altri articoli venivano negati. La legge di riforma, insomma, dava agio alle direzioni di scegliere sull'opportunità della sua applicazione; non era tassativa, anzi sospendeva e negava se stessa in alcune "regole a somma zero".
Ritroviamo lo stesso principio di "resilienza" persino nell'architettura carceraria. Nell'istituto torinese delle Vallette, la destinazione delle aree, la divisione degli spazi e lo stesso materiale di costruzione si prestano a modifiche rapidissime, in conformità alle esigenze improvvise. La nebulosità normativa diventa allora indeterminatezza spaziale, a sua volta coerente con le perenni incognite relative al trattamento e al regime. Giovanni Pinto vede proprio nell'elasticità e nell'arbitrio della gestione, più che nell'istituzione in sé, la fonte dello stress:
«Sono le piccole angherie quotidiane che danneggiano fisicamente e psicologicamente. I detenuti non fanno in tempo ad adattarsi a un certo regime o ad adeguarsi a determinate regole che regime e regole cambiano improvvisamente. Non è un caso che tra le armi punitive più utilizzate vi sia sempre il vecchio "trasferimento", che provoca ansia in quanto modifica lo scenario e impone una repentina revisione delle aspettative del detenuto e della sua possibilità di controllare la propria situazione».

Gli studiosi da noi contattati hanno trovato estremamente difficile elaborare una definizione sintetica di "istituzione carcere": occorre parlare più opportunamente di "istituzioni carcere", vale a dire di una miriade di norme, regimi e consuetudini che ne costituiscono l'universo in continuo movimento.

LA MENOMAZIONE CARCERE.
Chi di questo universo ha attraversato, con rapidità, alcuni differenti pianeti, non potrà sottrarsi alla precarietà psichica indotta da un viaggiare di incognita in incognita. I danni più visibili alla personalità vengono inflitti nelle brevi detenzioni, nelle quali non viene concesso il tempo di raggiungere una sia pur degradata stabilità nel rapporto tra il recluso e il suo ambiente.
E' quanto emerge in diverse ricerche, come ad esempio quella condotta anni or sono dal professor Banister in alcune carceri inglesi. I detenuti sono stati sottoposti a test cognitivi, a prove di abilità spaziale e di memoria «short term». L'indagine ha seguito un criterio longitudinale, con test ripetuti a distanza di tempo. Il deterioramento psichico si è rivelato vertiginoso nel primo periodo di detenzione, per arrestarsi dopo l'espiazione di pene che disinvoltamente vengono ritenute di media durata: sei o sette anni. Tra i dati di maggior interesse rilevati nella stessa ricerca, quelli relativi alla prova definita del "differenziale semantico". Ai detenuti è stato chiesto di applicare una sorta di "scala di ostilità" ad alcune parole-simboli che di volta in volta venivano loro segnalate: padre, lavoro, donna, agente di custodia, casa, io, divertimento eccetera. Ebbene, le parole "padre" e "lavoro" hanno incontrato il maggior quoziente di ostilità, a conferma di come il rispetto dell'autorità e della disciplina sia tra gli esiti più improbabili della detenzione. Attitudini vistosamente sfavorevoli anche per il concetto di "io" a dimostrazione della bassissima stima per se stessi che il carcere inevitabilmente suscita. Se ne può concludere che non soltanto, com'è ovvio, il carcere non mira al recupero, anche se con questo termine si indica una specie di rappacificazione con la gerarchia dei valori comuni, ma che deliberatamente produce annullamento dell'individuo, distruzione del senso di sé.
L'impressione è che il recluso metta in campo, come unica arma di difesa, una sua personale forma di autoreclusione, psicologica e clinica. Tuttavia, quando le suddette difese si deteriorano, l'istituzione si trova nella posizione di dover allestire dei meccanismi sostitutivi che proteggano i detenuti da se stessi. E' il caso di non poche carceri scozzesi dove, come sembrerebbe anche da noi, il numero dei suicidi procede in misura inversa rispetto al numero delle evasioni. I frequentissimi episodi di autolesionismo, verificatisi nel carcere di Glenochill, ad esempio, hanno spinto gli studiosi ad esaminare le cartelle anamnestiche di chi vi era custodito. Si è sperato di disegnare un plausibile quadro clinico e di individuare delle preesistenti anomalie psichiche che spiegassero il ricorso così massivo ad atti estremi di autodistruzione. Ebbene, nessun soggetto osservato risultava schizofrenico prima dell'incarcerazione; nessuno di loro presentava sindromi da dipendenza alcolica; nessuno era affetto da sociopatie particolari; per nessuno erano mai stati diagnosticati particolari «disordini nella personalità».
Gli studiosi sono stati costretti a concludere che: «nel carcere è difficile il riscontro di specifiche malattie "formali", ma si possono rilevare dei diversi e spesso devastanti gradi di stress».

In una analoga ricerca inglese, l'uso di questionari, colloqui psicologici e test psichiatrici non ha prodotto risultati diversi:
«La popolazione detenuta, nel suo insieme, presentava forme diverse di disagio psichico non esattamente definibile; disagio che si avvertiva con particolare acutezza nel primo periodo di detenzione, prima che il recluso si fosse adattato alla vita carceraria».

Uno psicologo da noi intervistato, descrive la particolare «deprivazione» del carcere in termini di vera e propria menomazione fisica:
«Il detenuto si trova privato di braccia, di gambe, di voce, di decisionalità autonoma. Tutto l'universo carcerario è articolato per protesi: dallo scrivano al lavorante sono tutte protesi del corpo detenuto, che ha bisogno dell'istituzione, delle sue varie figure, per mangiare, spedire una lettera, mandare un piatto all'amico, aprire lo sportellino, accendere il televisore, spegnere la luce. E' come trovarsi all'improvviso in carrozzella o in un busto di gesso».

Questo trauma rappresenta un motivo di frustrazione e di insicurezza che ha immediate ripercussioni nelle zone più vulnerabili del corpo e della psiche. E' l'insorgere di quelle "compensazioni" che, in una visione adleriana, lo psicologo Giuseppe Sarti ci ha così spiegato:
«La vulnerabilità, costantemente avvertita dai detenuti, viene "compensata" da una serie di risposte ben visibili. Aggressività, autoaffermazione, rafforzamento del proprio io tramite atteggiamenti ingiustificati, insomma: mancanza sempre più marcata di dialettica col reale, con le sue sfumature».

Il paradosso vuole, poi, che le reazioni di molti detenuti si muovano lungo le due direttrici fondamentali che sono anche quelle imposte dal sistema della sofferenza legale. Da un lato può aversi una implosione nervosa: esaurimento, insonnia, nevrastenia, ipersensibilità, autolesionismo. Dall'altro può verificarsi l'esplosione: aggressività, ribellismo, contrapposizione e, anche se raramente, idealizzazione del proprio ruolo «deviante».

L'atteggiamento depressivo, in alcuni detenuti, porta all'accettazione supina, alla perdita di identità, allo smarrimento del proprio ruolo, alla demotivazione vitale, fino alla sfiducia nelle proprie stesse caratteristiche sessuali.
Il detenuto finisce per percepire se stesso come essere asessuato: non sa più se è una persona o una cosa. Questo declino del «senso di sé» è collegabile alla privazione improvvisa e coatta di un ruolo. E quest'ultima si rivela tanto più traumatica, producendo maggiori disturbi, quanto più il detenuto era abituato all'esterno a ricoprire funzioni di «comando», anche solo relativamente alla progettazione e all'esecuzione delle sue attività extra-legali o nell'ambito della propria famiglia.

IL MOTO APPARENTE.
Se da una parte l'istituzione deresponsabilizza, dall'altra impone un continuo controllo di sé per evitare situazioni estreme che per i detenuti sarebbero irreversibili. La mancanza di forme di mediazione o di ricomposizione dei conflitti, che è connaturata al carcere, crea un'atmosfera di continua ansia che l'assistente sociale Oriana Paci ha definito come una «conflittualità senza conflitti»:
«Sai che se sbagli non puoi facilmente recuperare un rapporto, né con gli altri detenuti né con le guardie. E' una continua tensione che non esplode mai in vero e proprio conflitto. E' un po' l'atmosfera che vivono i "separati in casa"».

La tensione latente che non esplode può portare ad atteggiamenti opposti che, per quanto stridenti, sembrano spesso coesistere. Lo stesso psicologo Sarti, che visita quotidianamente i detenuti, ha notato che questi possono diventare supini nei confronti dell'istituzione e, allo stesso tempo, aggressivi verso l'ambiente, anche se si tratta di aggressività mediata da codici e simboli complessi. L'accumulazione dello stress presenta, del resto, dei tratti visibili anche nel comportamento fisico dei detenuti, comportamento che colpisce subito chi ha l'opportunità di visitare un carcere. Tra le prime cose notate da Sarti agli esordi del suo lavoro:
«Il recluso non cammina, specie in situazioni di attesa. Il suo è il passo della tigre: una sorta di moto perpetuo che sostituisce e surroga il movimento reale. Credo che la mente, dopo un po', acquisisca lo stesso ritmo pendolare, ossessivo: su e giù, su e giù. Se i gesti non sono solo manifestazioni fisiche, ma anche psichiche, già questo sintomo non può che essere lo specchio di trasformazioni profonde subite dai detenuti».

Esiste una malattia professionale dei detenuti? Coloro che abbiamo intervistato ritengono poco conveniente azzardarne una definizione. La carenza di studi e ricerche sull'argomento consiglia di individuare ipotesi indiziarie, limitandosi a un discorso di «influenze sulla personalità», esercitate dalle normative carcerarie, in sé contraddittorie, incongruenti e arbitrarie.

Sarebbe però erroneo definire un quadro clinico «medio» della popolazione detenuta, essendo i detenuti stessi differentemente esposti alle mutilazioni del carcere e provenendo da culture e ambienti che possono renderli più o meno vulnerabili ai rigori della detenzione. Per alcuni, come ci è stato fatto notare, le condizioni di vita in carcere e le condizioni di vita in «libertà» si somigliano moltissimo e costituiscono, insieme, le aspettative «esistenziali» a cui fare, consapevolmente o no, costante riferimento.
«L'individuo detenuto comunque cambia. Non voglio dire che venga rieducato. Né voglio parlare di trattamento: il regime carcerario modifica gli individui a volte in maniera permanente. Di qui la responsabilità oggettiva dello stato: aver trasformato delle persone senza conoscere i risultati umani e gli effetti sociali di questa trasformazione».

LA SINDROME DEGLI ESCLUSI?
La psicologa Sandra Ambrosi, che ha una rilevante esperienza di lavoro in istituti per minori, ritiene che il problema della salute in questi istituti presenti delle caratteristiche particolari e immediatamente percepibili. I soggetti che vi sono ristretti, dice, attraversano una fase dell'esistenza fatta di mutazioni fisiche e psicologiche repentine, che già in una situazione «normale» sono spesso problematiche. Se per malattia si intendono anche i disturbi psicosomatici o le patologie di carattere psichiatrico, la Ambrosi crede di poter affermare che: «certamente il regime detentivo non lascia inalterato il quadro clinico preesistente del soggetto».

Non sono tuttavia possibili delle generalizzazioni; a suo dire, l'insorgere dei disturbi è legato a numerose variabili: il tempo di permanenza, lo stato precedente del soggetto, le condizioni igienico-sanitarie del singolo istituto. In particolare va attribuita un'importanza cruciale al fattore tempo: più la detenzione si prolunga e più facilmente insorgono patologie. E riassumendo quelli che lei considera elementi patogeni, indica innanzitutto la "modificazione dello spazio fisico", che non è semplicemente da intendersi come riduzione o mancanza di spazio. Individua poi la "trasformazione della percezione del tempo", che si dilata ed è scandito da ritmi lontani da quelli dell'esperienza quotidiana. E infine le "dinamiche relazionali", che costituiscono una sorta di humus nel quale la malattia viene «giocata»:
«Mi riferisco in particolare ai disturbi psicosomatici che insorgono come difesa dai rapporti difficili con i coetanei e con il personale educativo e della custodia».

Si può parlare perciò di «malattia da carcere» non tanto riferendosi a particolari quadri clinici, quanto rispetto a quei meccanismi che, in carcere, fanno della patologia un inconsapevole espediente comunicativo:
«Il raffreddore che viene in carcere è lo stesso che viene fuori, ma in carcere può rappresentare tante cose e può condurre a conseguenze diverse. La malattia in sé non è diversa, ma la sua percezione e la sua gestione lo sono, sia da parte del detenuto che da parte dell'istituzione».

Il dottor Buisson, membro dell'Organizzazione internazionale «Medecins du Monde», intervistato sul rapporto tra malattia e detenzione, si è così espresso: «I sintomi degli ex detenuti che ho potuto visitare (circa 500 in oltre tre mesi) possono essere raggruppati in due categorie fondamentali. Da un lato la «sindrome degli esclusi», a mio avviso molto simile a quella che presentano di norma le persone che non hanno accesso a cure normali e continuative. Dall'altro la «sindrome della reclusione», determinata innanzitutto dalla mancanza di condizioni igienico-ambientali che favoriscono o aggravano decorsi patologici».
Pur affrontando con cautela le domande relative a una patologia specifica, indotta dal carcere, Buisson non esita ad imputare alla detenzione innumerevoli sintomi di disagio fisico e psichico:
«Molti problemi sono dovuti all'igiene, all'alimentazione, allo spazio, alla vita che si conduce in cella. In più occorre dire che la gran parte delle carceri [in Francia] sono vetuste o fatiscenti. I disturbi più comuni? Citerei: male allo stomaco, insonnia, problemi dermatologici e meccanici (male alla schiena, ai piedi, difficoltà di deambulazione eccetera). Io credo che il solo fatto di restare rinchiusi per mesi o anni determini problemi di salute».

L'accento viene posto su aspetti spesso trascurati. Parlare di sindrome degli esclusi non è solo una definizione ad effetto. Spesso, infatti, i detenuti liberati presentano la stessa patologia degli esclusi, ma ad un livello, ad uno stadio, molto più avanzato.

«A mio avviso c'è un'analogia tra gli ex detenuti che ho visitato e le popolazioni come i rifugiati o gli internati, o persone consimili. Come tutti gli individui rimasti isolati risultano più sensibili, fragili, vulnerabili, in tutti i sensi. Sono persone più emotive, quindi più esposte, che hanno più facilmente le lacrime agli occhi. Le conseguenze anche sul piano fisico sono evidenti...».

Il quadro clinico generale che emerge dalle diagnosi fatte su ex detenuti è inquietante. Turbe, disagi, deterioramento fisico generale, spesso un invecchiamento precoce che stigmatizza, come un marchio indelebile, i volti di quanti vengono dal «mondo delle sbarre».
Provando a fornire un elenco delle patologie più frequentemente riscontrate in carcere, altri psicologi hanno premesso come risulti difficile distinguere i disturbi che attengono al piano fisico da quelli che riguardano il piano psicologico. Sono molto frequenti le malattie dell'apparato respiratorio; frequente anche l'insonnia, con conseguente alta richiesta di tranquillanti. Ancora, malattie che riguardano la sfera sessuale, diversi tipi di infezione, disturbi mestruali per le donne o interruzione totale del ciclo. Dermatiti. Lesioni fisiche, dovute vuoi a episodi interni di violenza, vuoi ad infortuni nei laboratori. Stati depressivi. Stati di agitazione psicomotoria. I disturbi di carattere psicosomatico sembrano più frequenti tra le donne e vi è tendenza non solo a sottovalutarne l'entità, ma quando presi in considerazione, trattati con dosi variabili di psicofarmaci.
Di problematiche fisiche o psichiche della donna in carcere si è occupata recentemente la dottoressa Anna Bucceri, che ha incontrato dei gruppi di detenute nel carcere di San Vittore:
«Erano tutte ben coscienti che la malattia insorge più facilmente in una situazione di disagio psichico e fisico, di non equilibrio della persona intesa come unità di mente e corpo».

Tutte d'accordo anche sulle funzioni del carcere: «lavorare» sulla persona non certo ai fini del reinserimento, ma con lo scopo di debilitare. La vita all'interno del carcere, viene detto, conduce progressivamente a smarrirsi, a non avere più punti di riferimento se non quelli proposti dalla miseria della segregazione.

«Il tempo reale è il tempo del carcere, lento, monotono. Lo spazio reale è lo spazio del carcere, stretto e sbarrato. Tempi e spazi poveri di esperienza e stimoli affettivi, sensoriali, intellettivi».

Ad opinione di Anna Bucceri, lo smarrimento si traduce in sintomi e segni sul corpo. In stato di segregazione, i sistemi neuro-ormonali di regolazione vengono ostacolati e sono molto lenti nel riadattarsi: si perde la ciclicità, si sconvolge il tempo fisiologico. Compaiono oligo-amenorree e polimenorree.
Sandra Ambrosi ritiene che già la semplice mancanza di movimento fisico "finalizzato" possa far insorgere delle patologie:
«Difficilmente il carcere sarà un luogo in cui ci si potrà muovere normalmente. Ma anche se ciò accadesse, il movimento per il movimento è già patologico. Camminare per andare dove? Correre per prendere quale autobus? Ciò che induce patologia, a mio parere, è l'assenza di significato che qualunque azione normalmente ha».

Antonio Tinti, anch'egli psicologo, ritiene di poter trarre una radicale conclusione. Ci invita a considerare dei ratti in laboratorio: gli animali stressati da continui stimoli innaturali, in un ambiente coatto, si ammalano più facilmente di altri. La malattia seguirà un corso in parte predeterminato dalle caratteristiche individuali. E' ovvio, questo meccanismo può registrarsi anche in libertà, laddove esistono situazioni di stress macroscopico:
«Ma è questo il punto: il luogo della reclusione è un ambiente che accumula stress, che per definizione crea situazioni limite di stress, superando tutti i valori tollerabili».

Disturbi cardiaci, manie, turbe del comportamento, sembrano nella sua esperienza all'ordine del giorno. Del resto, non ci si può aspettare nulla di diverso quando gli "input" dell'ambiente si riducono a stimoli di paura, attesa, insicurezza, frustrazione, rabbia. In situazioni normali, un individuo che abbia dei disturbi cerca di individuarne la causa o le cause e, se non altro, può circoscriverle. Nel carcere le cause sono circoscritte a priori: le cause del disagio sono il contenitore stesso, l'aria, dell'esistenza reclusa.
Siamo stati ripetutamente messi in guardia dalla tentazione di generalizzare: i diversi regimi disciplinari, ci è stato detto, possono produrre effetti tanto dissimili da rendere inappropriata ogni definitiva classificazione e da sconsigliare la ricerca di tipologie universali. Accogliendo il consiglio, abbiamo provato a suddividere l'universo carcerario, schematicamente, in tre distinti circuiti: carcere di massima sicurezza, carcere a custodia ordinaria, carcere riformato. Si sa che le ricerche più significative sulla «malattia da carcere» sono state condotte relativamente al primo circuito. Le condizioni di vita nelle carceri di massima sicurezza, infatti, non solo hanno sollevato diffusa indignazione e stimolato l'intervento di gruppi di base, ma hanno anche sollecitato l'interesse di diversi studiosi. Sul cosiddetto «trattamento speciale» è stata raccolta, perciò, un'ampia mole di dati che negli ultimi anni hanno fatto da base concreta alle campagne di denuncia e alle iniziative «contro il carcere». L'esame, o anche l'elencazione dei dati raccolti occuperebbe un volume a sé; ci limitiamo perciò a riferire di un recente lavoro che sembra presentare un quadro riassuntivo e nitido, nonché aggiornato, dei risultati già emersi in precedenti ricerche.

PATOLOGIE DELLA RECLUSIONE.
Alcuni membri del "National Prison Project", fondazione statunitense, hanno intrapreso un viaggio attraverso una serie di "unità speciali" di detenzione nel loro paese, accompagnati da psicologi e criminologi. Tra gli effetti del regime di isolamento si sono limitati a registrare quelli immediatamente visibili, colti nel corso di conversazioni relativamente brevi sostenute con i detenuti.

Claustrofobia.
In alcuni, l'isolamento in uno spazio chiuso e invariato ha indotto sensazioni di compressione spaziale, molto prossima al panico claustrofobico. Se il regime dovesse rimanere inalterato, viene detto, si produrrebbero gravi psicosi e senso di irrealtà. Considerata la sensibilità dei detenuti alle emozioni e agli stati psichici dei propri compagni di pena, i ricercatori ritengono probabile la diffusione del contagio psicotico alla maggioranza della popolazione detenuta nelle rispettive sezioni speciali.

Irritabilità permanente.
Profondi sentimenti di rabbia senza possibilità di scaricarla. Molti detenuti si sentono come se venissero violati in ogni istante dell'intera giornata. La rabbia repressa risulta chiaramente leggibile se si osserva il linguaggio del corpo attraverso il quale i detenuti, consapevolmente o inconsapevolmente, comunicano. A lungo andare, questi sintomi porteranno a disturbi psico-somatici.

Depressione.
Gli effetti dell'autocontrollo sono molto dannosi. Venendo a mancare un obiettivo esterno, la rabbia si rivolge all'interno e viene avvertita come depressione. Se e quando la depressione raggiungerà livelli insopportabili, verrà liberata una forza in molti casi autodistruttiva, che in carcere significa: automutilazione, suicidio.

Sintomi allucinatori.
Alcuni hanno dichiarato di vedere delle macchie nere o delle strisce sulle pareti che sono invece interamente colorate di un bianco luminoso. Sono questi gli effetti di un ambiente visivo monotono. Anche in questo caso ci si può attendere un rapido meccanismo di contagio.

Abbandono difensivo.
Una frequente risposta agli ambienti avversi prende la forma di ritirata protettiva di sé. Lo scopo di questo meccanismo sembra essere quello di de-sensibilizzarsi, in maniera da attenuare le sensazioni di sofferenza.

Ottundimento delle capacita intellettive, apatia.
Molti si dichiarano incapaci di concentrarsi. L'abbassamento dell'abilità nel focalizzare l'attenzione indica un disinteresse crescente nel proprio mondo interiore e nel mondo esterno. L'ambiente carcerario, fisicamente, socialmente e culturalmente immobile, nega gli stimoli necessari a suscitare interesse in qualsiasi aspetto o sfumatura del mondo circostante.

Tra i disturbi psicosomatici più comuni, i ricercatori del "National Prison Project" hanno elencato: perdita di appetito, notevole perdita di peso, malessere fisico generale difficilmente individuabile, esasperazione dei problemi medici preesistenti, disturbi visivi, tachicardia.
Se si estendessero ricerche di questo tipo ad istituti di massima sicurezza in altri paesi, crediamo che emergerebbero risultati grosso modo analoghi. Unico è il modello di custodia che li ispira e comuni sono le tecnologie e le modalità di sorveglianza e trattamento che li costituiscono. Sembrerebbe però che le patologie descritte siano congruenti con situazioni di detenzione estreme, rivolte, per di più, a soggetti «altamente pericolosi» .
Nel carcere a custodia ordinaria, in verità, si riscontrano gli stessi elementi di sofferenza, che, al massimo, possono suggerire ai detenuti delle differenti strategie di resistenza al male, dei differenti espedienti di sopravvivenza. Tra i disturbi che accompagnano qualsiasi tipo di reclusione vi sono infatti quelli di natura depressiva che in ogni regime possono produrre esiti di tipo autolesionistico. Paolo Lamberti, operatore carcerario che si è impegnato a lungo nel lavoro di monitoraggio delle istituzioni totali, è convinto che sia proprio il carcere a custodia ordinaria a imporre un incessante autocontrollo, basandosi questo tipo di carcere sull'autogestione della pena e sull'osservazione del comportamento, nonché sulla verifica continua del processo rieducativo. Le due strade dell'autolesionismo fisico e dell'autoesclusione psichica rimangono aperte anche in regimi a disciplina attenuata, dove i disturbi depressivi, indotti dal regime, possono paradossalmente influire sul regime medesimo. Il ripetersi di episodi di autolesionismo, può incoraggiare le direzioni ad adottare misure di stretta vigilanza e a trasformare un intero istituto in una grande sezione speciale. La trasformazione sarebbe dettata da circostanze che si sono realmente verificate: evitare l'epidemia degli atti autolesionistici; diminuire i carichi di lavoro del personale di custodia attraverso la limitazione dei movimenti consentiti ai detenuti.
L'autolesionista che non abbia «successo pieno» nel suo tentativo, può venire anche rimosso dall'istituto ordinario e affidato a un istituto speciale. Ma anche il comportamento aggressivo, che a sua volta fa parte del repertorio delle strategie di resistenza in un carcere a custodia ordinaria, condurrà allo stesso esito. In breve, le fonti del disagio nel carcere ordinario risiedono proprio nel suo regime «ordinario», vale a dire indeterminato, suscettibile di modifiche continue e improvvise. Così nei commenti di Lamberti:
«I detenuti possono sopravvivere soltanto riducendo la distanza tra le proprie aspettative e la realtà della loro esistenza. Lo stress è insomma provocato, in larga misura, dall'indeterminatezza del regime, dalla frustrazione, dal gioco al ribasso delle proprie aspettative, che il regime impone incessantemente».

Per paradosso perciò: più attenuato il regime, maggiore la possibilità del suo peggioramento, maggiore lo stress.

SINDROMI DA PRISONIZZAZIONE. Ci consta che nel nostro paese sia stata condotta un'unica indagine di una certa rilevanza sugli effetti psico-fisici del carcere.
I nostri ricercatori prendevano le mosse da ricerche compiute in altri paesi, che si riproponevano di passare in scrutinio. In particolare, si intendeva verificare non solo la pertinenza di alcune definizioni (quali ad esempio: prisonizzazione, istituzionalizzazione, nevrosi da istituzione eccetera), ma anche la veridicità di dati «qualitativi» sui quali molti studiosi sembravano ormai nutrire pochissimi dubbi. I nostri ricercatori dovevano insomma verificare la credibilità dei seguenti enunciati: la permanenza in istituti di pena produce a) "erosione dell'individualità", danno della capacità individuale di pensare ed agire in maniera autonoma; b) "disculturazione", perdita dei valori e delle abitudini che il soggetto aveva prima dell'ingresso in istituto; c) "estraniamento", incapacità di adeguarsi, una volta rilasciato in libertà, all'evoluzione dell'ambiente esterno; d) "danno fisico-psicologico"; e) "deprivazione sensoriale", adattamento alla povertà dell'ambiente e al ritmo innaturale dell'istituzione.
I dati sono poco omogenei, si lamentava; gli approcci troppo limitati, unidisciplinari:
«In sostanza non è stato possibile identificare tipi di carcerati inclini o meno a deteriorare psicologicamente».

La preoccupazione principale dell'"Ufficio studi e ricerche della Direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena", che promuoveva l'indagine, sembrava quella di stabilire non tanto se esistesse un deterioramento psichico da detenzione, ma come questo fosse clinicamente distribuito nella popolazione carceraria. Tenuto conto di questi problemi, si procedeva a conclamare un maggior rigore vuoi nelle definizioni di partenza, vuoi nelle scelte metodologiche. Per deterioramento si intendeva il deterioramento psicologico, intellettuale e cognitivo; il campionamento veniva basato sulla scelta di soggetti che avevano trascorso un periodo lungo o breve di detenzione in maniera continuativa.
Dopo queste promettenti precisazioni però, si concludeva di non aver ottenuto conferma che la carcerazione produce deterioramento mentale: i ricercatori confermavano le perplessità rivolte ai risultati altrui e aggiungevano un supplemento di perplessità nei confronti dei loro stessi risultati. Come dire: il carcere «probabilmente» produce disturbi, devastazioni psichiche, ma non siamo in grado di sapere in che misura, su quali soggetti, in quale fase della detenzione:
«I risultati della ricerca hanno mostrato l'esistenza di un certo grado di deterioramento mentale, il cui livello di scarso rilievo, però, pone difficili problemi di interpretazione».

Veniva cautamente stabilito che la sindrome da prisonizzazione, che include dei danni intellettivi, non è un fenomeno ad andamento lineare, con effetti che si accumulano nel tempo; né è uniformemente distribuita nella popolazione carceraria. I soggetti sociali più deboli, professionalmente non qualificati ed a basso livello culturale risultavano subire in maggior misura i danni da detenzione. Sicché si proponeva di individuarli precocemente, come se questi non costituissero la stragrande maggioranza della popolazione detenuta, e si consigliava di tener conto delle diverse propensioni al deterioramento nell'atto di formulare la sentenza..
«Individuare, con maggiore certezza ed efficacia di quanto non sia stato a noi possibile, le variabili predittive del deterioramento e neutralizzarle o almeno studiare le misure atte a ridurne o escluderne l'insorgenza».
Perciò: alternative alla pena carceraria o assegnazione ad istituti speciali per i più inclini ad essere danneggiati. Non pare che questo suggerimento sia stato seguito, anzi, in attesa di essere individuati, i più «inclini» sono semplicemente risultati tali a deterioramento ormai avvenuto.
In una constatazione finale, forse per riscattare la validità di una ricerca che poco aggiungeva a quanto risaputo e che, rivestita di legnosità scientifica, affermava quanto poco dopo si affrettava a negare, si dichiarava con tristezza:
«Anche se la detenzione raramente riesce a rieducare il condannato, nella tragica realtà dei nostri istituti penitenziari, è inaccettabile sia sul piano dei diritti dell'uomo, che anche su quello meramente utilitaristico dell'interesse della società, che essa possa contribuire a deteriorare alcuni dei detenuti, colpendo in modo differenziale e discriminante proprio i soggetti meno difesi nella massa».

GLI APRIORI DELLA SOFFERENZA.
Il tempo, privato di ogni scansione esterna (che non sia quella imposta dall'istituzione e dal suo ritmo routinario), si introflette, diventando una morsa ossessiva. Il detenuto attende sempre qualche notizia, qualche "evento" (o l'evento per antonomasia: la liberazione) che intervenga a spezzare la spirale del Tempo senza tempo. Pensiamo alla mancanza di avvenimenti naturali e sociali, di una sequenza reale di eventi, che inevitabilmente alterano le percezioni, azzerando gli stimoli concreti.
L'uomo può essere considerato un «animale temporale»?
La cultura umana è basata prima sul tabù, sul mistero, poi sul controllo tecnologico del tempo. La storia della società è anche storia del dominio umano sul tempo. E' superfluo ricordare l'invenzione dell'orologio e il suo affermarsi dispotico nelle civiltà industriali e sul loro ritmo. Se il tempo non viene scandito, diventa una sorta di flusso onirico, un "continuum", dove tutto accade senza distinzioni cronologiche: passato-presente-futuro si mescolano nel mito, nella leggenda o nell'immaginario. Se questo si verifica in una comunità «libera», la cosa può avere ripercussioni gravi; l'individuo può avere comunque dei riferimenti esterni: le stagioni, i raccolti, la temperatura, i colori. Può avere dei riferimenti istituzionali: lo sciamano, i riti, le iniziazioni. Persino in una società retta da un computo approssimativo o mitologico del tempo l'individuo è comunque inserito in una scansione collettiva, reale, del tempo stesso. In carcere invece si realizza una situazione parossistica.
Franco Masi, sociologo, condivide questa impostazione e afferma:
«Al ritmo frenetico e del tutto artificioso della comunità carceraria (battitura delle sbarre, sveglia, pasti, perquisizioni eccetera) non corrisponde un'integrazione dell'individuo. Quest'ultimo, al contrario, coltiva, per reazione o per autodifesa, una sua concezione sempre più fluida e indifferenziata del tempo, fino a identificarsi con un "continuum" immaginario. La vita è demotivata, appesa a un ricordo, a una parola, a una lettera. E' il vuoto pneumatico in cui gli stimoli dell'ambiente agiscono su di lui producendo reazioni esagerate».

Il "continuum" temporale che vige in carcere, sganciato com'è dalle scadenze reali significative (emotive, affettive, istituzionali), crea nei soggetti delle reazioni innaturali ad ogni evento. Reazioni di odio, di aspettativa e di ansia assolutamente immotivate rispetto all'avvenimento cui si rivolgono. Pensiamo al colloquio: si attende tutta la settimana per vivere mezz'ora in parlatorio, dove l'ingorgo delle emozioni creerà una situazione irreale e dove si va non solo per consumare pochi minuti in compagnia di persone care, ma per accumulare sensazioni da rivivere per l'intera settimana successiva.

Il meccanismo di fondo utilizzato dall'istituzione è, secondo Masi, quello dello stress. Si fa il vuoto più o meno assoluto nell'individuo e poi lo si riempie di stimoli «esplodenti». E' la classica goccia d'acqua che cade nel silenzio totale: ogni volta sembra un colpo di maglio. Esiste un legame stretto fra stress e modificazione della "percezione del tempo". Già i benedettini, con la tipica scansione del tempo monastico, avevano tenuto conto del pericolo di quella che possiamo definire "malattia del tempo". Alla fantasticheria mistica alternavano infatti il lavoro, il gioco, l'attività libera e anche la socialità, forse più mondanizzata e «aperta» di quanto si sia disposti a ritenere. La sofferenza legale si può considerare perciò non semplicemente malattia delle sbarre, ma malattia del tempo:
«La menomazione dello spazio genera senza dubbio ansia, angoscia, senso di soffocamento, che possono sfociare nell'asma, nella stanchezza cronica, nell'astenia; ma la menomazione temporale, a mio avviso, è più grave. La mente, immersa in una dimensione del tempo innaturale, reagisce in modo imprevedibile. C'è chi non esce più dalla cella, neppure durante l'aria. Chi guarda la televisione di notte e dorme di giorno. Chi rifiuta di pensare e chi pensa troppo. Senza considerare le lacerazioni che non sono visibili e che si manifesteranno più tardi, dopo la scarcerazione».

Un altro aspetto della sofferenza legale, che si è già sottolineato e che è riscontrabile in ognuno dei circuiti carcerari descritti sopra, riguarda il blocco o il "soffocamento della comunicazione". Quest'ultima, composta da un fascio di vettori temporali e di stimoli, costituisce non solo uno strumento della socialità, ma è la socialità. Certo, l'universo comunicazionale può assumere le caratteristiche pervasive e totali del "villaggio globale", ma se viene manipolato diventa una caricatura deforme, o meglio, la caricatura di una caricatura. L'uomo del ventesimo secolo si definisce come tipo antropologico anche grazie al telefono, la stampa, la televisione, il cinema, e in generale in virtù dell'interazione di stimoli molteplici che provengono dall'universo accessibile ai mezzi di comunicazione. Recidere questi "sensori" è un po' come amputare dei nervi o lobotomizzare una parte consistente del cervello. Come potrebbe non soffrirne l'organismo?
Tra le risposte a questa menomazione comunicazionale, quella osservata da Giovanni Pinto. La mancanza del telefono, della sua velocità, corrisponde a un handicap che può essere traumatico. Molti detenuti avvertono come un dramma l'improvvisa dilatazione dei tempi comunicativi e cercano di farvi fronte con lo strumento comunissimo del telegramma. Il telegramma viene spesso utilizzato anche per comunicazioni e notizie non gravi o urgenti, ma, si direbbe, per il semplice desiderio di non «rimanere indietro», di non essere esclusi da quell'incrocio di messaggi e da quella rapidità di rete che si riscontrano nel «mondo libero». Per molti detenuti il ricorso alla lettera con francobollo espresso è consuetudine più che rarità, tanto che una busta con affrancatura ordinaria, vista la lentezza consueta, può suscitare risentimento nel recluso destinatario.

Come credere che queste menomazioni non vengano prodotte anche nel "carcere riformato"? Quest'ultimo presenta, certo, delle peculiarità, operando uno spostamento della sofferenza legale parallelo alla modificazione dei confini materiali del carcere. E' vero che la cella è meglio della segreta, la semilibertà meglio della cella. Ma se gli spazi si allargano la coercizione non si diluisce, abbandona le mura e si concentra nella mente. Gli effetti della sofferenza non vengono eliminati, ma al massimo interiorizzati. E' un passo avanti verso la civilizzazione delle forme, che lascia immutato il concetto di punizione. La psicologa Sandra Ambrosi, che lavora con i minori, crede che anche le misure alternative possano condurre a comportamenti anomali e a disturbi fisici e psichici:
«Sul piano psicologico il fatto stesso di essere controllati, anche in situazioni aperte, può creare senz'altro delle patologie».
E nel raccontare dei suoi «utenti» in libertà vigilata, sottoposti alle attenzioni di assistenti sociali, si chiede come i ragazzi riescano a non maturare delle sindromi persecutorie e a controllare la normale aggressività che lei stessa proverebbe al contatto con «simili operatori».
Non ci meraviglieremmo se si scoprisse che, a partire dall'ultima legge di riforma, il numero dei suicidi in carcere sono verticalmente aumentati. Lo stress provocato dall'autogestione della pena e le sindromi depressive suscitate dall'attesa, dall'incertezza e dall'arbitrio nella concessione dei «benefici» possono trovare sfogo nell'autolesionismo volontario o involontario. La cosiddetta osservazione, anzi, rende i detenuti ancora più trasparenti. La privazione di ogni intimità, nella quale in ogni istante può irrompere chi deve formulare un giudizio sulla condotta del detenuto, provoca ansie e manie in chi si sente perennemente spiato. Anche le mura posseggono gli occhi, il detenuto non è mai solo, altro che utopia del "panopticon". Così il criminologo Pinto:
«Ci siamo mai chiesti come mai i detenuti sono così inclini a scrivere poesie? Non è perché sono riflessivi, perché parlano molto con se stessi. Al contrario, hanno un grande bisogno di parlare con se stessi, non lo fanno mai».

Conferma il dottor Buisson:
«Quando escono dalla prigione li vediamo come sono: molto fragili, ipersensibili, per giunta questa sofferenza che è stata loro inflitta non ha molto senso, perché se punite la gente senza spiegarle il perché, senza fornirle delle motivazioni, non capirà cosa è successo... La prigione investe una popolazione in sé molto fragile, vulnerabile. Se spingete nel vuoto qualcuno già molto debole, non potrà che cadere...».

L'incertezza e la paura del «buio oltre le sbarre» sembrano incombere sui detenuti sospesi nell'immaterialità del carcere proiettato oltre le mura.
Alcuni detenuti «riformati» rifiutano i permessi per evitare il trauma duplice dell'uscita in libertà e del rientro, ahimè volontario, tra le mura. Le norme che riguardano l'affidamento in prova al servizio sociale sono a tal punto controverse che taluni tribunali, in caso di revoca del beneficio, computano la condanna a ripartire dal momento della concessione del beneficio medesimo. Con la nuova riforma, insomma, è stata introdotta anche nel nostro paese una sorta di pena a tempo indeterminato la cui durata viene di volta in volta stabilita dal limite temporale di sopportazione dei singoli detenuti. E' un po' come quell'infame articolo 178 del codice penale contro cui si scaglia il giudice Igino Cappelli e che, sotto diversa forma, sembra ancora in vigore. Una volta condannato, se impazzisci, vale a dire se non osservi un comportamento conforme, la pena viene «interrotta»: «riprenderà il suo corso se e quando, rinsavito, sarai capace di intendere il valore afflittivo e correttivo della galera; e intanto il tempo si ferma, la galera già fatta non conta».
E' l'incubo dell'ergastolo bianco, collegato al senso di solitudine che solo il carcere riformato può produrre. I benefici individualizzati hanno eroso definitivamente i sentimenti di solidarietà che potevano costituire un argine contro il disagio e una sorta di difesa immunitaria contro l'insorgere di malattie da carcere.

LA SOFFERENZA PRIMA DELLA CONDANNA.
Il dispositivo della sofferenza legale, secondo la definizione che stiamo cercando di elaborare, non è ancora completo. Rimane da esaminare il capitolo della sanzione anticipata, il danno psichico che interviene ancora prima dell'esecuzione della pena. Il professor Gaetano Pecorella suggerisce che sono osservabili devastazioni nella personalità anche tra i soggetti che sono stati soltanto raggiunti da un'imputazione di reato. Siamo fuori dal carcere, nel territorio delle procedure di giustizia, dove viene anticipato, e non di rado sostituito, il trattamento penitenziario. Il processo è già pena:
«Chiunque abbia avuto contatto con chi è sottoposto a un processo penale (a maggior ragione se la persona è detenuta) sa bene che la sua sofferenza ha inizio già nella primissima fase, quando ha notizia dell'accusa a suo carico, e poi aumenta via via fino all'esecuzione della sanzione. Questa formula, il processo come pena, ha avuto il merito di richiamare l'attenzione sul fatto che il processo è fonte di sofferenza e spesso, quindi, è fonte di malattia».

Siamo ai confini del "carcere immateriale" che, nella forma di assaggio di sofferenza, compie il proprio mandato tramite alcune sue componenti: eppure i simboli, i luoghi e le persone del giudiziario si sono limitati a fare una preliminare irruzione nell'esistenza di un individuo, rivolgendosi a lui dalla distanza. Paradossalmente, il semplice procedimento giudiziario crea ancor più danno della pena nella sua fase esecutiva. Il condannato almeno non è costretto a sommare la sofferenza materiale vissuta con l'incognita della sofferenza che lo aspetta. L'imputato, anche in libertà, è consapevole di dipendere totalmente da un altro uomo: il suo futuro è nelle mani di chi può anche valutarlo con pregiudizio, può giudicarlo sulla base di dati superficiali, apparenti, influenzato dal suo mondo di valori, dalla sua origine o dalla malintesa missione di trasmettere senso alla vita altrui.
E' tipico quel fenomeno di: «personalizzazione del rapporto imputato-giudice, per cui l'imputato si sente "perseguitato" da quello specifico giudice».

Questo atteggiamento, molto comune, è conseguenza della mancanza di strumenti di controllo sull'attività della corte. Nell'arco dell'intera vicenda processuale, le corti possono essere responsabili di non pochi danni nei confronti di chi è esposto al giudizio. Vi è da chiedersi se non si configurino ipotesi di responsabilità per le malattie che derivano dal processo penale. E' quanto suggerisce lo stesso Pecorella, che configura il reato di "lesioni colpose" per quei giudici che non scelgono gli strumenti minimi, da una parte, per garantire le esigenze del processo, dall'altra, per prevenire la lesione di beni primari: l'integrità, la vita. In quanto giudici, dovranno rispondere delle conseguenze di malattie del corpo e della mente che dovessero insorgere.
Secondo Pecorella è necessario che si faccia uso della strumentazione normativa già prevista dal codice penale: «delle disposizioni che puniscono l'omicidio colposo e i maltrattamenti di persone sottoposte all'autorità altrui. Sono norme che richiamano altri aspetti della vita quotidiana (l'infortunistica nel lavoro, la responsabilità per il trattamento medico-chirurgico eccetera) ma che, cionondimeno, possono trovare applicazione anche nel rapporto giudice-imputato. Il provocare una malattia, sia pure attraverso strumenti in sé legittimi, com'è il processo penale, costituisce - quando ricorrano i presupposti - una colpa, e quindi dà luogo ad una responsabilità di natura anzitutto penale e quindi, in via accessoria, civile».

Si potrebbero perseguire i giudici, certo, ma sarebbe una soluzione a posteriori. Come ridurre invece, o abolire la sofferenza legale prima che questa venga inflitta? Si potrebbero prefigurare misure di "rammendo": sanare i guasti provocati, risarcire in termini di terapia o di benefici sociali le persone danneggiate dal sistema della giustizia. Cliniche ad hoc che curino le specifiche malattie professionali di individui sottoposti a processo penale o colpiti dalla pena detentiva.
Può sembrare una proposta bizzarra, ma in una versione particolare è stata già praticata relativamente a persone che hanno subito torture in diverse parti del mondo. A Copenhagen, a pochi minuti dal centro città, è in funzione il "Rehabilitation Centre for Torture Victims", dove si cerca di ricomporre l'unità corpo-mente in chi ha avuto l'esperienza della tortura. Un centinaio di fisio e psico-terapeuti cerca di restituire innanzitutto un corpo ai propri pazienti:
«Quasi sempre le vittime, per sopportare il dolore, hanno dovuto negare l'esistenza del proprio corpo».

Alcuni pazienti, alla richiesta di rilassare i muscoli, reagiscono sopprimendo completamente ogni capacità di avvertire sensazioni fisiche. Si tratta dello stesso espediente che avevano già adottato in carcere per resistere agli aguzzini, espediente che nel Centro di riabilitazione finisce per ostacolare ogni terapia:
«E' stato molto difficile restituire a quegli uomini il senso di possedere un corpo. Di volerlo toccare. Di volerne sentire le reazioni»

Non deve suonare strambo se un capitolo sugli effetti del carcere viene concluso con alcuni cenni sulla tortura. Quest'ultima non ha come semplice oggetto il corpo, ma usa il corpo come tramite materiale che conduce alla distruzione della psiche. Non ha come obiettivo quello di costringere il detenuto alla confessione, ma quello di annichilirlo, negarne sensibilità e qualità umane. La tortura rappresenta una forma di antiterapia: mira a spezzare l'unità della persona. Ma come mai non suscita poi tanta indignazione? Forse perché viene avvertita come una pratica ortodossa in un mondo dove manipolazione, correzionalità di massa e "terapia per normali" costituiscono prassi quotidiana. Non viviamo nell'era che ha sostituito il maquillage con la protesi, nell'era della chirurgia estetica, della manipolazione dell'aspetto, dell'intelligenza, dei geni? Distruzione e manipolazione stanno a tortura e carcere come in una equazione a variabili incrociate.
Il carcere, nella migliore delle ipotesi è "chirurgia morale" che, nelle parole di Nietzsche, non può migliorare l'uomo, può ammansirlo; ci sarebbe da temere se rendesse vendicativi, malvagi, «ma fortunatamente il più delle volte rende stupidi».

Lévi-Strauss, nel classificare i diversi principi ispiratori della "sanzione", considera da un lato le società che ingeriscono il corpo del deviante, dall'altro quelle che lo espellono, lo vomitano. Nel nostro contesto non vi è né "antropofagia" né il suo contrario, "antropoemia", ma ortopedia, correzione del corpo e della mente attraverso la loro separazione. Gli operatori dell'istituto di Copenhagen ne sono consapevoli: compiono un lavoro di restauro, cercando di riunire con la dolcezza le due entità separate dall'afflizione.

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