La mercificazione dell'aiuto Tra il 1983 e il
1988 il flusso netto di capitali privati verso i paesi del
Sud ammontava a 15.1 miliardi di $, mentre il flusso di capitali
pubblici (al netto delle restituzioni del debito e degli interessi
ad esso collegati) era di 29 miliardi di $, con un rapporto
pubblico/privato pari a 1.92. Nel quinquennio successivo la
quota di capitale privato era salita a 107.6 miliardi a fronte
dei 20.4 di aiuti ufficiali, la ratio era passata al 5.03 a
favore dei primi. Nel 1996 il capitale privato forniva sovvenzioni
per 200.7 miliardi di $ a fronte dei 3.8 di enti ufficiali,
nel 1998 la quota del capitale privato raggiunse i 268 miliardi
di $, e se è vero che sul computo totale pesano i finanziamenti
forniti dalle società transnazionali alle Tigri Asiatiche,
questa tendenza è facilmente riscontrabile anche in Africa:
5.0 miliardi in aiuti ufficiali contro 3.5 privati nell’88;
nel ’96 6.0 miliardi dei primi contro 7.2 dei secondi.
[1]
Il maggiore peso del finanziamento privato porta
con se la conseguenza inevitabile di accordare maggiore importanza
agli interessi dei finanziatori privati; letto con maggiore attenzione,
questo processo non è altro se non la
mercificazione completa dell’aiuto ai paesi periferici,
ovvero la penetrazione profonda del capitalismo in un’attività che,
sebbene da sempre ad esso funzionale, ora ne acquisisce manifestamente
il linguaggio, la logica, i modi di funzionamento. Le Ong nei
loro progetti, così come la Banca Mondiale nei suoi rapporti
annuali, parlano di “nicchie” di mercato, dello sviluppo altrui
come “prodotto”, dei beneficiari come “clienti”. La capacità di
vincere bandi di concorso per la cooperazione dà vita a saperi
specifici, nuove professioni e specializzazioni tecniche, fino
a creare un indotto di vaste dimensioni ad essa correlato; il
tutto rafforza il circolo vizioso della sopravvivenza di una
industria abbastanza matura da camminare con le proprie gambe,
capace di assicurarsi da sola la fonte del proprio sostentamento,
a patto di sostituire con estrema disinvoltura e cinismo il mezzo
(la propria esistenza) con il fine (lo sviluppo) e viceversa. La tirannia del progetto
La realizzazione di azioni complesse, come indurre
lo sviluppo socio-economico in senso modernista, necessita di
una organizzazione razionale, poiché nelle nazioni ricche la
responsabilità e l’affidabilità, senza menzionare l’efficienza,
sono valori fondamentali quando si tratta di grandi obbiettivi:
gli interventi vanno pianificati, condotti e finanziati; la loro
complessificazione genera inevitabilmente una specializzazione
operativa all’interno del processo produttivo che dà vita a sua
volta ad una configurazione modulare delle diverse funzioni.
Esse necessitano di saperi specifici in relazione diretta al
grado di autonomia operativa ed efficienza che riescono a raggiungere,
e questa dinamica crea una spirale di autoespansione tendenziale
fino a che i moduli non si separano ulteriormente per divenire
comparti autosufficienti, collegati tra loro secondo assetti
variabili e flessibili. Dalla produzione, la spinta perenne alla
ricerca di efficienza, genera la necessità di supervisione standardizzata,
nonché una gestione razionale dei processi, l’ottimizzazione
dei tempi di produzione rende indispensabile un’amministrazione
burocratizzata che realizzi un controllo profondo dei lavoratori
e una struttura di gestione delle “risorse umane” efficace nel
condizionare le scelte operative.
[2]
La questione della continua
innovazione legata alla competitività genera l’istanza
della ricerca e della sperimentazione; infine va
organizzata la fase di post-produzione, quindi
la pubblicità e le pubbliche relazioni. Affinché il processo produttivo sia ininterrotto,
esso deve affrancarsi dalle persone che lo attuano per dipendere
dalle funzioni che quelle persone svolgono, quindi l’organizzazione
inizia ad assumere delle strutture funzionali proprie come i
ruoli, le procedure, i sistemi di valutazione, finanche un proprio
stile, una specifica “personalità”. Di fatto il sistema di relazioni
che essa incorpora si comporta, in quanto tale, analogamente
ad un organismo vivente: innanzitutto vuole sopravvivere. Sopravvivere nell’habitat del capitalismo storico
significa tutt’altro che attestarsi su di una posizione raggiunta;
l’imperativo è crescere:
Cresci o muori,
cambia o muori.
[3]
La crescita in questione non attiene puramente
alla dimensione organizzativa, bensì implica la ricerca di nuove
aree di mercato, vale a dire un più ampio bacino di clienti disposti
ad acquistare il prodotto. Ovviamente queste prerogative appartengono
a tutti i sistemi di relazione strutturati in funzione del profitto,
anche se, altrettanto ovviamente, esse si mostrano in forma tanto
più nitida e razionale quanto più ne
osserviamo il funzionamento in contesti altamente “evoluti” dal
punto di vista organizzativo. Come una piccola ditta informatica
cerca nuovi clienti, così fa una transnazionale di consulenza
e produzione software, ciò che cambia non è la natura della relazione
bensì la dimensione degli obbiettivi e gli strumenti a disposizione
per raggiungerli.
[4]
Ma quanto ci servono questi strumenti analitici
per comprendere il funzionamento dell’industria dello sviluppo? Innanzitutto dobbiamo constatare che essa tende
implicitamente, talvolta anche esplicitamente, verso il modello
dell’impresa for-profit.
Se il linguaggio non è mai svincolato dalla dimensione sociale
che incorpora (Foucault, 1972), dovrebbe farci riflettere il
fatto che la Banca Mondiale dal 1996 in poi nei suoi rapporti
si riferisce ai poveri del mondo come a dei “consumatori”; CARE,
Oxfam o Save The Children parlano dei destinatari dell’aiuto
in termini di “clienti”; le Ong definiscono il risultato del
loro lavoro come “prodotto”.
[5]
La tensione verso il modello
dell’impresa moderna si manifesta chiaramente nella
pratica di pagare consulenti esterni esperti in
ottimizzazione di strutture organizzative, che
ne verifichino l’efficienza e la velocità nel processo
decisionale nel contesto di una crescente competitività. Tutto ciò non è negativo in sé, ma forse ci distrae
da una constatazione essenziale e cioè che se la missione dello
sviluppo mira a fare in modo che i destinatari dell’aiuto non
debbano più avere bisogno di esso per sopravvivere, per autorganizzarsi,
per gestire infine da soli la propria vita individuale e di gruppo
e le risorse a loro disposizione, allora l’auspicio, se non l’obbiettivo
ultimo dell’industria dell’assistenza allo sviluppo dovrebbe
essere la propria estinzione progressiva e definitiva. Il segnale
dell’avvicinamento alla meta dovrebbe profilarsi come un arretramento
incrementale dai territori di azione socio-economica occupati
oggi dalle attività di cooperazione, mentre, sebbene negli ultimi
dieci anni sia aumentata l’enfasi sulla costruzione
di capacità, (Degnbol-Martinussen e Engberg-Pedersen, 2003)
di fatto le pratiche eterodirette di implementazione dell’aiuto
diventano sempre più intrusive. La questione essenziale, a nostro
avviso, è che la logica
di funzionamento dell’industria dello sviluppo schiaccia gran
parte delle possibilità di scelta al suo interno, sottraendo
sistematicamente la possibilità che tale arretramento abbia luogo:
l’imperativo della sopravvivenza è una forza cieca che cattura
le organizzazioni nella trappola
del “fare” :
I progetti di sviluppo di comunità o di
microcredito, benchè meno tangibili di una strada o di una scuola
nelle mani delle organizzazioni dello sviluppo, riguardano il “fare” qualcosa,
e ciò coinvolge inevitabilmente cose tangibili. Un progetto di
microcredito implica l’acquisto di computers e veicoli, lavagne
per gli incontri, contratti di stampa per i libretti di risparmio,
e cose simili. Il pane e il burro delle organizzazioni di assistenza
allo sviluppo grandi e piccole è “fare” cose.
[6]
Questa attitudine
all’agire diverge
dalla rappresentazione (per
altro unanimemente accolta) dello sviluppo come un processo dalle
sembianze non necessariamente materiali, riguardante le istituzioni,
le leggi, le capacità umane, l’autocoscienza, l’identificazione
dei problemi e la formulazione delle soluzioni, l’organizzazione
dal basso e la dignità dell’uomo (Sen, 2000). La dimensione temporale
entro cui esso avrebbe luogo è solennemente accettata come incalcolabile:
qualsiasi considerazione a riguardo sembra trascendere ogni plausibile
coordinata quantitativa per procedere asintoticamente verso un
approdo non definitamente intellegibile. Eppure nella realtà materiale,
gli interventi di assistenza allo sviluppo sono racchiusi entro
limiti temporali draconiani che segmentano il processo in quella
serie articolata di azioni limitate nel tempo e nello spazio,
impacchettate, etichettate e infine commercializzate, note come “progetti”. Sebbene abbia rappresentato da sempre l’unità logica
fondamentale alla base di tutta l’attività di cooperazione, la
forma progetto risponde all’imperativo dell’affidabilità imposto
dalla circostanza che l’industria dell’aiuto vive del denaro
altrui:
Il processo è circolare. I finanziamenti
non possono andare in astratto allo “sviluppo”, così esso viene
organizzato; l’organizzazione, come persona legale, può ricevere
e spendere denaro. Ma siccome ovviamente il donatore vuole sapere
come viene speso il denaro, il progetto diviene l’unità di calcolo
appropriata.
[7]
Il progetto offre garanzie funzionali mutuate dal
sistema generale di produzione, giacché le attività possono essere
pianificate, in virtù di esse si può assumere personale, si può calcolare
un budget, dare il via all’esecuzione e valutare
i risultati in base a degli indicatori parziali e definiti in
base al progetto stesso prima del suo avvio, in modo da produrre
infine dati quantitativi misurabili e comparabili. L’USAID nel
corso degli anni ’90 ha perfezionato un modello di elaborazione
progettuale nato all’inizio degli anni ’80 negli ambienti manageriali
delle coorporations americane (alle prese con il toyotismo),
noto come struttura logica
del progetto o ciclo
di vita del progetto, che oggi costituisce lo standard di
riferimento per la stesura dei progetti di cooperazione.
Esso propone una forma logica di elaborazione
e presentazione, e conduce a stabilire indicatori che permettano
di misurare in maniera operativa, sintetica e attendibile gli
obbiettivi e i risultati, facilitando la valutazione e rendendo
possibile la comparazione di progetti diversi. […] le fasi del
ciclo di progetto sono la programmazione indicativa, lo studio
di fattibilità, la programmazione dettagliata, il finanziamento,
l’esecuzione e la valutazione.
[8]
Ciò impone una omologazione generalizzata
rispetto a standard di affidabilità imposti e vincola ad immaginare
le pratiche di intervento in un quadro definito da procedure
burocratiche rispetto a cui adattarsi per poter competere nel
reperimento di fondi. Da un lato, le esigenze di coloro che offrono
il denaro modellano le proposte di finanziamento che le organizzazioni
elaborano (nel senso che queste ricercano la massima aderenza
possibile ai criteri e ai requisiti richiesti nei bandi di concorso);
dall’altro la valutazione stessa dell’efficacia delle azioni
condotte è viziata inevitabilmente dall’istanza di sopravvivenza
di coloro che le conducono: un finanziamento triennale ripartito
in tranche erogate
ogni dodici mesi e subordinate ciascuna rispettivamente alla
conclusione positiva del ciclo annuale precedente, può trasformare
una valutazione non soddisfacente dei risultati in una condanna
a morte per l’organizzazione e ciò influisce negativamente sull’obiettività con
cui tale operazione verrà condotta, sintetizzata e comunicata.
Facciamo un esempio:
L’Ong che ha ottenuto un contratto dall’USAID
per un programma di formazione in tecniche agricole nel Mali,
compila il modulo del ciclo di progetto e alla fine dei dodici
mesi invia il suo rapporto all’impiegato dell’agenzia incaricato
di occuparsene. Il rapporto dice “abbiamo addestrato 7.486 lavoratori
agricoli come previsto dal progetto”. L’impiegato barra un quadratino,
timbra “approvato” e ne invia una copia indietro all’Ong e un’altra
all’ufficio erogazione fondi dell’USAID, che rilascia la tranche successiva
di fondi all’organizzazione appaltatrice.
[9]
Oltre che evidenti problemi di trasparenza e aderenza
alla realtà
[10]
, questa logica operativa è inquinata
da modalità di funzionamento strutturali indipendenti
dalla buona fede dei soggetti coinvolti, legate
anch’esse al contingentamento temporale caratteristico
del congegno progetto: se appare plausibile il
computo dell’input del processo, più complesso
appare verificarne il reale impatto; la valutazione
finale di un progetto ci informa su quanti lavoratori
agricoli sono stati addestrati, ma può dirci poco
sull’inserimento di essi nel medio termine nel
mercato del lavoro, sul grado di interiorizzazione
e di utilizzo delle conoscenze trasferite, né tanto
meno sui benefici che essi sono in grado di fornire
alle proprie comunità. Paradossalmente per proseguire
il lavoro ciò che ci verrebbe in mente è un nuovo
progetto! Tuttavia la possibilità di dare continuità ai
risultati viene minata dalla strutturazione stessa
dell’aiuto: l’enfasi sulla sostenibilità degli
obiettivi raggiunti, nel medio periodo viene mortificata
dal prosciugamento delle risorse immediatamente
successivo alla conclusione del progetto; l’incapacità gestionale
delle istituzioni locali nei paesi della periferia,
prodotta dai processi sistemici di progressivo
indebolimento di queste regioni, moltiplicata dalla
crisi del debito degli anni ’80, istituzionalizzata
per mezzo dell’Aggiustamento Strutturale e riprodotta
in ultima analisi dall’industria dello sviluppo
come propria fonte di sostentamento, spazza via
il più delle volte i germogli di quelle capacità indigene
che in molti casi, nonostante tutto, timidamente
spuntano dal terreno arido dell’indigenza coattivamente
indotta. Più che per i poveri, la forma progetto è affidabile
ed efficace per chi edifica la propria attività professionale
sul denaro degli aiuti, poiché esso offre dei notevoli vantaggi
dal punto di vista della visibilità: è molto più immediato, quindi
redditizio, veicolare l’immagine di un progetto sull’alfabetizzazione
femminile in un distretto rurale del Mozambico, supportata da
dati quantitativi che ne dimostrino l’efficacia ottenuta nel
più breve tempo possibile, piuttosto che dipingere con seria
meticolosità l’evolvere di un processo dalle direzioni controverse
e spesso poco incoraggianti come la situazione delle malattie
endemiche nel Sud Est Asiatico. Quest’ultimo lavoro è svolto
in una certa misura dalle agenzie delle Nazioni Unite, ma per
coloro che vivono dei finanziamenti dei donatori e che competono
nella lotta per accaparrarsi i fondi, ciò che conta è l’immagine
di efficienza che essi sono in grado di vendere ai propri finanziatori,
siano essi individui, istituti pubblici o fondazioni private. Il punto è che questa frammentazione riflette l’attitudine
alla flessibilità che contraddistingue il funzionamento dei processi
economici nell’era postfordista: il frantumarsi delle prospettive
di stabilità e continuità che rende precaria la condizione della
stragrande maggioranza degli operatori economici, delle imprese,
così come di coloro che vi lavorano all’interno, rende la capacità di
riconvertire continuamente la propria attività, l’unica strategia
possibile per galleggiare nelle sabbie mobili della competitività globale.
Lo stesso vale per l’industria dello sviluppo:
Le organizzazioni devono tenersi in movimento.
Il personale può spesso “sfuggire al futuro” attraverso il susseguirsi
di progetti fotogenici e di breve gestazione. La sostenibilità diviene
un problema di qualcun altro. È facile ripudiare la paternità di
progetti lasciati nelle mani della popolazione locale…
[11]
Se per descrivere il sistema delle organizzazioni
private e degli uffici governativi coinvolti nella cooperazione,
può essere utile la metafora dell’ecosistema del fiume, in cui
il flusso d’acqua è costituito dal fluire di denaro che innerva
il suolo e crea canali di deflusso (Tvedt, 1997, pp. 76 e ss.),
allora la sorgente va individuata nell’imperativo di spendere il denaro. Alcune
fondazioni come la Harry Ford Foundation o quella più recente
appartenente a Bill Gates hanno delle ragioni fiscali per farlo
visto che devono donare una quota fissa del proprio patrimonio
per conservare quei privilegi tributari che le derivano dallo
status legale di fondazione caritatevole. L’USAID deve spendere
la quota stabilita dal Congresso all’inizio di ogni anno, pena
la procedura amministrativa di inadempienza e la decurtazione
sul finanziamento per l’anno successivo; la Norvegia deve assicurare
una quantità di spesa in cooperazione tale da preservare il suo
primato tra le nazioni ricche relativo alla quota di aiuto rispetto
al PIL; la Banca Mondiale deve giustificare le contribuzioni
miliardarie dei suoi membri e così via (Ditcher, 2003, pp. 191).
Il tutto deve avvenire entro il volgere dell’anno fiscale, circostanza
che impone un ritmo di spesa incalzante alla paradossale e intimamente
capitalistica esigenza di spendere per spendere: ciò attira inevitabilmente
altri desiderosi di mettere le mani su quei soldi, i quali mettono
in moto ancora altri soggetti, ampliando fette di mercato di
settori contigui e creando un vero e proprio indotto (società di
consulenza, marketing, agenzie di viaggi, società di stampa e
quant’altro), con l’effetto di rendere vorticoso questo circolo
vizioso e di moltiplicare esponenzialmente la quantità di progetti.
Professione: filantropo
Il grado di complessità e specializzazione raggiunto
dall’industria dello sviluppo richiede saperi specifici, figure
professionali altamente qualificate e competenze nuove. La Banca
Mondiale ad esempio annovera 52 aree d’intervento tra cui AGR
(Agricoltura), TRP (Trasporti), BAN (Credito), HPE (Salute e
Nutrizione), PPN (Popolazione e Demografia); all’interno di ciascuna
di esse esistono centinaia di specializzazioni professionali,
suddivise a loro volta in livelli di competenza. Questa organizzazione
razionale in cui si articolano i processi operativi nelle strutture
estese come la Banca Mondiale o le Ong internazionali, semplifica
la gestione del personale e la formazione degli staff per ciascun progetto, consentendo
il computo automatizzato dell’informazione ad essi relativa.
[12]
Alcune figure riguardano mansioni
più tecniche le cui competenze vengono fornite
entro strutture di formazione da cui l’industria
dello sviluppo mutua conoscenze specifiche: agronomi,
zootecnici, ingegneri, medici ecc. Altre provengono
anch’esse dall’esterno ma sono attualmente integrate
nel sistema a causa dei fenomeni di mercificazione
che abbiamo descritto: ci riferiamo ad esempio
agli esperti appaltatori di contratti per attività di
cooperazione internazionale. Molti di essi lavorano
oggi come liberi professionisti e sono attualmente
tra i più richiesti sul mercato del lavoro; al
pari dei funzionari commerciali delle ditte di
consulenza, o dei famosi key account responsabili dei “portafogli” clienti delle imprese commerciali,
la loro funzione è quella di “fare incontrare la
domanda con l’offerta”, vale a dire compilare un
progetto di finanziamento in modo tale che l’organizzazione
privata per cui sta prestando servizio, possa vincere
il bando di concorso indetto dall’ente erogatore
promotore della gara d’appalto. La retribuzione
dipende in parte dall’approvazione del progetto
ed è in percentuale rispetto all’ammontare dei
finanziamenti ottenuti. Un po’ come per gli avvocati.
[13]
Altre figure sono invece emanazione di strutture
di produzione del sapere direttamente funzionali all’assistenza
allo sviluppo, istituzionalizzatesi parallelamente alle attività di
cooperazione.
[14]
Università e istituti di ricerca
specialistici hanno contribuito fortemente alla
professionalizzazione del settore: alcuni tra questi,
oltre a fornire corsi di laurea o masters in
discipline attinenti allo sviluppo, collaborano
con gli enti governativi dei paesi del centro per
addestrare personale proveniente dai paesi della
periferia.
[15]
Esistono consorzi internazionali
di università che
collaborano alla formazione del personale e all’elaborazione
di piani di sviluppo, i loro ricercatori lavorano periodicamente
presso le istituzioni internazionali multilaterali e la loro
attività in queste realtà diviene una parte importante della
carriera del professionista, migliorandone ovviamente lo
status professionale e retributivo. Ciò fa sì che aumenti
in volume e velocità la circolazione di idee, parole d’ordine,
metodi e approcci che rafforzano l’ibridazione tra soggetti
differenti e rende più coesa l’industria al suo interno.
La dinamica dell’integrazione logico-concettuale è suffragata,
o meglio stimolata, dalla formazione di associazioni di studiosi
di sviluppo, dal confronto entro ambiti relazionali dialettici
quali conferenze, convegni e seminari cui fanno eco articoli,
pubblicazioni e riviste specializzate.
[16]
L’evoluzione del capitalismo e quindi
dell’organizzazione delle attività, necessita in determinati
nodi operativi di lavoro mentale più che materiale e questa
dinamica si evidenzia soprattutto nell’espansione del terziario
nei paesi più ricchi; le metamorfosi del settore dell’assistenza
allo sviluppo rispondono anch’esse a questa riorganizzazione. Coloro che scelgono di intraprendere un percorso
lavorativo all’interno dell’industria aspirano a condizioni retributive
e prospettive di carriera grosso modo standardizzate;
la loro preparazione per competere nel mercato del lavoro pretende
l’uso di un linguaggio specifico e di conoscenze settoriali peculiari;
ancora una volta ciò non è negativo in sé, ma il suo significato
va rapportato metodicamente agli effetti che produce, non solo
in termini di risultati generali bensì di ulteriori processi
innescati. Di certo le figure che stiamo descrivendo non corrispondono
all’immagine dei volontari dei corpi di pace degli anni ‘60 che
riusciamo ad immaginare, e forse non abbiamo tutti i torti visto
che alcuni di loro, come lo stesso Ditcher, oggi scrivono:
Forse sto mitizzando il passato, ma molte
persone entravano nel mondo dello sviluppo per una sorta di vocazione,
di chiamata. Oggi è una professione. […] L’idealismo stesso sembra
essere cambiato. Se eri uno ambizioso, non entravi nello sviluppo.
Il terreno dello sviluppo, specialmente nelle Ong, era consapevolmente “anti-ambizione”.
Oggi, sebbene la maggior parte dei giovani che scelgono di intraprendere
una carriera nello sviluppo hanno ancora come ideali l’aiutare
gli altri, essi sono anche ambiziosamente concentrati sulla loro
carriera e sui livelli di remunerazione. Chiamiamoli pure “ego-idealisti”.
[17]
Sebbene
permanga effettivamente ancora una sostanziale componente di
volontari nel personale
delle Ong più piccole, la tendenza generale ci appare chiaramente
quella di pagare le attività; per quanto parziale, o a volte
esigua nelle realtà organizzative non pienamente professionalizzate,
la retribuzione è sicuramente la norma a partire da quelle di
medie dimensioni che riescono a garantirsi una certa continuità nella
stipula dei contratti di cooperazione, e soprattutto, se guardiamo
ai contesti in cui questi processi hanno luogo da più tempo (Stati
Uniti, Inghilterra, paesi scandinavi), l’evoluzione del processo
sembra continuare lungo questa direzione, per assumere dimensioni
ben più significative man mano che risaliamo la gerarchia delle
figure professionali e ci avviciniamo ai paesi più ricchi: da
un rapporto dell’USAID sulle organizzazioni del settore, emerge
che
un giovane ventiseienne laureato in studi
sullo sviluppo potrebbe arrivare a guadagnare 60000 $ l’anno
lavorando per una società di consulenza, o se sceglie di prestare
servizio presso una Ong affermata il suo stipendio sarà circa
di 35000$ l’anno. Il capo esecutivo di una Ong di medie dimensioni
che muove denaro per 10 milioni di $ l’anno ne guadagnerà pressappoco
160000, mentre il presidente di una grossa organizzazione come
CARE arriverà fino a 250000. La retribuzione massima per ora
fornita dalla Banca Mondiale e di 100$, 800 per l’intera giornata.
Un impiegato dell’USAID con 24 anni di servizio percepisce tra
gli 80000 e i 100000 $ l’anno, un consulente senior della Banca Mondiale con la stessa
anzianità di servizio ne guadagna 130000.
[18]
Obbiettivamente dinanzi a certe cifre c’è da sgranare
gli occhi se le paragoniamo ai livelli remunerativi nazionali,
ma probabilmente è la stessa sensazione che prova un ingegnere
nostro connazionale nell’osservare la busta paga di un collega
americano. Dopo lo shock però riusciamo senza difficoltà di
sorta a porre la questione del lavoro nell’aiuto allo sviluppo
in termini di una qualsiasi altra occupazione, percependo quindi
in che misura l’istanza della carriera viva di vita propria nel
momento in cui qualcuno vi riponga le proprie speranze di affermazione
sociale, di indipendenza economica e di realizzazione professionale,
dopo avervi investito tempo e fatica. Certo la professionalizzazione di un’attività assegna
a quest’ultima uno status di maggiore riconoscibilità sociale,
di affidabilità e di efficienza nell’espletamento delle proprie
funzioni, ma nel caso dello sviluppo dei paesi del Sud, essa
implica necessariamente anche una maggiore capacità performativa
nell’ottica del raggiungimento degli obbiettivi prefissati? Continuiamo a tenere a mente la rappresentazione
che l’industria dello sviluppo da di sé, e cioè di una comunità di
intenti tesa a generare
benessere altrui e costruire le condizioni della replicabilità e
della sostenibilità di questo nel lungo periodo. Ebbene, la realtà dei
paesi poveri testimonia sostanzialmente la mancanza di esperti
in politiche di sviluppo a causa dell’assenza strutturale di
incentivi personali, sociali ed economici capaci di consentire
a membri della popolazione locale di mantenersi occupandosi di
questi temi.
[19]
Perfino la Banca Mondiale in
un rapporto del 1991 in tema di effetti delle politiche
di aggiustamento strutturale, ha dovuto ammettere
che
[…]le difficoltà nel reperire personale
qualificato locale per lavorare nel servizio pubblico (bassi
salari, cattive condizioni di lavoro, ecc.) aumentano la richiesta
di assistenza tecnica di breve durata, impedendo il processo
di lungo termine di creazione di capacità…prolungando la dipendenza
dall’aiuto estero.
[20]
Questo vuoto professionale viene riempito, per ovvie
ragioni di tempo e di “allergia interiore all’inerzia”, da personale
esterno proveniente dai paesi ricchi, il quale paradossalmente
prospera nell’assenza di quella che dovrebbe essere la “controparte”.
Se la professionalizzazione implica un crescente stimolo all’efficienza
nello svolgimento delle mansioni assegnate, realizzato attraverso
un sistema di sacrifici, incentivi, aspettative e ricompense,
allora
[…]chi dovrebbe risolvere il problema, i
governi poveri o il personale dirigente dell’assistenza estera
allo sviluppo? Questo è uno dei numerosi circoli viziosi: gli
incentivi per un gruppo (gli esperti stranieri ben pagati) sono
tali da non fargli notare che la mancanza di incentivi per il
gruppo che dovrebbe aiutare è il cuore del problema che stanno
cercando di risolvere. È un classico caso di assenza di un colpevole:
i professionisti non sono da biasimare per l’incapacità o il
disinteresse dei governi dei paesi poveri di pagare di più gli
impiegati locali, ma nondimeno essi divengono parte del problema…se
l’interesse del “cliente” è di raggiungere l’autosufficienza,
allora creare dipendenza dagli esperti esterni costituisce un
conflitto di interessi.
[21]
Questo è l’effetto collaterale della professionalizzazione
dell’aiuto allo sviluppo, vale a dire la capacità di creare un’altra
forma di dipendenza complessa che rafforza quella strutturale
determinata dalla riproduzione della debolezza istituzionale,
causata a sua volta dall’ingerenza delle organizzazioni private
nella dimensione sociale.
[22]
La stessa dinamica è riscontrabile
in altri processi di interazione tra esperti dello
sviluppo e popolazione locale di cui il livello
istituzionale è solo un esempio, poiché l’umana
(o forse moderna) spinta all’autoaffermazione individuale,
l’imperativo della carriera, la necessità del sostentamento
proprio ed eventualmente della propria famiglia,
l’aspirazione ad una vita soddisfacente (Chambers,
1996) vanno in direzione diametralmente opposta
rispetto alle necessità di lungo periodo di coloro
che si vorrebbe e dovrebbe aiutare e sulla cui
debolezza invece si costruisce il proprio presente
e si immagina il proprio futuro, consapevolmente
o meno.
[1]
Cfr World Bank, World Development Report, 2000-2001, pp.
190 [2] Harvey, 1997 [4] Gli ultimi decenni di regime di accumulazione flessibile, ci hanno insegnato che la mega-struttura non è necessariamente vincente rispetto a quella microscopica. La storia dei distretti industriali sembra dimostrare che spesso le imprese più piccole si adattano meglio alle esigenze di un mercato che riorienta in continuazione le necessità produttive. Ferma restando una forte integrazione più che competitività tra realtà medio-piccole locali e colossi transnazionali, ciò che viene in rilievo nella nostra analisi è che nelle forme organizzative estese è possibile osservare la forma più estrema di specializzazione modulare di un’attività produttiva, con una separazione compartimentale dei processi spinta fino al limite della completa esternalizzazione di intere attività. Ci riferiamo ad esempio ai processi di outsourcing delle società di consulenza.
[5]
La concettualizzazione dello sviluppo altrui
come risultato di un processo produttivo da parte delle organizzazioni
dell’aiuto, è una trappola concettuale. In cosa consisterebbe
la sua essenza? Di quali caratteristiche sarebbe dotato? Ma soprattutto, è anch’esso
inquadrabile entro dinamiche di domanda e offerta? Secondo David
Sogge ad esempio questa relazione sarebbe viziata dalla circostanza
che la domanda del prodotto sviluppo, sotto forma di pacchetto
di interventi, non sarebbe effettiva: la vera necessità da parte
dei destinatari, sarebbe quella del denaro veicolato attraverso
questa attività e la domanda di progetti di cooperazione sarebbe
dunque in sé fittizia. [6] Ditcher, 2003, pp. 185 [7] Sogge, 1996, pp. 32 [8] Ianni, 1999, pp. 101 [9] Ditcher, 2003, pp.187 [10] Chambers ad esempio condanna violentemente l’utilizzo metodico dei questionari da somministrare alle popolazioni rurali come metro reale della riuscita di un progetto, evidenziando come in realtà molti sistemi di valutazione attuati dagli ooperatori dello sviluppo costituiscano in realtà delle scorciatoie metodologiche che danneggiano i poveri falsando la realtà in cui essi vivono. Cfr. Chambers, 1996, pp. 56 e ss. [11] Bieckart, in Sogge, 1996 [12] Spesso la selezione dei consulenti avviene tramite elaboratori elettronici che utilizzano sistemi di gestione digitale di database relazionali, in cui vengono inserite schede informative standardizzate che contengono informazioni sulle capacità tecniche, le esperienze pregresse e quant’altro sia utile alla selezione del personale. Analoghe modalità di reclutamento vengono oggi ampiamente utilizzate dalle multinazionali del lavoro interinale. [13] Questa figura professionale è nata durante gli anni ’60 a Washington, all’epoca del primo incremento massiccio nella quantità di fondi messi a disposizione dal governo americano. Molte società si dedicarono da allora a questa specifica mansione e coloro che vi lavoravano venivano spesso chiamati con l’epiteto di “banditi della tangenziale”, dal momento che la maggior parte di queste imprese erano dislocate lungo la circonvallazione attorno a Washington DC. [14] Ibidem pp. 33
[15]
Cfr ad esempio per quanto riguarda il caso
italiano, Boffo Stefano, L’Università Italiana e lo Sviluppo. Le Collaborazioni
Internazionali e la Cooperazione con i Paesi in via di Sviluppo. Franco
Angeli Ed. Milano, 1993.
[16]
Qualche esempio: Development in Practice,
Public administration and Development, Asian Development Review,
Journal of Development Economics,e tantissimi altri.
[17]
Ditcher, 2003, pp. 228
[18]
Cfr USAID, 2001 Report on Voluntary Agency Engaged in Overseas
Relief and Development Registered with the US Agency for International
Development, Washington, D.C. 2001
[19]
Senza ritornare sulla questione della fuga
di cervelli, basti pensare che molti outsiders operatori
dello sviluppo recatisi per lavoro in paesi poveri testimoniano
il fatto che molti omologhi fanno più mestieri per arrotondare. (Cfr Chambers, 1983; Sen 2000)
[20]
World Bank, citato in Klitgaard,
1991 Chambers R., Rural Developement:
Putting the Last First, London, Longman Group UK Limited,
1983 (trad. it. Lo sviluppo rurale: mettere gli ultimi al primo posto
Portogruaro, Associazione culturale Giovanni Lorenzin,
Collana le radici, 1996). Chambers R., The new dynamics
of aid: power, procedures and relationships,IDS policy
briefing Issue 25, August 2001. Degnbol-Martinussen John and Engberg-Pedersen Poul., AID:
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Zed Books, 1999. Ditcher Thomas W., ”Despite
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crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore, 1993 Hikino T., Grande
impresa e ricchezza delle nazioni. 1880 - 1990, Bologna, Il Mulino, 1999 Hilrost Dorothea., ”The
Real World of NGOs: Discourses, diversity and development”,
London, Zed Books, 2003. Hobsbawm David Jr. Il secolo breve. 1914-1989, l’era dei grandi cataclismi, 1995 R.C.S.
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sviluppo è libertà , Milano, Mondadori, 2000. Tvedt Terje, Angels
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1998 Wallerstein Immanuel, Dopo il Liberalismo, Jaca Books, 1996 |