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Dei dolori e delle pene 4.
Della storia:
la tecnoburocrazia e il suo spettacolo

51. Far soffrire fabbrica crimine e criminali criminalizzando un numero sempre maggiore di persone come dimostra la crisi attuale della giustizia dopo due soli secoli di vita del nuovo sistema di pene. Ormai è una minaccia sociale poiché colpisce ceti sociali che fino a ieri si sentivano al riparo dalla sanzione penale, tanto che a costoro la crisi appare anzitutto come "eccesso" di diritto penale.
Tutto questo era chiaro a qualcuno già nel 1899, giacché così scriveva Tolstoj nel romanzo Resurrezione:

"L'eterna obiezione: "Che cosa fare, dunque, dei malfattori? Possibile mai lasciarli senz'altro impuniti?" non lo turbava più.
Tale obiezione avrebbe avuto valore se fosse stato dimostrato che la pena diminuisce i reati e corregge i trasgressori; ma una volta che era dimostrato precisamente il contrario, ed era manifesto che non è in potere degli uni correggere gli altri, la sola cosa razionale che si potesse fare era cessar di fare quanto non solo non era utile, ma dannoso, oltre che immorale e crudele".

L'abolizionismo di Tolstoj era, come ogni nuovo pensiero, necessariamente utopico: come direbbe Erich Fromm, richiedeva "un altro tempo" dato che ai giorni di Tolstoj l'avvento del modo di produzione industriale doveva ancora vedere la tecnoburocrazia compiere tutto il suo nuovo ciclo. Di lì a poco, anzi, proprio in Russia vedremo la rivoluzione d'Ottobre trasformarsi subito in un regime guidato da una tecnoburocrazia che realizzerà il modo di produzione industriale a tappe ancora più accelerate di quanto non abbia fatto il ceto dei proprietari in Europa occidentale o negli USA. Il capitalismo di stato sovietico realizzerà un'accumulazione più rapida del capitalismo privato, consentita dall'uso massiccio dei lavori forzati quale strumento politico ed economico principale. La deportazione nei campi dell'"arcipelago gulag" colpirà milioni di persone (i "controrivoluzionari") ed è cosa ormai ben nota dopo la pubblicazione del libro di Solgenytsin. Solo dopo 70 anni la dittatura tecnoburocratica diventa in URSS d'ostacolo al capitalismo, crollando in un'immensa implosione; solo ora essa in Occidente comincia a rivelarsi d'impaccio agli interessi del capitalismo, principalmente a causa dell'"eccesso" di diritto penale che porta inevitabilmente con sé. Così non dobbiamo stupirci se l'abolizionismo verso carcere e diritto penale sorge timidamente come movimento storico solo nel secondo dopo-guerra.

52. La burocrazia è il personale dello Stato e dell'esercizio dell'autorità in genere. Storicamente, "madre di tutte le burocrazie" è la magistratura, afferma l'antiproibizionista Giorgio Inzani. Mentre il tecnocrate si occupa di produzione dovendo fondere il capitale con essa, il burocrate in senso proprio è un tipo particolare di tecnocrate che deve assicurare la fusione del capitale con lo Stato ed è perciò un tecnico dei rapporti umani: colui che riduce tali rapporti a una vicenda puramente meccanica attraverso un particolare tipo di addestramento: l'esercizio (obbligatorio) di una "disciplina". La tecno-burocrazia tende a realizzare in ogni rapporto sociale una visione dell'essere umano nata dalla filosofia borghese del Settecento, a sua volta già nata in tribunale, e ritradottasi anzitutto in un nuovo pensiero giuridico. Si tratta di una concezione che atomizza la percezione dell'essere umano con l'individualismo e il primo risultato implicito di tale operazione è l'acquisizione di un metodo: il riduzionismo interpretativo che da allora in poi condizionerà sempre di più tutte le cosiddette scienze umane, condizionamento la cui prima espressione organica si ritrova nella teoria dell'"Uomo macchina" elaborata da filosofi come La Mettrie e Cabanis, ormai lontani dalle contraddizioni di Pascal e ben più avanti di Cartesio nell'astratta linearità del loro ragionamento. Per Cabanis, la coscienza è una secrezione fisiologica del cervello.

53. Ogni opera di riduzione offre una visione irreale di ciò che rappresenta, e perciò diventa uno spettacolo che, per dirla con Guy Debord (ne La società dello spettacolo), creando un "mondo rovesciato", trasforma "il vero in un momento del falso". E il sistema penale, macchina burocratica per eccellenza, non ha pari su questo piano perché è nello spettacolo che "una parte del mondo si rappresenta di fronte al mondo, e gli è superiore" (Ibid.). Il potere dei burocrati, infatti, non nasce direttamente dalla proprietà, da uno status riconoscibile; è, dunque, un potere ideologico, deve esserlo perché solo il monopolio ideologico può essere la sua proprietà. Questo spiega l'impossibilità del sistema penale di liberalizzarsi autonomamente, la sua innata tendenza ad essere totalizzante. L'unica liberalizzazione possibile del sistema penale è una diminuzione della sua presenza nella società, imposta dall'esterno.
La pratica burocratico-giudiziaria deve sempre, per essere totalizzante, ignorare la realtà storica onde assolutizzare il presente:

"La società burocratica - afferma Debord a proposito di quella sovietica ai tempi di Stalin - vive in un presente perpetuo, in cui tutto ciò che è avvenuto esiste per essa soltanto come spazio accessibile alla sua polizia. Il progetto, già formulato da Napoleone, di "dirigere monarchicamente l'energia dei ricordi" ha trovato la sua totale concretizzazione in una manipolazione permanente del passato, non solamente nei significati, ma anche nei fatti".

54. Possiamo benissimo applicare questo ragionamento come spiegazione della logica del sistema penale, ossia di quel groviglio di rapporti che lega carceri, corti, polizie, ministero, parlamento, università...
I problemi umani devono passare attraverso filtri stereotipati per permettere di perseguire azioni molto diverse tra loro sotto la stessa etichetta. Perseguitato e persecutore possono essere accusati dello stesso reato: violenza, omicidio, ecc. Ogni atto viene astratto dal suo contesto "perché il sistema penale può solo punire, mentre ci sono tanti altri modi possibili (e generalmente migliori) per reagire a un evento spiacevole e doloroso" - Louk Hulsman e Jacqueline Bernat de Célis. I quali altri modi sono, sempre secondo questi due autori, "il modello compensativo, terapeutico, conciliatorio ed educativo". Ma oggi anche questi altri modi sono inquinati a monte: "Infatti, qualsiasi altra misura, diversa dalla pena organizzata all'interno del sistema statalista che ha voluto essere educativa o terapeutica, non ha mai perso in realtà il suo carattere afflittivo o infamante. E questo sicuramente a causa dell'origine stessa del sistema penale, concepito in un'epoca di transizione tra la società religiosa e la società civile, e rimasto debitore del sistema scolastico, a sua volta ispirato dalla cosmologia medievale".

55. Ora, dobbiamo anzitutto chiederci quali siano i risultati concreti ottenuti dallo "spettacolo", provando ad accettare i suoi stessi criteri. La risposta è: quanto di più inefficiente e irrazionale vi possa essere, a dimostrazione del fatto che il suo scopo è quello d'agire sull'irrazionalità collettiva (come simbolo) e non per una razionalità (attraverso la struttura). Nella migliore delle ipotesi, nei periodi migliori e nelle situazioni più efficienti, il sistema penale può arrivare a colpire il 5% delle colpevolezze per tutti quegli eventi che ha definito come reati. Così almeno dichiarano le autorità italiane, ponendosi ottimisticamente al vertice dell'efficienza mondiale. L'abolizionista olandese Hulsman afferma che in Olanda la percentuale di capacità penalizzante è dell'1%, cifra che mi sembra molto più vicina alla verità, poiché la maggior parte dei reati non viene neppure denunciata, specie quando sono di lieve entità, le vittime preferendo trovare altre soluzioni.
Abbiamo dunque a che fare con una strategia il cui grado di funzionamento rispetto ai fini dichiarati va dall'1 al 5%. L'azione penale, essendo obbligatoria, non deve rispondere a un utente e perciò ottiene l'effetto paradossale di deresponsabilizzare i propri esecutori. Le vittime dei reati non sono dei clienti, non hanno voce di fronte all'azione penale obbligatoria: possono solo identificarsi con essa. Ed è ciò che fanno tutti coloro che chiedono vendetta, facendo pressione affinché l'autorità punitiva sia severa al massimo: è, appunto, l'unica via loro lasciata.
Poiché, inoltre, non si possono reprimere tutti gli eventi qualificati come reati e d'altra parte si impedisce che vengano affrontati in altri modi come situazioni problematiche, la giustizia penale finisce per colpire in modo casuale o, più precisamente, accidentale. Tale affermazione è valida persino per un reato grave come l'omicidio, dove pure - almeno in teoria - le indagini hanno un qualche orientamento determinato dai fatti. Altrove è ancor più visibile che la selettività burocratica è inevitabilmente arbitraria e discriminatoria. Osserva Fabio Massimo Nicosia:

"Certo, è ben possibile incriminare una volta ogni qualche anno una donna che abbia abortito. E' anche possibile che in Georgia trovi applicazione, per la prima volta dopo cinquant'anni, la normativa "antisodomia", come nel caso Hardwick del 1986.
E' invece impossibile ipotizzare l'applicazione universale, a tutti i casi simili, delle relative sanzioni.
Il caso Hardwick ebbe origine del tutto "accidentale", a causa dell'occasionale (e indebito) ingresso di un poliziotto in una casa privata.
Non è certo razionale, ed è dunque illegittima, una disposizione destinata a non essere mai applicata nei confronti di alcuno, se non in casi del tutto eccezionali e casuali, o per scelta arbitraria o "discrezionale" del potere. E ancora più assurda una vicenda del genere sarebbe stata in regime di obbligatorietà dell'azione penale, giacché, in un tale contesto, non si sarebbe nemmeno potuto correggere in via di fatto, come pare sia avvenuto in quel caso, la palese iniquità della cieca applicazione della legge.
Riferisce Lawrence Friedman che nel Wisconsin, tra il 1855 e il 1894, vi furono cinque giudizi per incesto; nove per adulterio; quattro per fornicazione; quindici per prostituzione; sessantuno per violazione di norme sul controllo delle sostanze alcoliche; e uno per "comportamento indecente e lascivo". E consentitemi di esprimere postuma solidarietà all'"indecente e lascivo" eroe, unico riconosciuto sporcaccione nel Wisconsin nel corso di quarant'anni.
Un po' come nel caso del reato di plagio da noi, per il quale tuttavia va espresso un giudizio anche più radicale di intrinseca e assoluta inapplicabilità: un unico ben noto caso di condanna, sino alla sentenza della Corte Costituzionale 9 aprile - 8 giugno 1981 n. 96, che ha espunto quella mistica ipotesi di reato dall'ordinamento".

L'ovvio risultato della selettività burocratica è che, a parte il caso di detenuti politici rivoluzionari (per i quali vi è disincanto verso la giustizia dello Stato avversato), non mi è mai capitato di incontrare un detenuto che non si sentisse vittima di un trattamento iniquo, a prescindere dalla sua colpevolezza. Ognuno potrà sempre trovare un caso in cui Tizio o Caio se la sono cavata o sono stati trattati meglio di lui, ognuno coglie la capricciosità del trattamento riservatogli dal sistema penale. Le uniche discriminazioni non capricciose sono quelle più odiose: quella di classe che premia sempre il più privilegiato, quella etica che premia il delatore.
Ma, al di là dell'impunità per la maggior parte degli eventi risolti in reati, c'è da osservare la seconda e più grave "inefficienza" del sistema penale:

56. l'inesistenza dell'asserito potere deterrente verso il delitto, che è tanto più grande quanto più grande è il delitto!
Chi uccide, per esempio, lo fa per delle motivazioni estremamente interiorizzate, lucide o irrazionali che siano, che nessun terrore della sanzione penale può fermare. "Negli USA abbiamo un tasso di detenzione, per 100 mila abitanti, di 455 contro quello italiano di 50,4, e quindi ci sono 1.057.000 detenuti. E Clinton chiedeva di poter raddoppiare la popolazione carceraria, c'è la pena di morte, e, malgrado l'esistenza di un perfetto circolo virtuale abbiamo, per contro, un aumento, negli ultimi dieci anni, del 414% dei crimini più gravi" (Inzani, 1995).
Viceversa, chi non ha intenzione di uccidere non lo farà neppure in mancanza di sanzione:

"Se ne è avuta una conferma in vitro qualche anno fa, in occasione dello sciopero della polizia di New York, allorché non si è avuto alcun incremento dei reati di sangue e di maggiore visibilità sociale. Il che dimostra che l'affievolirsi del timore di incorrere in sanzioni non aumenta la propensione al crimine della popolazione.
Non si è avuto, per intenderci, niente di simile a quanto è accaduto in occasione del black-out newyorkese e della rivolta nera di Los Angeles. Ossia a vicende determinate da ben altri fattori psicologici e sociali, sui quali sarebbe misticismo pensare che l'esistenza di una norma sanzionatoria possa esercitare influenza alcuna.
Come diceva il giudice Frank, gli uomini agiscono sulla base di molte motivazioni, e l'ultima cosa a cui pensano è quale sia la disciplina giuridica della propria azione, anche perché spesso nemmeno la conoscono.
La "finalità" di prevenzione generale del diritto penale sui reati più gravi è perciò quantomeno assai sopravvalutata" (Nicosia).

Lo stesso Nicosia afferma però, seppure senza certezza, che

"un diverso discorso andrebbe verosimilmente svolto per i reati minori, o per gli illeciti non penali.
E' possibile cioè che una loro abolizione comporti un incremento dei comportamenti sanzionati. E' possibile ma non è certo: si pensi alla vicenda dell'evasione fiscale, la cui penalizzazione non ha in realtà indotto nessuno a desistere dal calcolo economico dei rischi e dei benefici, sulla base del quale optare per l'evasione.
In linea di massima può comunque affermarsi che l'effettiva efficacia preventiva del diritto penale è maggiore con riferimento ai reati minori, e più in generale a quei reati che non sono percepiti dall'opinione pubblica anche come illeciti morali, come le contravvenzioni e i cosiddetti reati bagatellari.
Senonché si tratta proprio dei reati, dei quali da più tempo si invoca l'abolizione, proprio in quanto considerati immeritevoli di una reazione tanto forte da parte dello stato".

In realtà vediamo che proprio qui si formano vaste zone di illegalità di massa. Si pensi non soltanto all'evasione fiscale ricordata da Nicosia, ma anche all'uso di droghe leggere fra i giovani (canapa) e sopratutto all'importantissimo campo delle nuove tecniche di comunicazione dove la legislazione sulla proprietà intellettuale non può non essere trasgredita da quando esistono sul mercato la fotocopiatrice o il computer. In questi tre campi milioni di persone nel mondo trovano naturale vivere in un modo che la legge continua ad ostacolare, ritenendo che la legge sia una iniqua invadenza dello Stato rispetto a una realtà storica da "legittimare".

57. Così, mentre di fronte al reato grave (con vittime) si ha un movimento che prova a ignorare la sanzione sfuggendole, dinanzi al reato minore si crea addirittura un movimento che si oppone alla sanzione esplicitamente, come una naturalezza sociale che vuol diventare veicolo di una riforma del diritto. Quel che cambia nei due casi è la percezione morale. In questo secondo caso si ritiene il fatto giusto "in sé". Perciò, mentre il reato grave si compie sempre, nonostante la punizione, in alcuni casi, il secondo tipo di reato si può sì non compiere solo per non essere puniti, ma creerà anche inevitabilmente un apprendimento a sfidare la legge e volto a chiedere la fine della proibizione per tutti i casi.
Ma il compito del sistema penale è invece di non cogliere questa differenza, di combattere la distinzione morale/penale attraverso la categoria riduttiva, e perciò invadente e onnicomprensiva, di "reato" per un numero sempre maggiore di eventi umani. Il metodo più efficace per un tale compito è quello di sparare ogni volta nel mucchio, come se la sua implicita morale fosse: è immorale tutto ciò che riesco a colpire anche in un solo caso.
Tutta questa incongruenza verso la realtà è utile alla logica del fare spettacolo.

58. Ogni tipo di spettacolo non riguarda solo gli attori, ma anche gli spettatori. Attori sono gli individui penalizzati. Da essi si pretende che sappiano immedesimarsi nella parte assegnata dal regista, facendo i criminali, gli asociali da tenere in galera quando li si prende, gli utili idioti sempre. Gli attori devono rinunciare alla loro soggettività. Tutti gli altri, la maggioranza della popolazione, sono gli spettatori. Dai quali si vuole invece l'adesione soggettiva: gli spettatori sono i soggetti che devono accettare di essere controllati grazie all'esistenza dei delinquenti maneggevoli.
Il ruolo dei criminali e dei reclusi è abbastanza simile a quello degli schiavi trasformati in gladiatori per educare alla disciplina del gregge il popolo spettatore. Non c'è molto da spiegare sotto questo profilo, ma semmai bisogna riconoscere che il meccanismo funziona in modi sempre più sofisticati.
Da sempre, dire che non c'è alternativa alla punizione per limitare il delitto, oltre a non far limitare il delitto è soprattutto un'affermazione dietro alla quale si finisce per accettare tutto un modo di vivere di cui pur ci si lamenta, senza più coglierne le possibili connessioni. Ignatieff ne Le origini del penitenziario (1978) notava che un individuo del Settecento troverebbe pazzesca l'invadenza che lo Stato odierno ha nella vita privata dei cittadini. Ma doveva altresì notare la passività che in tale evoluzione mostravano persino i movimenti di liberazione di alcune minoranze già oppresse dai costumi dell'intolleranza:

"Non è (...) chiaro se il grado in cui l'opinione pubblica può tollerare le "devianze" sia aumentato grazie alle riforme dell'ultimo decennio. La retorica della società "permissiva" ci può indurre a pensarlo, al pari delle recenti vittorie duramente conquistate da omosessuali e femministe contro la discriminazione sessuale e economica. L'accettazione da parte dell'opinione pubblica di una relativa liberalizzazione del comportamento sessuale e delle assunzioni nel campo del lavoro può trarre in inganno, soprattutto per la tanto discussa abilità dei manipolatori dei mezzi di comunicazione di massa a fagocitare forme di "devianza" senza ampliare sostanzialmente i limiti del tollerabile e secondariamente perché l'apparente aumento di tolleranza in un campo può spesso provocare una riduzione in altri campi. Il dibattito in corso sulla violenza sessuale, ad esempio, può far pensare che l'aumento di delitti sessuali contro le donne finirà per provocare un atteggiamento sempre più punitivo e intollerante nei confronti dei violentatori. Nelle società liberali questo è un paradosso della tolleranza. Una mentalità sempre più aperta da parte della pubblica opinione verso la scelta di uno stile di vita sessuale e personale non può essere considerato un segno di trattamento più tollerante per chi viola la legge".

Questo "paradosso della tolleranza" è una grande forza del sistema penale. Concedendo diritti si corrompono giuste istanze; il loro corrispettivo è un aumento dell'intolleranza generale dato che ogni riconoscimento nel campo giuridico avviene "contro" qualcuno e vede perciò un aumento della presenza statale nella formazione sociale. Giuridicizzare vuol dire perdere, non già conquistare. Anche in Italia la maggior severità delle pene inflitta agli stupratori è stata presentata come un progresso per le donne.

59. Il paradosso della tolleranza non sarebbe possibile se la legge penale non avesse una caratteristica singolare: il suo muoversi in ritardo nella comprensione della realtà storica. Le leggi riflettono norme puntualmente antiquate rispetto allo sviluppo sociale raggiunto affinché ogni cittadino sia virtualmente in libertà provvisoria quale presunto colpevole anche se, sui codici, si legge il contrario. Così è sempre possibile colpirne uno per spaventarne mille. E ciò si realizza tanto più facilmente propio sui cosiddetti reati minori di cui si è appena detto: sul terreno fiscale, della proprietà intellettuale e del consumo di droghe. E' anche qui tra l'altro che viene sentito di più l'"eccesso di diritto penale" in parte della classe dirigente attuale, ponendosi in contrasto con vasti settori dell'opinione pubblica. E questo è un altro piccolo paradosso costruito dal sistema penale: parte dell'élite si presenta più democratica delle "masse".

60. Prendiamo l'esempio del copyright. La legge che difende i diritti d'autore, rimanendo la stessa nell'epoca della sempre più facile riproducibilità tecnica dell'opera, ha effetti opposti a quelli che aveva quando nacque, nella situazione storica del '700. Allora difendeva la ricerca attraverso la protezione economica della persona che la conduceva. Nello sviluppo tecnico odierno ci sono strumenti che sono fatti per essere venduti, non sarebbero venduti se non si potessero usare, ma il loro uso risulta spesso illegale... Emerge allora un aspetto della cultura che due secoli fa si poteva sottovalutare: ogni epoca la le "sue" idee, idee quindi che possono venire contemporaneamente in mente a molti o la cui paternità e il cui sviluppo hanno un carattere intrecciato, collettivo; lo sviluppo tecnologico, insomma, fa emergere fino in fondo l'assurdo che si cela dietro all'idea della proprietà privata sul pensiero.
John Perry Barlow è tutt'altro che un rivoluzionario. E' un americano ex allevatore di bestiame, aderisce al Partito Repubblicano. E' anche tra i fondatori della Electronic Frontier Foundation e così dice:

"Qualcosa nel termine "proprietà intellettuale" mi ha sempre infastidito un po'. Suona come un ossimoro. Tutto ciò fu messo nitidamente a fuoco quando poco tempo fa vidi una vignetta sul Bulletin of Atomic Scientists. Mostrava un tipo per strada con le mani in alto e un bandito che gli stava puntando addosso una pistola. Il bandito stava dicendo: "Presto, dammi tutte le tue idee". (....) Un aspetto interessante nel trattare l'informazione come una forma di proprietà è che se io rubo la vostra informazione, voi ce l'avete ancora. Se rubo il vostro cavallo, non potete più cavalcare. Posso rubare la vostra informazione e riprodurla un miliardo di volte e voi ce l'avrete ancora e ciò che potrete fare con essa, nei termini di come la esprimete, sarà sufficientemente diverso da ciò che altra gente potrà fare con essa. Questo si chiama "creare"".

Barlow pone allora un quesito:

"... abbiamo leggi abbastanza severe circa la protezione del software. Quando leggete le scritte che accompagnano la vostra documentazione software, quanti di voi possono dire in tutta onestà di non possedere sul proprio hard-disk copie non autorizzate di software?
Questo è un caso in cui la maggior parte delle società ha deciso di deviare en masse dalla legge. Ora, a meno, che la Software Publishers Association non decida di mettere in pratica alcune delle cose magnifiche che abbiamo imparato mentre custodivamo i prigionieri di guerra iracheni, non sarà in grado di arrestare tutta la gente che copia software".

La regola che nacque per difendere la libertà del pensiero dalle minacce di un mondo mercantile, oggi, attraverso lo sviluppo abnorme del sistema penale, favorisce alcuni monopoli e attacca proprio quella libertà, l'autonomia della ricerca, e ostacola lo stesso mercato dei servizi legati alla comunicazione contemporanea. Lo star fermi al '700 ha quindi lo scopo di controllare la soggettività delle persone, oggettivando uno stato di polizia nei confronti dell'attività intellettuale.

61. Il dibattito ormai mondiale sulle norme della proprietà intellettuale si scontra con un potere giudiziario che tende ancora a ignorare l'avvento della terza rivoluzione industriale; e la ignora anche sul primo importante elemento di novità che essa ha portato: la crisi degli Stati-nazione. Se la comunicazione informatizzata ci unisce a livello planetario nel "villaggio globale", la mondializzazione dell'economia di mercato che tale comunicazione ha favorito vede ormai da tempo nello Stato-nazione un abito troppo stretto per i propri movimenti, una legislazione troppo rigida per le manovre produttive e finanziarie che travalicano sia le visioni che i confini ereditati dal Settecento. Su questo fronte si è formato il movimento che spinge di più contro alcune caratteristiche del sistema penale, il più importante dato il potere dei suoi protagonisti: le aziende multinazionali e suoi moderni tecnocrati, ovvero il capitale finanziario moderno.
Costoro possono, in via secondaria, avere posizioni liberali riguardo alla comunicazione o al consumo di droghe: la proibizione di queste, per esempio, crea movimenti di denaro incontrollato, una finanza selvaggia che influisce a volte negativamente sul piano politico.
La legge che non cambia finisce per penalizzare delle pratiche che sono diventate necessarie nel nuovo contesto e che perciò, agli occhi dei loro autori, sono "naturali". Viceversa, pratiche che ieri non erano illegali, oggi lo diventano. Nasce perciò un movimento "liberista" che, sul piano giudiziario, intende ripristinare quello stato di doppio diritto che ha sempre contraddistinto in passato la giustizia attraverso la discriminazione di classe.
Così funzionavano le cose quando, ancora una ventina di anni fa, Foucault pubblicava Sorvegliare e punire:

"Per l'illegalismo di beni - il furto -, tribunali ordinari e castighi; per l'illegalismo di diritti - frodi, evasioni fiscali, operazioni commerciali irregolari - giurisdizioni speciali con transazioni, accomodamenti, ammende attenuate, ecc. La borghesia si è riservata il dominio fecondo dell'illegalismo dei diritti. E nello stesso tempo in cui si opera questa spartizione, si afferma la necessità di un controllo costante che riguardi essenzialmente questo illegalismo dei beni".

Ignorando la terza rivoluzione industriale, il confine che garantiva l'illegalismo dei diritti è diventato labile, a tutto vantaggio della pena. In nome dell'uguaglianza, del progresso della giustizia sociale il potere giudiziario colpisce ora anche dei ceti privilegiati accusandoli di illegalismo sui beni.
Né il movimento (democratico) per la depenalizzazione dei reati minori né - tanto meno - il nuovo liberismo (elitario) portano di per sé all'abolizionismo: ma pongono, sul piano della più pura oggettività, la sua attualità. Si può essere al tempo stesso un manager in carriera o un precario, critico del copyright e fumatore di spinelli, e non per questo meno favorevole alla pena di morte e all'ergastolo per "altri". Questi movimenti non si sottraggono di per sé al paradosso della tolleranza e negli ultimi decenni ('80 e '90) la loro pressione ha portato all'accentuazione di una forbice: da un lato, per i più, è aumentata la detenzione breve e ripetuta; dall'altro, ad alcuni, spetta una detenzione lunghissima e più dura nel trattamento. Costoro sono le nuove figure mostruose, i criminali assoluti: il "terrorista", il "mafioso" ecc.

62. Fa parte del luogo comune degli ultimi due decenni udire varie dichiarazioni di questo tipo: operai attaccati dalla polizia, managers incriminati che affermano "ci hanno trattati come se fossimo dei delinquenti" (o come dei terroristi). Anche rappresentanti di movimenti omosessuali o di consumatori di droghe leggere chiariscono la stessa cosa. Ma chi è a questo punto il terrorista o il mafioso? E' tutto ciò che non sono Io, è l'Altro per il quale si dà per scontato non possa esservi tolleranza, come per il cane rabbioso. E così infatti succede; per una minoranza di individui, i criminali assoluti, la reclusione è diventata una realtà completamente a sé, virtualmente eterna, sottratta a ogni principio giuridico da provvedimenti speciali puntualmente approvati con grandi unanimità.
La normale accettazione dell'"individuo senza diritti" implicita in tali comuni affermazioni ha così profondamente modificato la realtà carceraria che ora la logica dell'"Io non sono quell'Altro" appartiene agli stessi carcerati. Le dichiarazioni, individuali o collettive, di autodifferenziazione dal terrorista, dal mafioso, dall'omicida si sono sprecate e sono alla base di un sempre più complesso sistema di trattamenti differenziati che va dalla vita quotidiana alla liberazione. Il criminale assoluto finisce per essere una categoria surreale, sempre più inventata dalle autodifferenziazioni altrui e sempre più reale nella sorte che tocca ad alcuni.
Il criminale assoluto è la vetta sempre più misteriosa di uno spettacolo sempre più coinvolgente, minoranza delle minoranze intorno a cui ruota il nuovo grande gioco ideologico post-moderno: l'esaltazione della differenza contro ogni alterità, resa misteriosa dall'isolamento, resa mostruosa dall'interpretazione che può venir data di ciò che non si vede...
Ma grazie a questo perno del gioco si realizza il suicidio delle posizioni liberalizzanti, delle depenalizzazioni parziali. Esistendo il principio che si può colpire qualcuno (anche uno solo, starei per dire) sottraendolo per legge ad ogni diritto, l'istituto della pena si è rafforzato fino a spostarsi in una dimensione metafisica dalla quale può ricadere dovunque, su chiunque - come vedremo.
La gente che oggi può finire in galera è aumentata, la gente che oggi finisce in galera è aumentata. Però ci finisce in modo diverso da ieri. Chi è stato qualificato come criminale assoluto in modo peggiore, gli altri in numero maggiore ma con pene minori. I tossicodipendenti, gli immigrati vanno e vengono. La prigione per loro diventa prima casa che condiziona il modo di vivere nella seconda, quella vera. Il colletto bianco, anche se politico o alto borghese, può finire in prigione molto più facilmente di ieri: per poco, anzi pochissimo (nella maggior parte dei casi viene solo minacciato di una simile eventualità), tanto per essere marchiato, per essere sottoposto alla nuova gogna: la pubblica esposizione sulla piazza dei media.

64. E giacché stiamo parlando di una dimensione folle - che però ha del metodo, direbbe Shakespeare - sarà opportuno accennare che proprio fra i "criminali assoluti" si reclutano però le figure che godono del massimo d'impunità: i cosiddetti pentiti. Così, quando ci si indigna contro un efferato delitto, si chiedono e si ottengono trattamenti più duri per tutti, mentre magari proprio gli autori di quel delitto godono di una completa libertà!

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