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Dei dolori e delle pene 10.
Una nota personale

Il lettore si sarà reso conto che, pur dichiarandomi abolizionista, ho citato uno scarno materiale di pochi autori abolizionisti. Le altre citazioni, poi, hanno spesso un carattere che potrà apparire disparato agli occhi di uno studioso di professione. E' difficile procurarsi in carcere una seria bibliografia. Alla fine si finisce per leggere i libri che ci piacciono fra quelli che ci capitano. Chi dal carcere volesse presentare uno studio da professionista, cioè un lavoro sociologico di "secondo grado" che rielabori il materiale fornito dal "profano", dovrebbe aspettare molti anni questo o quel testo e perciò alla fine dovrebbe rinunciarvi se è dotato di buon senso. C'è chi si iscrive alle università: ma per iscriversi ci vogliono soldi, una cultura di base riconosciuta da diplomi, e il tutto per fare poi - almeno in parte - quel che richiede un'impostazione accademica. Non avendo titoli né soldi né tempo da perdere, non mi sono disperato per tutto questo; anzi, diciamo pure che nella mia mente ho trasformato la necessità in virtù, considerando la mia condizione un privilegio per offrire un saggio di sociologia "profana" (cioè di primo grado) che, al tempo stesso, non si privasse del piacere di compiere delle riflessioni più generali, di solito riservate agli studiosi di secondo grado. Diciannove anni trascorsi in cella sono in fondo un materiale sul quale vale la pena riflettere, ed è questo il libro non citato al quale ho attinto di più. Se non altro come terapia per continuare a sopportare gli anni che ancora dovrò trascorrere da recluso.
D'altra parte anche lo studioso di professione incontrerà difficoltà insormontabili quando vorrà avvicinarsi al carcere. Da qui proviene soprattutto silenzio. Ogni testimonianza è inevitabilmente una denuncia e la denuncia espone a rischi. Mancheranno perciò molte testimonianze, e quelle che ci saranno potranno essere spesso mezze verità, perfino a volte menzogne per difendere l'anonimato. Può dunque essere utile che un detenuto faccia delle considerazioni sociologiche sulla propria situazione invece di fornire le solite memorie personali (inevitabilmente autocensurate, magari piene di taciuti giorni) se si vuole uscire da una condizione in cui il non-dialogo tra l'interessato e l'esperto è la norma.

Ci sono infine in queste pagine dei limiti voluti. Non ho voluto rispondere in modo organico ad alcune affermazioni che considero dei luoghi comuni.
1. L'omosessualità. Si dice spesso che il carcere è pieno d'omosessuali dato che non ci possono essere rapporti fra i due sessi. E' la tesi di tutti coloro che più di tutti hanno interiorizzato il sistema penale, il cui sottofondo misogino si rivela parecchio proprio in questo luogo comune. Per costoro evidentemente il rapporto uomo-donna è un fatto senza ragioni particolari, l'essenziale è "trovare un buco". Mi sono rifiutato di confutare una simile tesi, che risulta offensiva per tutti, eterossessuali e omosessuali.
2. La gravità dell'omicidio. Il sostenitore democratico della pena spiega che essa è inevitabile di fronte a un fatto grave e dalle conseguenze irreversibili qual è l'omicidio. Questo luogo comune, nell'ambito della storia del sistema penale è una falsità assoluta quasi dalla notte dei tempi. Da quando poi esiste la proprietà privata, il reato più grave è sempre stato di fatto quello contro il patrimonio. E da quando esiste il pentitismo il reato più grave è la non-contrattazione della coscienza. Non contano più i fatti, ma le opinioni, come ho cercato di dimostrare in vari capitoli. Mentre scrivo queste righe (luglio 1996), un tale che ha confessato 100 omicidi non si sta facendo un solo giorno di prigione. Quindi tale questione è stata risolta con molta facilità, e da tempo, proprio dalla politica della pena e lo si potrebbe dimostrare con un volumone di esempi. Sarà perciò l'uscita dal sistema penale a ridare importanza al valore in sé della singola vita umana, a far sì che l'omicidio possa essere riconsiderato il dramma umano più intenso: l'istituto della pena lo ha semmai banalizzato.
3. L'ergastolo. Di questo luogo comune ho già brevemente accennato: si afferma che in Italia l'ergastolo non esiste più "realmente". Il fatto grave è che questa affermazione è spesso sostenuta da politici e giuristi che si proclamano progressisti, i quali la usano per giungere a una conclusione paradossale: dicono di essere contrari alla proposta di abolire l'ergastolo perché esso di fatto non esisterebbe... Si devono mettere d'accordo con se stessi: perché si agitano tanto per un problema che secondo loro non esiste? Perché non fanno un censimento delle persone recluse da ben più di 20 anni? Mentre in Germania se ne fanno 15, in Francia 19, nei paesi scandinavi non parliamone... L'incoerente ragionamento serve a difendere l'ergastolo e le pene lunghissime senza dirlo esplicitamente. L'attuale ministro della giustizia Flick, per esempio, si è detto contrario a un indulto "generale" a favore dei detenuti per fatti di lotta armata. In realtà la stragrande maggioranza dei detenuti per quei reati è uscita di prigione da molti anni, spesso con sconti di pena "vergognosi". La realtà dunque è che il ministro, anche se non lo dice, non ha invece nulla in contrario a che scontino la pena fino all'annientamento coloro che non intendono contrattare le loro idee per ragioni etiche. Viceversa bisognerà sostenere con forza che certe lunghe pene sono particolarmente assurde sempre, qualunque reato si sia compiuto, anche il più abietto, e che i cambiamenti d'idea avranno tanto più valore quanto meno avranno a che fare con ragioni interessate.
L'ultimo limite di questo lavoro è assoluto, una carenza alla quale non posso rimediare: non vi si parla in modo specifico della detenzione femminile.




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NOTA E PERCORSO DI LETTURA DEL CURATORE


Fu nel 1986 che ebbi per la prima volta l'occasione d'incontrare Vincenzo Guagliardo nel carcere di Rebibbia.
Ci eravamo conosciuti attraverso uno scambio epistolare, in occasione della pubblicazione dei materiali del primo seminario di studio fatto a distanza, con alcuni prigionieri delle Brigate rosse, realizzato dal corso di Sociologia dell'Università di Lecce, cui Vincenzo Guagliardo aveva aderito con un suo contributo (R. Curcio, 1986). Da quel momento con Vincenzo si è conservato e rafforzato, nonostante il carcere e la distanza, un affettuoso rapporto di amicizia.
Nel 1987 dopo l'autorizzazione dei primi colloqui, quando Vincenzo mi chiese di essere suo testimone al matrimonio con Nadia, celebrato nel carcere di Rebibbia, senza una plausibile ragione fu revocata l'autorizzazione e non potei più essere presente e testimoniare. Da quel momento le autorizzazioni ai colloqui sono state concesse e revocate più volte senza motivazioni in qualche modo individuabili.
In un certo senso in questi anni mi sono trovato Dall'altra parte (P. Gallinari - L. Santilli, 1995), in quella soglia tra dentro e fuori delle carceri, nelle sale-colloqui, dove spesso si manifesta ed allo stesso tempo si consuma e si lenisce la sofferenza dei parenti dei prigionieri.
P. Gallinari e L. Santilli narrano il dolore, le peripezie, i problemi delle donne dei prigionieri: mogli, madri, sorelle.
In questi anni ho osservato e toccato da vicino questa soglia del dolore delle sale-colloqui di cui qui non parlerò, come eviterò qualsiasi riferimento alla mia personale esperienza di amico dall'altra parte.
Ho seguito il lavoro di Vincenzo Guagliardo con attenzione ed interesse e devo dire che mi è stato molto utile e di grande insegnamento non solo per le questioni relative ai problemi del carcere e della detenzione.
Devo ringraziare qui Elvira Gerosa, Pierfelice Bertuzzi (operatori volontari al carcere di Opera) e Rosella Simone che hanno in vari modi agevolato le scarse possibilità di comunicazione tra me e Vincenzo e Nadia.

Dei dolori e delle pene fu presentato pubblicamente in occasione di un convegno organizzato a Milano il 4 aprile 1995 dall'Associazione Enzo Tortora.
Abolire il carcere: un'utopia concreta, fu questo il titolo scelto dagli organizzatori, in omaggio a E. Bloch e alla presenza del prof. Louk Hulsman, uno dei padri fondatori delle dottrine abolizioniste in Europa.
Gli atti di quel convegno, animato da Giorgio Inzani, sono stati interamente pubblicati su un opuscolo, Dalle patrie galere, supplemento a "Notizie radicali" del 5 marzo 1997.
L'opuscolo ha avuto una circolazione limitatissima, per lo più circoscritta all'ambiente carcerario ed in particolare tra i prigionieri.
Non mi soffermo sull'utilità di quell'iniziativa se non per dire che la lettura degli atti del convegno offre uno spaccato chiaro ed esaustivo non solo ed ovviamente dei diversi punti di vista dei partecipanti, ma anche dello "stato del dibattito" nel movimento abolizionista e riduzionista, tra una vasta gamma di soggetti sociali professionali (docenti universitari, giudici, avvocati, giornalisti, operatori, eccetera) e collettivi (associazioni, redazioni di riviste, volontariato, eccetera) e naturalmente alcuni prigionieri di diversa provenienza politica e "comuni".
Il saggio-relazione presentato dal prof. Hulsman La questione abolizionista, politiche penali alternative, è citato da Vincenzo Guagliardo col suo titolo originale The abolitionist case: alternative crime policies comparso nella "Israel law review" nell'estate 1991.
L'abolizionismo in generale e quello di Hulsman in particolare s'inquadrano perfettamente, a me sembra, in quelle correnti e teorie sociologiche che hanno contribuito a smantellare il positivismo, anche in questo settore di ricerche e di studi: l'interazionismo simbolico, il labelling approach, l'etnometodologia, il costruttivismo sociologico, l'analisi istituzionale, le teorie critiche, quelle sistemiche, per citare quelle più note.
Bisogna ricordare qui che anche i cosiddetti riduzionisti, orientati verso l'idea di un "diritto penale minimo", su cui da quasi un ventennio si discute, si riflette, si elaborano strategie... sono orientati in senso antipositivista.
E' comunque sorprendente constatare che, a distanza di tempo dalla scomparsa di Bertrand Russel e delle sue battaglie civili, anche tra i neopositivisti logici si fa strada un orientamento abolizionista (Carlo Dalla Pozza, comunicazione personale) che Gerlinda Smaus (1985) definiva di "rigorismo logico" contrapposto a quello etico.
La rivista "Dei delitti e delle pene" nel corso di questi anni ha dato un'importante contributo al confronto ed alla elaborazione teorica tra riduzionisti ed abolizionisti della giustizia penale.
Per tutto ciò non posso che rimandare all'insieme delle sue pubblicazioni, mentre per una mia breve riflessione farò invece riferimento a due numeri in particolare: il primo, a cura di M. Palma (1992), raccoglie gli atti di un convegno per l'abolizione dell'ergastolo dal titolo Fine pena mai; il secondo, a cura di A. Baratta (1985), contiene numerosi saggi di autori vari sotto il titolo Il diritto penale minimo - La questione criminale tra riduzionismo e abolizionismo.


Insistendo sull'abolizione dell'ergastolo.

Il prof. Ettore Gallo, Presidente emerito della Corte Costituzionale, nella sede del convegno sull'abolizione del carcere, indicò tutte le ragioni dell'incompatibilità dell'ergastolo con i principi costituzionali riferendoli in particolare agli articoli 3, primo comma e 27, primo e terzo comma e concludeva constatando che quella pena in ogni caso "...è tuttora una pena perpetua. La possibilità per il condannato di ottenere che la pena si riduca di fatto a temporanea, se egli collaborerà alla sua risocializzazione sottoponendosi a regime educativo, rimane sempre un istituto premiale".
Meraviglia che l'illustre giurista consideri, immediatamente dopo queste osservazioni, che "determinate specie delinquenziali soffrano quel trattamento come una violenza, come un condizionamento ricattatorio, perché hanno ormai ispirato la loro condotta di vita ad un super-io criminale ed avvertono la società legale dello Stato di diritto come nemica...". Da tutto ciò e per il fatto che taluni pur sottoponendosi a trattamento rieducativo, "falliscono nel tentativo" e siccome inoltre si vive una permanente condizione emergenziale, "in un tempo critico di dilagante criminalità organizzata come l'attuale..." il Presidente Gallo prevedeva ed auspicava anche una conservazione dell'ergastolo, come pena "temporanea e nominalista, in funzione del notevole impatto psicologico, come deterrente sulla collettività...".
Sono numerose le obiezioni possibili e le considerazioni critiche elaborate in merito e da tempo da un vastissimo settore di ricercatori e studiosi della giustizia penale.
E' auspicabile che anche questo libro di Vincenzo Guagliardo agevoli uno sguardo differente ed un ripensamento in quanti condividono una posizione ed una soluzione simile e c'è da augurarsi che lo stesso autorevole ed illustre costituzionalista cambi idea, almeno per ciò che riguarda il suo giudizio o pregiudizio così netto ed omologante su quanti, ergastolani, soffrono il trattamento premiale, considerandolo una violenza ricattatoria inaccettabile alla coscienza.
Gli ergastolani non sono tutti uguali e quei pochi che praticano e "pagano" con una dolorosa e paradossale obiezione di coscienza, non hanno motivazioni identiche, qualcuno fa obiezione, forse, anche perché si capisca in quale via senza sbocco si è inoltrata l'ideologia della giustizia penale con il premialismo e la sua naturale conseguenza: l'incredibile e sempre più incalzante dismisura del pentitismo e della sua messa in scena come tragicommedia, da Marino del caso Sofri a quello del palermitano Di Maggio.
Sia questo libro che gli altri lavori di Vincenzo Guagliardo (1991, 1994) mostrano quanto difficilmente si potrebbe inquadrare la sua personale condotta di vita, ma anche quella di sua moglie Nadia e di altri prigionieri nella sensibilità coatta di quel "Super-io criminale" cui l'Autore allude.
C'è da credere invece che, proprio chi fa obiezione alla Gozzini mostri una tale attenzione etica ai principi, un rifiuto così categorico di un uso strumentale-individuale della normativa giuridica premiale che, anche intuitivamente, è difficile assimilarne l'orientamento di vita come ispirato da quel Super-io criminale come configurato ed alluso nella relazione del prof. Ettore Gallo.
Chi pratica l'obiezione di coscienza alla Gozzini elaborandola, motivandola, argomentandola con ragioni vaste e profonde, chi si espone con assunzioni di responsabilità esplicite e differenziate rispetto al passato, al presente ed al futuro, e lo fa in condizioni di prigionia, così contrarie alla libertà di parola, non può essere liquidato con queste argomentazioni.
La prospettiva di un indulto, su cui si discute da oltre un decennio, dovrebbe necessariamente tener conto di questa delicatissima situazione, considerandola, anche simbolicamente, infinitamente più significativa della firma per una soluzione individuale, garantendo a tutti ciò che l'on. Pajetta raccomandava e che giustamente Vincenzo Guagliardo ricorda: un trattamento ed un rispetto delle coscienze che ebbero anche i fascisti nei confronti dei loro prigionieri politici.
Tutto ciò si fa disgustosa sproporzione se appena comparato al trattamento riservato ai pentiti, alle macerie della civiltà giuridica emerse con la loro produzione e comparsa di massa, al disastro nell'immaginario collettivo che presiede ed orienta l'elaborazione di valori etici e di forme di vita nei cosiddetti mondi vitali.
Furono comunque pochi in quel convegno, nel 1992, ad assumere un orientamento come quello del prof. Ettore Gallo. Per la maggior parte degli interventi l'ergastolo e le istituzioni che ne permettono la sopravvivenza, nonché la cultura e la mentalità di chi lo sostiene, sono criticati aspramente per la massa di contraddizioni, paradossi, pregiudizi che lo fondano e che, per esempio, il prof. Eligio Resta descrive come "la pretesa di definire passato e futuro, di rendere le vite immutabili, di consegnarle per sempre ad una fissità che non concede speranze".
Nel rapporto tra sistema penale e sistema politico E. Resta mette in rilievo come "il consenso sulla legge penale sia stato direttamente trasformato in consenso al sistema politico e quando e perché tutto ciò abbia finito per essere una costante della storia recente".
Questioni di consenso, come titola il suo contributo, fanno sì che la sentenza di un giudice si configuri sempre più soltanto come "l'ultima parola sulla vendetta".
E' interessante anche la "morale giuridica" che Italo Mereu trae dalla storia dell'ergastolo. "Fingendo d'andare avanti - egli dice - si è andati parecchio indietro, per rendere compatibile l'ergastolo con i principi della Costituzione, per fingere di adeguarci, di eliminare l'ergastolo, lo abbiamo dovuto trasformare così come lo concepiva la Chiesa: abbiamo tolto la fissità della pena. La Chiesa quando condannava all'ergastolo lasciava la persona in carcere a sua completa disposizione. Così è oggi - continua Mereu: la libertà di un ergastolano dipende dal giudice di sorveglianza e, prima ancora, dal personale di custodia che è quello che 'vede e fa'. Per poter costituzionalizzare l'ergastolo, dalle pene fisse ideate dall'illuminismo siamo tornati alla pena arbitraria dell'inquisizione".


Dallo Stato di polizia alla sua spettacolarizzazione giudiziaria

Oltre quindici anni fa Luigi Ferrajoli (1984) in un suo saggio fece una previsione, quasi una profezia, scrivendo che: "La rottura emergenziale produrrà un guasto culturale prima che istituzionale che non basteranno nuove leggi a risanare". Questa fu, più o meno, ed a volerla sintetizzare, la posizione comune di garantisti, riduzionisti e abolizionisti.
A distanza di anni sembra che il problema dell'emergenza penale sia rimasto in un certo senso prioritario ma che si è anche concluso quel processo che avrebbe portato, secondo Ferrajoli, alla "perdita del senso della differenza tra normalità ed eccezionalità".
Questa Crisi della giurisdizione si snodava, per Ferrajoli, in due fasi, la prima avviata nel 1974 (Legge Reale) era indicata come quella in cui numerose funzioni proprie della magistratura venivano sussunte dalla polizia e contribuivano allo sviluppo della "vecchia tradizione poliziesca dello Stato italiano". La seconda fase (1979 Legge Cossiga - 1982 Legge sui pentiti) inverte la tendenza e, in breve, numerose funzioni di polizia vengono assorbite dalla magistratura che viene legittimata ad utilizzare direttamente - dice Ferrajoli - "mansioni e strumenti investigativi che eravamo abituati a vedere - e talora a deplorare - nella polizia". Si arriva così a "trasformare la funzione giudiziaria in funzione poliziesca".
Come previsto dallo stesso autore, un ritorno alla normalità non c'è stato, anzi, a parere di molti le funzioni giudiziarie si sono sempre più "allargate" fino a comprenderne numerose di quelle politiche. Oggi possiamo immaginare d'indicare una terza fase, che potrebbe coincidere con l'avvio di "mani pulite" e la sua esaltazione spettacolare e giustizialista. La vicenda del Sen. A. Di Pietro, forse suo malgrado, simboleggia questo percorso, fino a configurare con la recente convocazione elettorale nel Mugello, la vittoria programmata ed incarnata del "partito dei giudici".
E' lecito chiedersi, come ha fatto Giuseppe De Matteis del Sindacato di Polizia (Siulp 1997), cosa accade e accadrà con il post "mani pulite". C'è da prevedere che si accentui l'intreccio tra la politica giudiziaria, la politica dei partiti in senso stretto, cioè la politica del consenso, e l'universo spettacolare massmediato, in cui "anche il pubblico ha un suo ruolo".
E' significativo che anche un dirigente sindacale della P.S. mostri la preoccupazione che "la politica giudiziaria e tutte le sue espressioni, compreso gli ordini di custodia, si esercitino più sul consenso popolare che sulla legge... si manderà in galera per acclamazione, anche se la galera non è necessaria..."

Il fatto è che non si tratta solo di segnalare e criticare, magari in modo colorito, ironico ed anche efficace le bizzarrie giudiziarie più spettacolari e recenti dovute al protagonismo di magistrati e pubblici ministeri, non è stato e non sarà sufficiente invocare il codice deontologico del magistrato e l'obbligo del segreto istruttorio, non sarà la buona volontà di singoli magistrati, come suggerisce ed auspica G. De Matteis, a modificare la situazione.
L'identificazione tra consenso alla giustizia penale e quello ai partiti politici è ormai in Italia quasi un dato strutturale e la giustizia-spettacolo ne è l'articolazione più funzionale. La cosiddetta "seconda repubblica" è nata d'altronde proprio con caratteristiche giudiziario-spettacolari e premiali.
La via più ragionevolmente percorribile, in Italia come altrove, dove la crisi della giustizia penale si mostra sotto altri aspetti, è quella di un vasto e profondo processo di depenalizzazione nella società e nel suo immaginario.
Non è un caso, per esempio, che anche in Germania, nel 1996, un gruppo di dirigenti della polizia di vari Land, abbia elaborato, sottoscritto ed inviato al Cancelliere Kohl un documento in cui si proponeva come soluzione a numerosi problemi relativi alla sicurezza ed all'ordine pubblico, la depenalizzazione dell'uso delle sostanze psicoattive. La spettacolare ipertrofia penalistica della società pone più problemi di quanti (ma quali?) ne risolva.


Tra riduzionismo ed abolizionismo

E' da tempo che si è sviluppata una riflessione sull'orizzonte teorico-pratico delle due dottrine, sui loro spazi comuni e sulle loro idiosincrasie.
In Italia questa discussione fu affrontata dalla rivista "Dei delitti e delle pene" nel 1985, con la pubblicazione della raccolta di saggi, già citati, dal titolo Il diritto penale minimo (A. Baratta 1985).
Questo testo, segnalatomi da M. Strazzeri che per questo qui ringrazio, è ancora oggi, credo, ampiamente esaustivo dell'elaborazione teorica, delle prospettive pratiche e della discussione tra abolizionisti e riduzionisti, argomento di cui si presentava già una bibliografia di cinquanta titoli (E. G. Mendez 1985).
Per ricollegare, anche simbolicamente, Dei dolori e delle pene a quella prima fase di discussione ed alla sua ricchezza, ho riproposto come una citazione, la stessa misteriosa immagine di copertina utilizzata per la pubblicazione della edizione ESI (Editrice Scientifica Italiana).
Massimo Pavarini (1985) nel suo saggio critica aspramente la teoria abolizionista come portatrice dei "segreti di Pulcinella, verità da tempo acquisite dalla scienza penale e criminologica...".
Dice anche che il pensiero abolizionista, sorretto soprattutto dalla dimensione etica "può essere avvicinato a quell'opera di ben altro e non comparabile peso politico-culturale, che è Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria".
Dice ancora, e non mi sembra poco, che l'efficacia dell'abolizionismo si manifesta soprattutto "nella diffusione della consapevolezza che ciò di cui dobbiamo temere, e quindi difenderci, è ben più il sistema della giustizia penale che la criminalità, opera culturalmente e politicamente meritoria".
In definitiva, suggerisce Massimo Pavarini, bisogna "'far buon uso' delle teorie abolizioniste, senza per questo essere convinti abolizionisti".
Nelle pagine di Vincenzo Guagliardo si avanza lo stesso auspicio: far buon uso delle teorie riduzioniste senza per questo smettere di essere abolizionisti, imparando a resistere al diritto penale ed anche ad andare oltre.
C'è dunque uno spazio comune, come è evidente in tutti i saggi raccolti in quel volume.
Il lavoro di Gerlinda Smaus (1985) presenta le correnti abolizioniste ed i modelli di società che sono - diceva - da esse "elaborate solo implicitamente, mentre di fatto sono questi impliciti che rendono possibile l'elaborazione di una loro distinzione ed identificazione".
Non voglio qui entrare nel merito di questa impostazione che naturalmente va bene anche per le dottrine riduzioniste, quanto piuttosto indicare le quattro correnti individuate dall'autrice, cui essa ne aggiunge una quinta: "...quella che pone a suo fondamento l'opposizione elaborata da Jurgen Habermas tra sistema e lebenswelt".
Le altre sono: 1) il rigorismo morale di Nils Christie; 2) il movimento antistatalista di Louk Hulsman (small is beautiful); 3) la posizione di Thomas Mathiesen, orientata verso i rapporti di classe nella società e le loro manifestazioni nelle ineguaglianze materiali e nella differente distribuzione del potere (due dei tre media sistemici di N. Luhman, essendo l'altro l'amore); 4) e the last but not the least, il Committee on decriminalization del Council of Europe di Strasburgo. Un orientamento che l'autrice definisce tecnocratico: "un discorso razionale sull'utilità e sui costi del diritto penale in quanto costituente solo una parte del controllo sociale, riconoscendone la sussidiarietà ed approvando i diritti umani".
Dei dolori e delle pene è un prodotto anomalo, che esubera la possibilità di essere contenuto in una sola di queste correnti, pur attraversandole tutte. Ciò mi ha fatto pensare che i lavori dei prigionieri, a partire da quello di Vincenzo Guagliardo, potrebbero inquadrarsi in una sesta corrente, di grande interesse per la ricerca scientifica in generale e criminologica.
L'autrice comunque, dichiarando tutta la sua simpatia per L. Hulsman abbozza una proposta habermasiana (che spiega abbastanza bene questa simpatia) per la quale "il sistema non deve avere il diritto di sanzionare i mondi vitali [...] ma che sia invece il mondo vitale a determinare una soluzione adeguata ai conflitti".
E' su questa adeguatezza delle soluzioni al conflitto (che in questo senso viene "liberato", come d'altronde la comunicazione, non rimossi con la penalizzazione e la reclusione), che si sforzano di dare risposte il recente, già citato saggio di L. Hulsman, e Vincenzo Guagliardo, che mostra una maggiore attenzione all'azione, ai limiti, ai paradossi dei movimenti sociali ed alla loro politica.
Ciò che descrive L. Hulsman sono tre casi esemplari di soluzioni alternative a quella del diritto penale, tre differenti soluzioni che vengono così presentate:

1) Lo studio di un caso d'azione collettiva di risarcimento da parte di coloro che vi erano direttamente coinvolti;
2) Alcuni risultati di una ricerca empirica sull'uso della legge civile da parte di donne che si sentono vittimizzate dalla violenza sessuale;
3) Alcuni risultati di una ricerca-azione come mezzo per sostenere il coinvolgimento della comunità nell'affrontare le situazioni problematiche penalizzabili.

Non insisterò qui nella descrizione di questi casi, vorrei piuttosto sottolineare che l'obiettivo dichiarato di L. Hulsman è quello di offrire "uno schema concettuale per contestualizzare le alternative alla giustizia penale piuttosto che modelli fissi di alternative oppure un qualche inventario di sviluppi per delle alternative".
Le sollecitazioni metodologiche che ne derivano sono innumerevoli ed estremamente interessanti in relazione allo sviluppo dell'analisi istituzionale francese, all'ethnosociologie di G. Lapassade ricordata e messa in campo da Vincenzo Guagliardo e a La clé des champs - Une introduction à l'analyse institutionnelle, un recente lavoro di R. Lourau (1997), che, nella versione definitiva, appena giuntami, Vincenzo Guagliardo ancora non conosce. Gli inviai invece, subito dopo aver letto Dei dolori e delle pene, un libro del Prof. A. L'Abate (1990) dal titolo Consenso, conflitto, mutamento sociale: introduzione ad una sociologia della non violenza.
Non è il caso d'affrontare qui questi temi, che mi porterebbero lontano e soprattutto ritarderebbero in modo per me ormai insopportabile la pubblicazione di Dei dolori e delle pene. Voglio qui semplicemente rilevare che lo spazio d'elaborazione e di proposta di questi lavori è molto affine al "modello" anzi e meglio, agli "schemi concettuali" proposti da L. Hulsman. Non è un caso che questi lavori presentino tutti un interesse privilegiato per i problemi epistemologici relativi alla nozione di "campo" e di "ricerca-azione" (K. Lewin).
Per A. L'Abate si tratta di passare da una sociologia analitico-descrittiva ad una sociologia del "quasi esperimento" in cui collegare conoscenza ed azione, teorie e prassi per realizzare quella/e "realtà-potenziali" (Galtung) così simili all'utopia concreta di E. Bloch che fa da sfondo all'idea dell'abolizione del diritto penale e che Vincenzo Guagliardo ricorda: "un principio speranza che guidi il nostro presente".
In definitiva una prospettiva sociologica in cui l'osservatore, dice R. Lourau (1997), non è più "autorizzato ad affacciarsi alla finestra per contemplare, totalmente quieto, la fanfara o la processione del divenire...".
I contributi all'abolizionismo delle istituzioni totali che vengono dai prigionieri, il nucleo conoscitivo e scientifico che dispiegano, è centrale se riferito allo spostamento dello sguardo: da quello delle politiche del controllo sociale, cui è predisposto "l'occhio braminico" dei penalisti e dei criminologi, come ironicamente diceva della loro conoscenza M. Pavarini (1995) a quello dell'esperienza vissuta della pena-dolore.
Da qui si accede a conoscenze precluse al ricercatore, per quanto "osservativo, partecipante o braminico" possa essere.
Gran parte del lavoro di Sensibili alle foglie è caratterizzato da una finalità: dar voce alle esperienze limite, quelle più profonde e straordinarie della coscienza dei reclusi nelle istituzioni totali, alla loro afflizione, ma anche alle risorse vitali che debbono attivare e mettere in campo, per sopravvivere (R. Curcio 1986 - 1991 - 1994 - 1997).
Dei dolori e delle pene concorre, insieme al variegato lavoro di numerosi prigionieri ad aprire all'attività della ricerca scientifica le porte di questa conoscenza.
Ho voluto qui presentare anche per ragioni "didattiche" un mio breve percorso di letture e di riflessioni, rimandando forse ad altra occasione un approfondimento dei temi affrontati e che in definitiva riguardano tutti, per dirla con A. Baratta (1985) "i principi metodologici della costruzione alternativa dei conflitti e dei problemi sociali (che) implicano l'idea di una liberazione dell'immaginazione sociologica e politica nei confronti di una cultura del penale che ha ampiamente colonizzato la maniera di percepire e costruire i conflitti e i problemi sociali nella società".
Se questa rappresenta una dimensione globale, la mia dimensione locale, d'implicazione anche generazionale, oltre che esistenziale, mi porta a dire che la mia più grande amarezza è relativa al fatto che né io, né altri, abbiamo saputo liberare in Italia e nell'ultimo decennio, un'immaginazione sociologica e politica tale da dare una adeguata soluzione (almeno l'indulto) al conflitto degli anni 70. Non abbiamo saputo trovare neppure la strada e lo spazio, tra la legge Gozzini e l'obiezione di coscienza, per rendere possibile e più consona ai principi elementari dei diritti umani, la liberazione, anche parziale, di quei pochi prigionieri che per salvaguardare "principi generali", che interessano tutti, hanno pagato e pagano sulla loro pelle, con una dura e continuativa detenzione.
Non abbiamo saputo garantire "al diritto penale un minimo" di decenza.

Pietro Fumarola
Lecce, 20 novembre 1997

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