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Dei dolori e delle pene 6.
Dolore e memoria

83. Sistema politico, storiografia ufficiale e sistema penale concordano in un punto: per violentare la soggettività bisogna appiattire il significato iniziale di un'esperienza sul suo risultato finale. Bisogna ignorare le intenzioni di chi ha compiuto un determinato atto, valutarlo "oggettivamente". In tal modo si occulta quel che avviene, in mezzo, sulle intenzioni delle persone. Si occulta proprio il sistema penale.
E' stata allora una positiva novità che il presidente della Camera Violante, aprendo il nuovo Parlamento eletto nel '96, abbia implicitamente riconosciuto l'idealismo delle intenzioni dei "ragazzi e delle ragazze" della repubblica fascista di Salò. Per molto tempo, il mito di una Resistenza ritualizzata, magari elaborato da antifascisti dell'ultima ora, aveva astratto quell'esperienza demonizzandola, col risultato di non far troppo riflettere sugli anni precedenti, gli anni del regime, su cui ovviamente molti "antifascisti" avrebbero dovuto scoprire e ricordare la scomoda verità che anch'essi facevano gli osanna al regime. Il fascismo fu un fenomeno caratterizzato dalla partecipazione di larghe masse, diceva Reich... Affrontare il passato in questo modo porta a rimuovere le memorie reali, a sorvolare sulle "connessioni" per isolare il fenomeno considerato, ignorando zone grige e opportunismi, e soprattutto le ragioni "da capire": quelle per le quali nacque il fenomeno, per quanto scomodo sia riconoscerlo. Il risultato di tale superficialità è che, secondo alcuni, ben scarsi furono i mutamenti di sostanza intercorsi nel passaggio dal regime fascista al regime democratico. Tant'è che spesso, in alto alla scala sociale, nel mondo degli affari e non solo, ci si ritrovò davanti agli stessi personaggi.
Oggi, dopo il crollo dei regimi burocratici del capitalismo di stato ad Est, va di moda interpretare tutta quell'esperienza come una mostruosità risalente alla stessa intenzione comunista, anche qui ignorando l'"ingenuità" e la genuinità (e l'attualità) delle speranze che mossero milioni di persone. Qualcuno parla della necessità di aprire un processo contro il comunismo simile a quello fatto ai nazisti a Norimberga. Magari a proporlo sono ex burocrati "comunisti". Invece di riconoscere che è meglio non fare mai processi come quello: si colpiscono alcuni sul piano giudiziario, per non dover riflettere sul tutto in sede politica e culturale.
La teoria della colpa non aiuta a cambiare idea, pretende assurdamente di rimuovere l'idea.
La coerenza dell'individuo all'interno del suo "sistema di valori", in relazione alla sua storia personale, è questione che non viene presa in considerazione sul momento, ma solo a posteriori; si premiano così ogni volta i conformismi e i trasformismi, il non-movimento dei falsi progressi. Resta a galla il burocrate, il campione del plus ça change, plus c'est la même chose. E alla base del suo successo c'è sempre la teoria della colpa per spiegare l'aspetto incongruo dell'evento umano.

84. Dalla fine degli anni '60 esiste un approccio sociologico, detto etnosociologia, che prova ad analizzare il micro-ambiente dell'esperienza individuale o del gruppo, l'aldiquà ignorato a priori dal sapere tradizionale, partendo invece dal presupposto - dice Georges Lapassade - che "prima dell'arrivo dei sociologi di professione il mondo sociale risulta già descritto dai propri membri". Dimostrando così facilmente la coerenza di comportamenti tradizionalmente considerati incongrui, questo approccio decolpevolizza l'esperienza senza ricorrere ai "buoni sentimenti" ma semplicemente perché mostra implicitamente delle soluzioni logiche, delle alternative razionali all'eventuale "problema". Esiste semmai, in questo approccio, al posto del pregiudizio sui sentimenti altrui una coscienza dei propri sentimenti e perciò un situarsi da "implicato" in chi lo pratica, ovvero - in questo senso - una sociologia "partigiana". L'abolizionismo dovrà seguire un metodo analogo: quanto più si comprende tanto meno si giudicherà; quanto meno si giudicherà tanto più si troveranno soluzioni reali riguardo all'evento insorto problematicamente. Ci sono questioni che non si possono affrontare in tribunale perché esso è tale proprio perché le deve ignorare a priori. Affrontare tali questioni rende meno necessario il ricorso ai tribunali anche per il "rimanente", cioè per quelle altre questioni di cui il tribunale pare esser l'unico a doversi occupare.

85. In fondo, il riduzionismo interpretativo della nostra attuale cultura, che trova nel sistema penale la sua massima espressione, nasce dal suo opposto: dall'assurda pretesa di poter affrontare subito ogni argomento con la parola, come se il già acquisito potesse già spiegare il tutto, non dovesse mai autoridefinirsi.
Fromm scrive in Avere o essere?:

"Le parole designano l'esperienza, ma non sono l'esperienza. Nel momento in cui mi provo a esprimere ciò che ho esperimentato esclusivamente in pensieri e parole, l'esperienza stessa va in fumo: si prosciuga, è morta, è diventata mera idea. Ne consegue che l'essere è indescrivibile in parole ed è comunicabile soltanto a patto che la mia esperienza venga condivisa. Nella struttura dell'avere, la parola regna sovrana; nella struttura dell'essere, il dominio spetta all'esperienza viva e inesprimibile".

Non è difficile capire la più "mostruosa" esperienza. Basta condividerla. Ché non vuol dire affatto approvare o ripetere lo stesso atto considerato mostruoso! E' sufficiente trovare sedi di dialogo che non siano finalizzate alla punizione. In carcere questo può succedere quotidianamente: persone molto diverse tra loro devono imparare a convivere piuttosto che giudicarsi a vicenda, pena una carneficina generale, il suicidio collettivo. Dove non si scelga il silenzio per non rinunciare a giudicare comunque gli altri dentro di sé, nasce la parola (il dialogo). Allora si potrà scoprire la giustezza e insieme il limite della succitata affermazione di Fromm. La parola non più sovrana è una parola libera. Non è dell'altro ("il giudice") su di noi per auto-reinterpretarci alla luce dei suoi giudizi, ma di noi stessi ("l'implicato") di fronte all'altro. La parola non sovrana riesce a liberare nuove zone dell'esperienza dall'inesprimibile, ci cambia dall'interno. La questione dell'"essere" potrebbe uscire dalle eterne nebbie della "filosofia" e andare a coincidere con l'esperienza; potrebbe diventare materia per la "biofilia" o, se si preferisce un'altra espressione, per la "biosofia". Dove c'è silenzio non c'è l'inesprimibilità metafisica del nostro essere ma il dolore, frutto delle censure stabilite dalla parola sovrana. Dove cessa il silenzio c'è una parola nuova perché libera, invece che vecchia perché sovrana.
E' possibile realizzare un'impresa del genere? Uscire dall'odiosa ipocrisia dei buoni sentimenti e sviluppare la logica rigorosa dell'"implicazione"?
E' possibile, per la prospettiva abolizionista, solo se affrontiamo il nesso oggi esistente fra coscienza e memoria nelle prigioni, nei processi.

86. Sotto il profilo che qui c'interessa, posso limitarmi a definire la memoria molto banalmente: è un aspetto della coscienza, la logica d'ognuno per collegare la realtà ai sentimenti attraverso l'ordine dato al ricordo degli eventi. La memoria seleziona il bagaglio della coscienza. Essendo in gran parte un'attività inconscia, è il caso di dire che spesso ci gioca brutti scherzi. La teoria della colpa, con le sue pratiche penalizzanti, sottopone la memoria reale dell'individuo a una costante opera di manipolazione, inducendo a una costante reinterpretazione dei fatti rispetto a come furono vissuti dai protagonisti, provocandone una decontestualizzazione i cui effetti sono spesso devastanti. Se la memoria è uno degli aspetti più importanti nella vita d'ogni essere umano, per il recluso diventa una questione vitale nel senso più immediato del termine. E' la facoltà di cui la coscienza si avvale per andare avanti, regredire o addirittura spegnersi riducendo l'individuo a un replicante.
La coscienza individuale ha dei limiti inevitabili - di percezione, di formazione - dato che si affaccia nel contesto in cui capitiamo. Si tratta di vedere se come società si deve costruire un contesto in cui aiutarla a liberarsi e espandersi o se impedirglielo. Intervenendo sulla memoria, la teoria della colpa impedisce questa espansione, difende gli inevitabili confini di partenza.
Difendere la propria memoria è perciò una condizione essenziale per la difesa della libertà di coscienza.
In testa ad ognuno si cerca di ficcare un tribunale che conosce amnesie-colpevolizzazioni, esaltazioni giudicanti e difficilmente delle "amnistie", cioè dei ricordi rivissuti senza colpa come una ricostruzione critica condotta alla luce di una più ricca esperienza. Così che nei suoi vuoti la nostra memoria diventa lo "stato incosciente" (Lourau) della nostra mente.

87. La reclusione è un sabotaggio violento della memoria.
Mi è capitato di incontrare molti carcerati che per orgoglio, per difendere la propria dignità confondono la difesa della propria memoria con la difesa del proprio passato precarcerario. Li chiamo "reduci"; il tribunale li chiama, al contrario, "irriducibili". Il reducismo è memoria fissata su un particolare del passato, come chi si aggrappa a un ramo durante una tempesta. E' un comportamento specularmente opposto a quella mostruosa, immensa quantità di memoria inerte, fotografica che contraddistingue il "traditore". In questi tutto il passato è ricordato come massa d'informazioni (e non più come "verità" della propria esperienza); ci sono oggetti da vendere per sopravvivere nel presente, ripresentati secondo la logica del mercato, ossia secondo criteri esterni all'esperienza personale, ormai ridotta a un magazzino che ignora la selezione.
Memoria ferita e dolorosa, ancora viva ma agonizzante, quella del reduce. Memoria morta quella del traditore. Ecco le due più ovvie reazioni immediate alla reclusione.

88. Ritmi monotoni e vuoto d'esperienza della vita quotidiana rendono infinito il singolo momento, la singola giornata. E, all'oppposto e per la stessa ragione, gli anni dietro di noi passano terribilmente in fretta; sono gli anni leggeri del vuoto.
La logica della memoria adulta è nello scorrere del tempo, procedendo secondo una sequenzialità che ci deriva dalla lettura del calendario, dell'orologio. I muri delle celle d'isolamento sono famosi per i segni con cui si registra il passar dei giorni. Perdersi nel tempo è come perdersi nello spazio. Il carcerato scopre questo brutto lato della relatività: più le giornate sono lunghe, più brevi sono gli anni trascorsi giacché se lo spazio fisico concessoci è ristretto, il tempo non vola, ma si dilata nella mostruosità dell'attimo che non finisce mai.
Se si prova a resistere a questa sensazione (a questa realtà), a rielaborare quindi la propria memoria, scopriremo che essa è diventata "illogica" come quella dei bambini che non sanno leggere il calendario. Gli eventi-ricordi non seguono più facilmente la sequenzialità temporale, sono dei flash situati nella discontinuità, schegge legate più che altro all'intensità delle nostre emozioni. Difficile situare gli episodi nel tempo. Ho fatto varie volte questa verifica con me stesso, con altri. Si scopre spesso che quanto credevamo fosse avvenuto prima era avvenuto dopo e viceversa. Dovevamo sempre ricorrere alla riflessione, ragionando su altri fatti da usare come pietre di paragone per situare l'episodio nel tempo giusto e, da lì, ricostruirlo nella memoria. Ed è opportuno farlo se non si vuole che la memoria diventi non solo un campo di macerie, come in gran parte è inevitabile che avvenga, ma soprattutto che il campo di macerie non sia più riconosciuto come tale da noi stessi. Allora il danno diventa grave: è perdita di coscienza.

89. Il più stupido e colpevolizzante di tutti i proverbi afferma che la via per l'inferno è lastricata di buone intenzioni. Quanto ho detto fin qui dimostra piuttosto che contro le buone intenzioni la società attuale scatena l'inferno perché il sistema penale orienta i suoi saperi nell'inconscio dello storico, del politico ecc. Di più, dirò, ingenuamente seppure in compagnia di persone diverse tra loro come Rousseau o Marx, che è inevitabile che l'essere umano nasca con "buone intenzioni", rovinate da una società, come in fondo prova a ribadire dimostrandolo l'etnosociologia.
Che succederebbe infatti se costruissimo una situazione estrema, mettendo a un polo un bambino - cioè una coscienza ancora in piena formazione, quasi priva di memoria - e, per l'altro polo, ficcassimo il bambino in un'istituzione totale al massimo grado: un lager in cui ha scarse probabilità di sopravvivere perché lo scopo dell'istituzione è di eliminarlo?
Qui potremmo analizzare senza ombra di dubbio quali sono le possibilità naturali dell'essere umano.
Questo caso è successo. Bambini con un'esperienza simile sono esistiti, esistono ancora. Qualcuno di loro è sopravvissuto e uno ce lo racconta:

90. Binjamin Wilkomirski, in Frantumi. Un'infanzia 1939-1948. Ha impiegato quasi mezzo secolo a rielaborare la propria memoria:

"I miei ricordi più antichi assomigliano a un campo di macerie: immagini isolate e materiale di scarto. Schegge di memoria dai contorni duri, affilati come lame, che ancora oggi a stento riesco a toccare senza ferirmi. Disseminate spesso in maniera caotica, queste schegge solo di rado si lasciano disporre nel tempo e seguitano a resistere con ostinazione alla volontà ordinatrice dell'adulto e a sottrarsi alle leggi della logica.
E così, se voglio scriverne, devo rinunciare alla logica sistematica, alla prospettiva dell'adulto, perché altererebbe l'accaduto".

Salvato da donne prigioniere che lo nascondevano sotto le loro gonne o sotto montagne di stracci per non essere sbattuto per gioco contro un muro da qualche adulto in divisa, l'autore nel 1995 prova a dare parole all'inesprimibile, smentendo in parte Fromm. L'inesprimibile in questo caso è stato in gran parte un incubo, beninteso, ma anche - per me, per esempio, che ho letto il libro con grande difficoltà, a gocce, nonostante la sua estrema, asciutta semplicità - motivo di una grande irriducibile speranza.
Binjamin nasce nel 1939 (secondo lui; ma le autorità decidono di farlo nascere nel 1941) e non sa quale sia il suo vero nome. Finisce in un lager polacco insieme ad altri bambini i cui genitori scompaiono nel buio. Così piccoli, finiscono per credere che il mondo coincida con quel che vedono. Al di là delle baracche dei lager c'è il nulla; gli adulti sono quelli che, quando gli gira, ti ammazzano, ti fanno sparire; quel che avevano conosciuto prima di finire nelle baracche non esiste più.
Ma pur credendo che questo sia "il mondo", il senso degli altri come fonte della percezione di sé - la coscienza umana, dunque - è impresso in loro e conduce una lotta grandiosa. Questi bambini hanno un loro culto e una loro morale. Il culto è il ricordo delle madri, mamele, che nel vecchio mondo ormai scomparso ti davano cibo, rifugio, amore. La morale è la solidarietà immediata. L'autore coltiva ancora oggi lo struggente ricordo di un dodicenne che lo protesse, gli insegnò a sopravvivere e venne ucciso perché scoperto mentre rubava cibo.
Ma, ecco il fatto importante, l'abbandono del senso della solidarietà per un attimo, in un momento di stanchezza, si trasforma in senso di colpa.
I bambini di notte non possono andare alle latrine e vengono eliminati se scoperti così deboli da farsela addosso o nella baracca. C'è n'è uno nuovo che si lamenta, quella notte. A un certo punto Binjamin non ce la fa più ad ascoltarlo e gli dice di liberarsi, senza pensarci troppo su. L'indomani quel bambino sarà eliminato e Binjamin si sentirà un traditore. A guerra finita, dopo un periodo in un orfanotrofio di Cracovia, viene portato e adottato in Svizzera. Si sentirà ancora di più un traditore. Nessuno infatti gli spiega che è avvenuta la liberazione. Crede che il mondo sia sempre quello e lui è perciò un privilegiato rispetto ai bambini rimasti nelle baracche. Teme di essere scoperto, che si sappia che ha mandato a morire quel bambino incoraggiandolo a fare la cacca di notte. Al tempo stesso ha un solo desiderio: ritornare nel mondo che conosce, dove ci sono compagni che capisce: il mondo delle baracche, dove qualche adulto ti può sbattere la testa contro un muro. Ma per lui è chiaro che tutti gli adulti sono così, a parte le mamele che non ci son più, e se qui dov'è ora gli adulti non lo fanno, è perché non l'hanno ancora "scoperto".
La società penalista è piena di buoni sentimenti che la portano a sottovalutare il nesso esistente tra memoria e coscienza. In questo caso si tratta della società svizzera del dopoguerra. Non ti sbatte la testa contro un muro, ma non ti spiega cos'è avvenuto: Binjamin è troppo piccolo, è meglio che dimentichi certe cose... Il risultato, per la sua testa, è lo stesso. Non ha ragione di considerare questi adulti, pieni di sorrisi, diversi da quelli. Fanno un danno quasi simile, ma si possono permettere di non saperlo, si sentono buoni. E dopo mezzo secolo di lavoro su se stesso, Binjamin può affermare con cognizione di causa:

""Chi non ricorda si gioca il proprio avvenire" scrisse un saggio.
Chi non ricorda da dove viene non saprà mai esattamente dove sta andando".

Forse l'autore di questo libro, Frantumi, non sa quale contributo ha dato alla possibile comprensione di questioni che vanno al di là della pur preziosissima battaglia da lui condotta perché tutti i bambini sopravvissuti abbiano una loro identità non solo in senso anagrafico. Forse gli "specialisti" confineranno la sua esperienza in una situazione non già estrema, ma molto "particolare". Chi ci rifletta seriamente non potrà non trarre certe conclusioni sulla natura sociale e interamente culturale dell'essere umano, sulla barbarie suicida del sistema penale contro la possibilità umana.

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