Le dodici "sorelle" che decidono il futuro del terzo mondo

articolo di "La Repubblica" del 23-08-2002										di Maurizio Ricci

In Burkina Faso, nel cuore dell'Africa sotto il Sahara, nelle campagne si tira avanti con meno di 100 dollari l'anno. Un bambino su cinque muore prima di raggiungere i cinque anni. Speranze e futuro sono appese a una pianta, il cotone. Il Burkina Faso non esporta altro: è l'unica carta che può giocare sul grande tavolo della globalizzazione. L'anno scorso, i contadini vendevano il raccolto a 28 centesimi di dollaro al chilo.
Quest'anno il prezzo è 25 centesimi, il 10 per cento in meno. Anche i 28 centesimi dell'anno scorso erano inferiori al prezzo dell'anno prima e così via, risalendo all'indietro: come se l'orizzonte si restringesse sempre più, in un imbuto senza fondo.
Il prezzo attuale è il più basso degli ultimi trent'anni. E' lo stesso in un altro paese poverissimo, l'Etiopia, la patria del caffè. O in Uganda, dove la perdita di valore dell'export di caffè è peggio di una invasione di locuste e ha già inghiottito metà degli aiuti dell'Occidente a pagare i debiti. O con il cacao della Costa d'Avorio. Il tè del Malawi, travolto in questi mesi da una fame di massa. Al netto dell'inflazione, i prezzi di derrate alimentari e materie prime (petrolio escluso) sul mercato mondiale si sono dimezzati, rispetto all'inizio degli anni '80. E' la «mano invisibile del mercato» che riporta ordine e razionalità nei prezzi, secondo la legge della domanda e dell'offerta? In parte è così: mentre la produzione mondiale continuava a crescere, il consumo globale di cotone, caffè, cereali, saliva di meno dell'1 per cento l'anno.
Questa mano invisibile, però, sembra paralizzarsi quando varchiamo i confini dei paesi ricchi e affonda nel mare dei sussidi: un agricoltore americano, grazie ai sussidi governativi, incassa 1,50 dollari al chilo dalla sua balla di cotone e può permettersi di vendere sotto costo. Ma anche quando gli agricoltori dei paesi ricchi non c'entrano –come per caffè e cacao– la mano invisibile sembra fare molti giri strani: il prezzo pagato ai contadini per il caffè è sceso dell'80 per cento, dal 1997, ma, negli Usa, il prezzo al consumatore è calato solo del 27 per cento. Il punto è che, a guidare la grande mano, cieca e invisibile, sembrano esserci poche, ma esperte, mani, nient'affatto cieche e, se non invisibili, certo sfuggenti ed elusive: quelle di non più di una dozzina di multinazionali –spesso antichi imperi familiari al riparo dagli occhi indiscreti delle autorità di Borsa– in cui si concentra tutto il mercato mondiale di molte materie prime.
L'accusa non viene dai no global, ma da organismi internazionali come la Fao e l'Unctad (le agenzie Onu per l'agricoltura e il commercio) o l'Ocse, l'oranizzazione che raccoglie i paesi industrializzati. E probabilmente rimbomberà, la prossima settimana, al vertice di Johannesburg. Perché la tragedia dei paesi produttori di caffè, cotone, cacao è il buco nero della povertà nel mondo: sono i più poveri dei poveri. E diventano sempre più poveri: il potere d'acquisto nei paesi produttori di materie prime –e che non hanno petrolio– in media si è dimezzato, rispetto al 1970. In quegli stessi paesi, il numero di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno è cresciuto, non solo in assoluto, ma in percentuale della popolazione: dal 63 al 69 per cento, negli ultimi vent'anni. Per quanto abbiamo liberalizzato i loro mercati, della globalizzaazione questi paesi assaggiano solo la metà amara: la loro quota delle esportazioni mondiali continua a scendere.
Dietro questa progressiva asfissia, dicono esperti ed economisti, ci sono squilibri fra produzione e consumo, ma anche modifiche nelle strutture dei mercati. Come la concentrazione del traffico in poche mani. «L'85 per cento o più del commercio mondiale di cereali, caffè, cacao, juta, legno, tabacco e tè –avverte l'Ocse– è nelle mani di poche multinazionali». La parola che evocano gli esperti dell'organizzazione dei paesi industriali –poco sensibili, per ufficio, alle tematiche no global– è di quelle che, di solito, si trovano solo nei testi di economia: monopsonio, il monopolio del compratore, che controlla marketing, trasporto e distribuzione. Anche l'Unctad segnala, come fattore cruciale del ristagno dei paesi poveri, «la penetrazione di grandi multinazionali nella produzione agricola dei paesi in via di sviluppo». E la Fao parla apertamente di «potenziale potere monopolistico». Questo potere è nei numeri: per un paese (come la maggioranza dei più poveri) i cui incassi dall'estero dipendono, per oltre il 70 per cento, da una o due merci, non è facile affrontare a muso duro chi controlla il 90 per cento del mercato mondiale.
Il fatturato dei tre grandi della banana (Chiquita, Dole, Del Monte) è superiore al totale delle esportazioni –banane più tutto il resto– dell'intero gruppo dei paesi dell'Apec, fra cui Costa d'Avorio, Madagascar, Camerun, Giamaica. E gli stessi paesi si ritrovano di fronte le multinazionali agli snodi cruciali della scena internazionale. Il testo base del grande Accordo sull'Agricoltura del Wto (l'organizzazione mondiale del commercio) è stato materialmente steso da Dan Amsturz, ex vicepresidente della Cargill (il gigante dei cereali) traslocato negli uffici dell'amministrazione Clinton.
Questo potere, comunque, è assai più ramificato del rapporto con i governi. «Qualche decennio fa –annota l'Unctad– il dominio delle multinazionali era dovuto a come agivano sui mercati internazionali. Ora, sempre più, nasce dalla loro influenza diretta su quello che si produce e come».
«Trent'anni fa –racconta un trader svizzero, che da poco ha smesso di occuparsi di cotone africano– molte multinazionali possedevano le fabbriche di prima raffinazione, i posti dove i contadini dell'area portavano in pratica le loro piante. Poi. queste fabbriche sono state nazionalizzate. Gli organismi statali erano, spesso, un centro di inefficienza e di corruzione. Adesso, sono stati quasi ovunque privatizzati. E siamo tornati alla situazione di trent'anni fa, con le multinazionali nelle fabbriche. E dove altro porterebbero il loro cotone i contadini?» Per alcuni, non c'è neanche quello. Le liberalizzazioni e le privatizzazioni sollecitate dal Fmi, il Fondo monetario internazionale, hanno, infatti, avuto, a volte, l'effetto di escludere fasce di contadini: la Banca mondiale registra che, ad esempio, in Zambia, da quando è stata abolita l'agenzia commerciale statale, nessuno compra più il mais dei campi più lontani dalle strade.
Questo potere monopolistico, secondo la  Fao, è tanto più forte quanto più le multinazionali controllano l'intera catena di distribuzione, perché recuperano profitti nelle fasi a valle del campo. Infatti, il divario fra prezzo alla produzione e al consumo si allarga inesorabilmente. L'Ocse calcola che, del prezzo finale del tabacco, la quota del contadino sia del 6 per cento. Per il caffè, all'agricoltore va dal 12 al 25 per cento. Per il cotone dal 4 all'8 per cento. Sono stime generose. L'Oxfam, un'organizzazione non governativa inglese, calcola che, per il caffè, siamo al 7 per cento. «Per il cotone –dice l'ex trader– la quota del materiale grezzo sul prezzo di una camicia venduta a New York, è intorno all'1 per cento». Per le multinazionali del settore, d'altra parte, la caduta del prezzo della materia prima è spesso un vantaggio, perché è un costo interno: «Nel caso della Cargill –sottolinea Sophia Murphy, dell'Institute for Agriculture and Trade Policy, canadese– i cereali sono un costo interno, come cibo dei vitelli nell'industria della carne».
La Cargill è una delle più grandi nel pugno di multinazionali del settore, che fatturano, ogni anno, decine di miliardi di dollari. Negli anni '90, mentre si sgonfiava la nuova economia, la più vecchia industria del mondo realizzava miliardi di dollari di profitto l'anno. Ma, nella maggior parte dei casi, siamo di fronte, più che alla «old economy», ad un'economia antica. Nel censimento che abbiamo fatto, solo alcune delle multinazionali (come la Nestlè, la Kraft, Chiquita e Dole, Procter&Gamble) sono «public companies», quotate in Borsa. Molte, nonostante gli enormi fatturati, la complessità e la ramificazione degli interessi in tutto il mondo, le eccezionali necessità di finanziamento, sono ancora imperi familiari, spesso secolari: un evento rarissimo nel mondo globalizzato di oggi, anomalo nella finanza internazionale, che non si riscontra, con così puntuale frequenza, in nessun altro settore. E' in quei consigli di amministrazione, al riparo dai controlli di azionisti di minoranza e fondi di investimento, come dagli obblighi di trasparenza dei bilanci e delle strategie, imposte dalle Borse, che si dominano uno o più mercati: come nel caso della Cargill (la più grande azienda non quotata del mondo) leader nei cereali e nel cacao, o della Luis Dreyfus (cereali e cotone). Il mercato mondiale dei cereali (soia, frumento, mais) è dominato da cinque aziende in mano a sette famiglie. Anche i due altri grandi del cotone, dopo la Luis Dreyfus, sono aziende familiari, non quotate. La Barry Callebaut (cacao) e la Del Monte (banane) sono saldamente controllate, rispettivamente, dalla famiglia Jacobs e da Abu Ghazaileh, degli Emirati Arabi, con i suoi parenti. La Bunge, un altro grande del grano, è arrivata in Borsa solo l'anno scorso.
Non tutto è facile, neanche per aziende così grandi e potenti. Le osillazioni dei mercati, da quando la speculazione finanziaria ha imparato a guardare nelle borse merci, possono essere pericolose. «Gli hedge funds, con la loro capacità di muovere enormi somme nelle speculazioni –nota l'ex trader di cotone– hanno messo in ginocchio più d'uno». E' il caso della André, un altro gigante dei cereali, costretto oggi a liquidare molte attività, dopo i rovesci della crisi asiatica e, poi, di quella russa. E' il mercato, bellezza. Ma non è lo stesso mercato dei paesi poveri.